mercoledì 1 luglio 2015

Storia dei Presidenti della Repubblica: la monarchia costituzionale di Re Giorgio

Luglio 2011. Il superministro dell’Economia Giulio Tremonti annuncia al paese che la locomotiva Italia non ha mai tirato così forte e che l’economia del nostro paese è tra le più sane e solide del mondo. Gli italiani possono andare in ferie tranquilli, la crisi è un’invenzione di chi vuole minare l’azione di governo e con essa i buoni effetti sulla ripresa italiana dopo le bolle speculative americane del periodo 2007-09.
Gli italiani in ferie ci vanno, più o meno tranquilli come sempre, al massimo al ritorno - credono - troveranno qualche balzello in più o qualche bolletta rincarata, come sempre. E’ difficile peraltro non credere a un Tremonti apparso fino a quel momento un genio della finanza mondiale, uno dei probabili prossimi Premi Nobel per l’Economia.
Al ritorno, gli italiani trovano la crisi economica più spaventosa della loro intera storia. E un Presidente della Repubblica che con volto grave e voce costernata annuncia che il paese si trova sull’orlo di un baratro a cui confronto l’8 settembre era roba da ragazzi. Che l’Europa – prima ancora che la nostra dignità nazionale e la necessità di assicurare un futuro alle prossime generazioni – ci chiede scelte dolorose, difficili e irrinunciabili.
E’ un uomo da sempre amante della retorica Giorgio Napolitano. Avrebbe fatto la sua figura nell’epopea risorgimentale o dannunziana, i suoi discorsi avrebbero rivaleggiato con quelli di Camillo Benso Conte d Cavour, di Vittorio Emanuele II, di Francesco Crispi o perfino del Vate, nei suoi momenti più alti ed ispirati. Ebbene, ci vuole tutta la sua retorica migliore per far digerire ad un popolo italiano frastornato, stordito da un precipitare di una situazione che neanche credeva esistesse tutta una serie di cose che in altri tempi e soprattutto in altri luoghi avrebbero forse scatenato reazioni di piazza o altre manifestazioni di quelle che solitamente vengono associate al termine democrazia.
Margaret Thatcher è stata uno dei più forti Premier della storia inglese, eppure fu abbattuta da una serie di dimostrazioni popolari allorché la gente comune nel suo paese decise che la Poor Tax andava contro il diritto comune e la stessa giustizia. Parigi ogni pochi anni rivede le barricate nelle strade, allorché il governo francese si azzarda a riproporre qualche provvedimento impopolare, come la contestatissima riforma della scuola superiore che, insieme ad altre cose, nel 2005 costò la poltrona al primo ministro Raffarin.
In Italia, nel mese e mezzo circa che occorre alle Istituzioni per informare il popolo che da locomotiva siamo improvvisamente diventati fanalino di coda dell’Europa, appena un gradino sopra delle Grecia in bancarotta e costretti per sopravvivere ad adeguarsi a una serie di diktat di ispirazione franco-tedesca, non succede niente di tutto ciò. Siamo abituati a sopportare, e il Presidente Napolitano questo lo sa bene, dall’alto dei suoi oltre sessant’anni di vita politica ha visto le rivolte di piazza a Budapest e a Praga (e ha inneggiato a chi le soffocava), in Italia al massimo ha visto l’Autunno Caldo e la Strategia della Tensione, roba da niente al confronto. Sa che la svolta che ha in mente avrà successo, il popolo stringerà i denti e la cinghia, e con ogni probabilità lui avrà il suo ritratto nella galleria dei veri o presunti Padri della Patria, dal Risorgimento in poi.
Non si saprà mai da dove è partita veramente la fantomatica telefonata di Angela Merkel che secondo la leggenda lo mise al corrente che l’Europa non tollerava più la permanenza al governo italiano di Herr Berlusconi. Non si sa quanto c’è di vero in quella leggenda, e soprattutto da quale cilindro uscì la soluzione che il Presidente pose davanti al paese perché l’Europa ce lo chiede. Sta di fatto che l’8 novembre 2011 Napolitano accetta le dimissioni di un Berlusconi che non ha più la fiducia del Parlamento, che il giorno precedente ha visto andare in fumo in Borsa il 30% dei titoli della sua Mediaset e non si sa quanto dei titoli dello stato di cui è Premier. E’ chiaro che qualcuno di molto potente non lo vuole più, come è chiaro che qualcosa nell’assetto politico-economico europeo sta precipitando. Quello che non è chiaro è ciò che succede dopo. Tutti, dalla Grecia alla Spagna all’Irlanda tornano a votare, scegliendo – a torto o a ragione – nuovi esecutivi più confacenti alle nuove necessità. Noi no.
Come se in Italia fosse ancora in vigore lo Statuto Albertino e la forma di governo monarchica, con una operazione perfettamente in linea con quella che portò il Maresciallo Badoglio a succedere al Cavalier Benito Mussolini, Giorgio Napolitano si inventa senatore a vita lex-commissario U.E. Mario Monti (fino a quel momento un oscuro travet della politica economica più legato alle grandi banche d’affari internazionali che al paese che ha rappresentato) così come il suo predecessore Ciampi si era inventato lui, e più o meno per gli stessi meriti. E due giorni dopo gli conferisce l’incarico di Presidente del Consiglio.
E’ un governo tecnico, secondo una tradizione italiana dei tempi di crisi che da Badoglio fino a Giuliano Amato ce ne ha fatte vedere – e inghiottire – di tutti i colori. Ma di solito si trattava di pochi mesi, giusto il tempo per arrivare alle elezioni successive e per gestire l’ordinaria amministrazione. Qui invece no, c’è qualcosa che non va, e da subito. Passi la dichiarazione iniziale di Monti, è una bellissima giornata (per chi? Per lui forse, non per chi sta perdendo in massa il lavoro o vede bruciarsi in poche settimane risparmi della vita di più generazioni), passi il sostegno (genuino o obbligato) di tutte le forze del Parlamento o quasi a lui e alla sua politica di “sudore, lacrime e sangue”. Quello che non va davvero è l’intenzione dichiarata di questo governo che ha avuto solo il voto di Giorgio Napolitano di porre mano a tutta una serie di riforme strutturali ed istituzionali per le quali la Costituzione rimandava a ben altre procedure, tra l’altro coinvolgenti necessariamente i cittadini.
Di tutto ciò, nella retorica di colui che comincia ad essere chiamato re Giorgio I (il primo a farlo è il Times di Londra, nientemeno) non ce n’è traccia. Solo richiami alla necessità di sacrifici sempre maggiori, di destini comuni europei insindacabili, di riforme istituzionali che un parlamento di esautorati non può e non potrà mai fare. E tante strette di mano a quella Angela Merkel e a quel Nicolas Sarkozy che se la sono ridacchiata in pubblico al nome di Berlusconi, senza rendersi conto che era alla faccia di un paese intero che ridevano, o forse sapendolo benissimo, come lo sa quel Monti che è fisso a casa loro, che elimina le prospettive di futuro di milioni di persone (lui che ogni mese guadagna settantamila euro circa), lui che al pianto di chi non ha più lavoro ostenta il pianto del ministro del lavoro Elsa Fornero.
E alla fine un solo scatto d’orgoglio, un’unica volta in cui il Presidente si ricorda di rappresentare gli italiani, quando dopo le elezioni del 2013 si trova in Germania e il leader della SPD Peer Steinbruck (che deve incontrarlo) non trova di meglio che dichiarare che gli italiani hanno eletto due clown, Grillo e – di nuovo – Berlusconi. Visita annullata, e ci sarebbe mancato altro che il contrario.

Le elezioni cadono nel periodo conclusivo del suo mandato, con il semestre bianco che complica un’impasse politica pressoché totale. Non si dimette in anticipo come Cossiga, non si ricandida come qualcuno gli chiede, da destra e da sinistra. Sarebbe l’ora di prendere il posto nella galleria dei ritratti. Ma evidentemente resistere a certe pressioni e a certi richiami non si può. Re Giorgio è destinato a succedere a se stesso.

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