domenica 13 settembre 2015

Un sogno chiamato Coppa Davis

8 aprile 2014

L’Italia che torna in semifinale di Coppa Davis è un po’ come quell’abbigliamento che torna di moda dopo un paio di generazioni, dopo essere stato da tempo classificato come vintage ed essere stato riposto in qualche armadio, per esserne ritirato fuori in fretta e furia allorché si è visto sulla copertina di qualche rivista, annunciato come l’ultima moda della stagione in arrivo. O la vecchia racchetta del babbo capitata in mano un sacco di volte quando si mette a posto la cantina, più volte sul punto di finire a qualche robivecchi e sempre tenuta tra gli oggetti che smuovono ancora qualcosa in un angolino del cuore, che mantengono un nonsoché di prezioso. Hai visto mai che prima o poi…
L’impresa di Fabio Fognini e Andreas Seppi è arrivata quando ormai non ci speravamo più. I vecchi aficionados del tennis disperavano ormai di rivivere una giornata così, i giovani neanche sapevano finora che fosse possibile. Le donne sì, ci hanno abituato a vederle sollevare vittoriose la Federation Cup – la Davis femminile – diverse volte negli ultimi anni, ma gli uomini sembravano una razza in via di estinzione, anzi praticamente già estinta. Fognini ha giocato il match della vita contro quell’Andy Murray che aveva a sua volta riportato il tennis britannico ai fasti ormai dimenticati di Fred Perry, vincendo non solo il torneo olimpico di Londra 2012 ma anche Wimbledon e gli U.S. Open nella passata stagione. Lo scozzese in Davis aveva perso tra l’altro una volta sola, all’esordio, e poi aveva infilato 19 vittorie consecutive.
Stavolta la testa di Fabio Fognini non ha fatto i capricci, come già altre volte, e dopo un iniziale 1-3 per il ligure è stata una marcia trionfale, con il n. 8 del ranking internazionale messo in un angolo ad innervosirsi con se stesso e con il mondo, incapace di portare a casa anche un solo set. Ha completato l’impresa, che era parsa disperata dopo la sconfitta nel doppio di sabato, Andreas Seppi contro il n. 2 britannico Ward. Braccio che non trema, l’altoatesino ha portato il punto decisivo che mette in fila lo scalpo della Gran Bretagna dopo quello dell’Argentina in una stagione che potrebbe davvero essere per il tennis italiano maschile quella della rinascita.
L’Italia torna così a poter vedere la leggendaria insalatiera almeno da lontano, dopo averla tenuta in mano una volta nell’ormai lontano 1976, averla sfiorata altre sei volte ed essersi fermata prima dell’ultima curva almeno altre 10. E’ infatti l’undicesima semifinale della storia della partecipazione italiana alla Coppa Davis, cominciata nel 1922, quella che gli azzurri giocheranno a settembre in Svizzera contro il fuoriclasse in declino Roger Federer ed il suo fido compagno Stanislas Wawrinka, vincitore degli ultimi Australian Open. Pronostico abbastanza chiuso, ma come insegna proprio la sofferta vittoria degli svizzeri sul semisconosciuto Kazakhistan, nel tennis e soprattutto nella Coppa Davis i pronostici sono fatti per essere smentiti.
Un ritorno inatteso nell’élite del tennis mondiale, quello dell’Italia, dopo i lunghi anni bui seguiti alla retrocessione in serie B del 2000, un inferno sportivo da cui sembrava che il nostro paese non dovesse più riemergere. Sono passati 16 anni da quando la squadra capitanata da Paolo Bertolucci e composta da Andrea Gaudenzi, Davide Sanguinetti e Diego Nargiso trionfò in semifinale a Milwaukee contro gli U.S.A. per poi arrendersi in finale ad una delle più forti squadre svedesi di sempre, complice anche l’infortunio del nostro n. 1 Gaudenzi. Con la spalla di Andrea, se ne andò anche la buona stella azzurra. L’Italia due anni più tardi sparì dal tabellone delle nazioni che lottano per la vittoria finale, per ritornarvi soltanto undici anni dopo.
Prima ancora, la Davis italiana aveva vissuto soprattutto tre cicli vincenti. Dapprima quello di Nicola Pietrangeli (tutt’ora recordman mondiale di presenze, con 164 partecipazioni di cui 120 vittorie e “solo” 44 sconfitte), Orlando Sirola e Fausto Gardini, capaci di far tremare i mostri australiani nel 1960 e 1961. Era l’epoca del challenge round, il detentore giocava solo la finale, contro lo sfidante emerso dal tabellone ad eliminazione. Per due volte Pietrangeli & C. fecero fuori gli americani, per due volte sfiorarono il successo contro gli aussies ingiocabili di allora, Rod Laver, Roy Emerson, Tony Roche, la leggenda del tennis insomma.
Poi fu l’epopea dei Quattro Moschettieri (così chiamati perché avevano rinverdito in terra italiana i fasti di quelli francesi, Lacoste & C.). Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli si fermarono in semifinale nel 1974 contro il Sudafrica dell’apartheid e degli australiani naturalizzati. Vinsero l’insalatiera per la prima e unica volta a Santiago del Cile contro la squadra che rappresentava il paese di Pinochet (e malgrado polemiche a non finire). Poi per altre tre volte cedettero in finale, nel 1977 all’Australia, nel 1979 agli U.S.A. di McEnroe, nel 1980 alla Cecoslovacchia di Lendl.
Finito il ciclo dei Moschettieri, si dovette aspettare gli anni 90 per riavere una squadra capace di tenerci in corsa fino agli ultimi incontri di Coppa Davis. Nel ’96 la squadra che aveva in panchina Panatta e in campo Gaudenzi, Furlan e Nargiso si fece rimontare a Nantes da una Francia praticamente già battuta. Nel ’97 gli svedesi in casa loro si rivelarono uno scoglio troppo impervio da
superare per i pur bravi azzurri. A Milano l’anno dopo in finale chissà come sarebbe finita se Gaudenzi non si fosse strappato all’ultimo gioco del quinto set, con il servizio a disposizione per dare
il primo punto alla sua squadra.
Alla luce dei dieci e passa anni successivi, fu un bel presagio di sventura. Ma la racchetta del babbo era rimasta laggiù, in cantina, in attesa che tornasse il suo momento. E il momento è tornato, con il soldatino Corrado Barazzutti in panchina e con Fabio Fognini, Andreas Seppi e Simone Bolelli che per la prima volta dopo tanto tempo si può dire che “se la giocano contro chiunque”. E questo, per uno sport che in Italia era diventato vintage, non è affatto poco.

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