giovedì 15 settembre 2016

Il nostro cuore è rimasto a Rio



Non ce la fa Alex Zanardi a trattenere la commozione sul podio della Crono Strada H5 di Ciclismo. Vorrebbe cantare l’Inno di Mameli, ma è già tanto se riesce a trattenere le lacrime. Alla fine, anche per un cuore d’acciaio come il suo arriva il momento di ammorbidirsi, ripensare alla lunga strada percorsa, a questi ultimi chilometri che a Rio gli hanno valso il bis dell’oro di Londra, ad una voglia di vivere, combattere e vincere che a cinquant’anni non mostra segni di cedimento.
Alex, l’uomo che senza gambe è andato più forte di quando le aveva, è il simbolo di questa Italia paralimpica a Rio de Janeiro. La bandiera da portare è andata alla velocista Martina Caironi, oro a Londra, ma è ancora lui l’icona, la figura leggendaria, a questo punto mitologica, di un movimento che si appresta a strabiliare ancor più di quanto abbia fatto in passato.
Sono tanti i ragazzi e le ragazze azzurri che stanno scrivendo questa pagina di storia non solo sportiva in Brasile, e non c’è spazio per elencarli tutti come meriterebbero, a prescindere dal risultato, dal piazzamento e dal colore della medaglia vinta. Qui conta dire comunque che dopo una settimana di Giochi Paralimpici, hanno messo insieme un medagliere quasi uguale a quello dei colleghi normodotati nelle due settimane dell’agosto scorso. Siamo a 25 contro 28, e non è finita. Basta ascoltare Zanardi: «E’ stata una gara durissima, non so come ho fatto. Una faticaccia incredibile, non so cosa mi è rimasto per le prossime gare, ma intanto questa è presa. Se sei spinto solo dall'ambizione ad un certo punto ti stanchi, occorre passione».
Già, la passione. Ce n’è tanta sul volto di Beatrice Vio detta Bebe, la fiorettista che porta in serata la settima medaglia d’oro. Una gioia incontenibile, sembra quasi rabbia la sua. Sentimenti che vengono da lontano, da una lunga strada percorsa tutta in salita. Adrenalina accumulata in una gara che per questa ragazza, come per gli altri suoi colleghi e colleghe, viene ingaggiata ogni giorno. Con la vita, prima ancora che con lo sport.
C’è aria di sorpasso dei paralimpici sugli olimpionici. Ed è un dato clamoroso, strabiliante. Scrivevamo un mese fa che siamo un paese che vince più di quanto si meriti per l’investimento e l’impegno profuso nello sport. Ne profondiamo ancor meno nel rendere più accettabili le condizioni di vita quotidiane dei cosiddetti disabili. Questi ragazzi e ragazze scalano montagne ben più ripide degli stessi colleghi normodotati, che già ne scalano di impervie, soltanto per alzarsi dal letto la mattina.
Questi ragazzi e ragazze alla fine compiono imprese tali da conquistarsi le prime pagine di giornali che ormai sembravano destinati solo ai protagonisti dello sport business, ai fenomeni da baraccone più o meno osannati dei Giochi Olimpici. Facile essere Bolt o Phelps, con le braccia e le gambe di cui ti ha dotato Madre Natura. Questi qui in gara adesso, a riflettori abbassati, sono i veri sportivi. Perché lo sono tutti i giorni. Perché lanciare un peso, tirare una stoccata, correre a cronometro o fare canestro è difficile, per loro, ma non più che alzarsi dal letto, uscire in strada, andare ad allenarsi, a lavorare o impegnarsi in una qualsiasi attività in un paese per il quale sono figliastri malaccetti.
Onore ai ragazzi ed alle ragazze italiane a Rio. Sui loro petti, la divisa di Armani è ancora più bella a vedersi.




«Zanardi è l'esempio dell'Italia che vorremmo, che lotta, che si sacrifica, che non molla mai».
(Luca Pancalli, presidente del Comitato Paralimpico Italiano)

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