venerdì 2 settembre 2016

Goodbye England's Rose



Nel suo destino c’era la Corona d’Inghilterra. Poi le cose andarono diversamente. E rimase solo una Rosa. Ma per sempre.
Diana Frances Spencer era la quarta figlia di John e Frances Ruth Burke-Roche, Visconti di Althorp ed eredi designati al titolo di Conti di Spencer. La più antica e prestigiosa famiglia nobile del Regno Unito dopo quella reale, gli Windsor.
Degli Windsor, gli Spencer erano affittuari a Sandringham, la residenza più amata dalla regina Elisabetta II tra tutte quelle di proprietà della Corona. A Sandringham, Elisabetta aveva sepolto l’amato padre re Giorgio VI nel 1952, e lì trascorreva di preferenza le sue vacanze. A Park House, un annexe di Sandringham, nacque Diana il 1° luglio del 1961.
Il nome, pronunciato Da’hana all’inglese, le fu messo solo dopo una settimana dalla nascita. I suoi genitori avrebbero voluto un figlio maschio, dopo le due sorelle maggiori Sarah e Jane ed il fratellino John jr., morto a sole dieci ore dalla nascita. Si risolsero a impartire invece alla loro terza figlia femmina il nome dell’antenata duchessa di Bedford, nipote di John Churchill primo Duca di Marlborough, l’eroe delle guerre contro il Re Sole, antenato di Winston.
Park House, Sandringham, young Diana
Nel blasone di questa ragazza, che un giorno il mondo avrebbe conosciuto con il nome semplice ma potentemente evocativo di Lady D, era iscritta la storia d’Inghilterra. Da Sandringham, dove un giorno la loro figlia sarebbe tornata per accogliere la proposta di matrimonio dell’erede al trono Charles Principe di Galles, i Visconti di Althorp vennero via presto. Il loro matrimonio non resse alle tensioni create dal desiderio spasmodico di un erede maschio (per ironia della sorte soddisfatto dalla nascita del quinto figlio, Charles, quando ormai per la serenità della famiglia Spencer era troppo tardi).
Diana seguì la madre divorziata a Londra, poi fu affidata al padre. La timida e malinconica ragazza che sognava un futuro nel mondo della musica e della danza seguì la sorte di molti figli divorziati, contesa fra affetto materno e paterno che non potevano bastare a sostituire il calore di una famiglia unita e felice. Non a caso, un giorno Diana diventata madre a sua volta avrebbe assolto ai suoi compiti genitoriali con una dedizione sorprendente, malgrado tutti gli altri aspetti della sfera affettiva le stessero venendo nuovamente meno.
Alla fine degli anni Settanta, la ragazza Spencer, erede di un titolo nobiliare tra i più prestigiosi del Regno, aveva tuttavia maturato un proprio carattere (grazie al quale un giorno sarebbe divenuta una figura leggendaria nella storia non solo del proprio paese) e trovato la propria strada. Alla maggiore età si trasferì nella casa di Earl’s Court lasciatale dalla madre, che avrebbe lasciato solo per trasferirsi a Buckingham Palace. Nello stesso periodo, lei che era l’ultima persona al mondo ad aver bisogno di lavorare, aveva cominciato a farlo come bambinaia presso l’asilo nido Young England di Knightsbridge. I bambini sarebbero rimasti l’altra grande passione della sua vita.
La bambinaia che sposò il principe ereditario d'Inghilterra
Charles Principe di Galles la conobbe durante una battuta di caccia a Sandringham. Diana aveva seguito la sorella maggiore Sarah, accreditata all’epoca di una liaison con il Principe. Nella residenza dove era nata, ebbe modo di colpire l’erede al trono con la bontà dei sentimenti che trasparivano dalla sua timidezza.
Charles era in un momento di grande sofferenza. L’anno prima, un attentato dell’I.R.A., l’esercito repubblicano irlandese che voleva l’indipendenza dell’Ulster da Londra, gli aveva portato via la figura di riferimento familiare a cui teneva di più. Lord Louis Mountbatten di Burma, l’artefice dell’indipendenza indiana del 1948 e di molte altre cose, era saltato in aria con il suo yacht proprio quando il nipote aveva più bisogno di lui, sottoposto come si sentiva alle pressioni di una intera nazione che voleva vederlo accasato e pronto a sfornare un erede che allungasse la dinastia Windsor.
Come nella favola di Cenerentola, tutte le ragazze nobili del Regno si facevano avanti da tempo, sperando che la scelta del principe, e di Buckingham Palace, cadesse su di loro. Charles, invece, rimase toccato dal conforto che Diana seppe dargli con i suoi modi semplici e la sua timidezza, e quando nel febbraio del 1981 la chiese in moglie, lei accettò subito. Cenerentola aveva ritrovato la sua scarpa di vetro.
Il 29 luglio 1981 il Corteo Reale attraversò Londra diretto a Saint Paul, la cattedrale che Christopher Wren aveva costruito come gemella di San Pietro a Roma nella capitale inglese. Dai tempi del suo fondatore, Edoardo il Confessore, poco prima della Conquista Normanna, la storia inglese veniva benedetta da Dio nell’Abbazia di Westminster. Lì venivano battezzati, sposati e tumulati sovrani, uomini di governo e personalità che – come si dice – avevano illustrato la patria britannica.
Saint Paul, 29 luglio 1981
L’importanza mediatica delle nozze reali aveva però assunto una tale rilevanza che fu preferita Saint Paul perché aveva più posti a sedere. Furono in molti a restare fuori dalla chiesa, quel giorno. Praticamente 600.000 persone nella sola Londra, ed altri 750 milioni che seguirono l’evento in mondovisione. L’ultima favola dei tempi andati, o la prima dei tempi moderni, andò in scena in un modo che sembrava presagire il classico finale da vissero felici e contenti – appunto - delle favole.
La favola del Principe e della Bambinaia invece non sopravvisse al viaggio di nozze. Quando Lady D, che fin dalle sue prime uscite pubbliche aveva subito conquistato in maniera irresistibile non solo la nazione ma anche l’opinione pubblica internazionale, cadde dallo scalone della sua residenza di Kensington House a Londra nel gennaio 1982, al terzo mese di gravidanza del principino William, tutti trattennero il fiato pensando ad un malaugurato incidente. Nel libro che il giornalista Andrew Morton avrebbe scritto per raccogliere le memorie della principessa triste, lei raccontò esplicitamente che si trattò in realtà del suo primo tentativo di richiamare l’attenzione di un marito che dedicava più tempo alla caccia, al Polo ed agli altri passatempi tipici dell’aristocrazia inglese piuttosto che alla moglie. E che aveva ripreso la ben nota e lunga relazione clandestina con Camilla Parker Bowles.
Quando nacque il secondo figlio Harry, nel 1984, Diana era già alle prese con un matrimonio finito, e l’Inghilterra con un bel problema, come non ne viveva dai tempi di Edoardo VIII e Wallys Simpson. Malgrado il protocollo di Corte cercasse di accreditare in giro per il mondo la favola della coppia felice, Diana e Charles non lo erano più. Lei moltiplicava le manifestazioni di disagio in numero quasi pari alle sue uscite pubbliche per beneficienza. E alla fine, non poté non ricordare la profezia della sua forse unica amica e madrina.
Durante un ricevimento a Londra ai tempi del fidanzamento, una Lady D che aveva dato prova di anticonformismo indossando un abito giudicato troppo audace fu quasi messa all’indice della serata dall’ancora bigotto establishment britannico. Sull’orlo delle lacrime, la futura Lady D fu salvata dal provvidenziale intervento di una delle invitate eccellenti della serata. Una che c’era passata prima di lei. Che l’aveva presa a cuore, vedendola smarrita com’era stata lei quasi trent’anni prima. Grace di Monaco se la portò alla toilette e la tranquillizzò, spiegandole come avrebbe potuto farcela a sopravvivere. “Perché, mia cara”, le disse, “abituati, sarà sempre peggio”.
Lo fu. Grace non visse abbastanza per vedere la sua protetta tirare fuori le unghie e combattere contro un jet set che voleva beatificarla o stritolarla, era  indifferente. Lo star system ha bisogno di icone, non di sentimenti, e il mondo fatato delle teste coronate non faceva e non fa eccezione. Poco più di un anno dopo era sottoterra, uscita di strada sui tornanti che portano a quella Monaco di cui era principessa. C’è chi dice che anche lei fu stroncata dalle troppe pressioni, che fu un ictus a portarla fuori strada, giù per la scogliera. Sull’asfalto non c’erano tracce di frenata. A rappresentare gli Windsor ai suoi funerali fu mandata lei, la giovane Lady Diana, che aveva appena partorito l’erede reale e che probabilmente viveva una sua crisi post partum tutta particolare.
Con gli anni, la principessa triste finì per sdoppiarsi. Simbolo di un carisma giovanile e femminile che cambiava il mondo insieme a lei (erano gli stessi anni in cui John McEnroe cambiava per sempre il tempio ingessato di Wimbledon), amata dal popolo di tutto il mondo, adorata da stilisti, artisti e figure carismatiche di quella parte di mondo dei sofferenti che lei aveva preso a cuore, sinceramente), finì per essere sempre più ai margini di quell’altro mondo, quello dorato, da cui proveniva.
Quando finalmente arrivò al divorzio, nel 1992, la stampa di tutto il mondo decretò quello come l’annus horribilis della monarchia britannica. I tempi del carisma della giovane regina Elisabetta II erano lontani, per non parlare di quelli di suo padre, re Giorgio che con il suo celebre e faticosissimo discorso aveva vinto la Seconda Guerra Mondiale. Adesso, di fronte a una nuora che non aveva paura di raccontare tutto e dire le cose come stavano, a proposito dei tradimenti propri e del marito resi inevitabili dal matrimonio più glamour ed insieme più sbagliato del ventesimo secolo, la sovrana sembrava una povera donna invecchiata, incapace di comprendere che la sua famiglia stava perdendo la sua componente migliore, quella che manteneva l’unico legame efficace della monarchia con il suo popolo.
Diana trascorse gli ultimi anni della sua vita incontrando figure che come lei trascinavano l’opinione pubblica verso la speranza di un mondo migliore. E nuovi fidanzati, che le potessero offrire quella felicità e quei sentimenti appaganti che la ragazza divenuta principessa cercava da quando era una ragazzina sballottata tra genitori divorziati, tra Earl’s Court e Park House.
Dodi Al Fayed, il figlio di Mohamed il proprietario egiziano del celeberrimo store di Harrod’s, fu l’ultimo di una serie in cui forse non fu nemmeno il più promettente. Con lui, la notte del 31 agosto 1997, salì a bordo della Mercedes S280 che sarebbe diventata la sua tomba. E a quel punto la storia diventò leggenda, oltre che tragedia. Poco dopo mezzanotte, la vettura finì la sua corsa contro il pilastro numero tredici del tunnel del Pont de l’Alma, sul Lungosenna di Parigi. Dodi Al Fayed e l’autista Henri Paul morirono sul colpo, il bodyguard Trevor Reese-Jones restò gravemente ferito. Lei morì due ore dopo all’ospedale Pitié-Salpetriere.
Si parlò di complotti, di servizi segreti, di una donna fuori controllo e pericolosa per la monarchia più potente del mondo, di un legame inaccettabile per una delle maggiori potenze occidentali, di un autista stranamente e incredibilmente ubriaco. Si parlò e se ne parla ancora, e quello che è certo è che non sapremo mai la verità.
La bella favola, ammesso che lo fosse stata, era finita. La leggenda, indiscutibile, era appena cominciata. Al funerale, la Rosa d’Inghilterra ripercorse per l’ultima volta il tragitto che la sua carrozza aveva fatto sedici anni prima, diretta al luogo della benedizione della sua presunta felicità terrena. A Buckingham Palace, per una volta in mezzo alla gente, la regina attendeva il feretro. Incapace di provare affetto per questa nuora anticonformista in vita, chinò il capo in segno di rispetto quando le sue spoglie mortali le passarono davanti per l’ultima volta. Dai tempi di Elisabetta I, i sovrani e le sovrane inglesi non avevano più chinato il capo di fronte a nessuno. Elisabetta la seconda del suo nome lo fece, in omaggio a Diana, e soprattutto ai migliori sogni dell’Inghilterra e del mondo intero che la seguivano nella tomba.
Diana è sepolta ad Althorp Castle, su un isolotto in mezzo ad un laghetto  chiamato Round Oval. Tra le sue mani, nel sepolcro, giace per l’eternità un rosario che le era stato donato da Madre Teresa di Calcutta, andata a ricongiungersi con lei pochi giorni dopo la sua morte.
Al suo funerale, questa volta celebrato a Westminster Abbey come si conveniva ad una vera regina inglese, il suo amico Elton John cantò una versione riveduta e corretta di quella struggente canzone – poesia che aveva composto anni prima in onore dell’unica altra donna che nel corso del secolo era riuscita al pari di Diana a diventare l’incarnazione del femminino nella sua accezione migliore: Marylin Monroe.
Dal 2010, l’anello di Garrard in oro bianco con 14 diamanti elegantemente disposti attorno ad uno zaffiro di 12 carati che Charles le aveva regalato per il fidanzamento è al dito di Catherine Middleton, detta Kate, fidanzata del figlio di Diana, un giorno erede di quel trono d’Inghilterra a cui lei non era e non volle essere destinata.
Quando William e Kate si sposarono a Westminster il 29 aprile 2011, sembrò che il tempo fosse tornato indietro di trent’anni. Sempre ad un giorno 29, di un luglio ormai lontano e forse dimenticato. Come allora, c’era tanta gente per le strade e alla televisione, e forse anche di più.
A ben vedere, c’era anche lei, Diana. A guardare in volto suo figlio William, che un giorno sarà re, sembra di rivedere lei, la principessa triste, la Rosa d’Inghilterra. Come due gocce d’acqua. E il cuore non manca mai di stringersi, ogni volta.


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