Con la scomparsa di Giulio Andreotti va in archivio la
Storia d’Italia del XX secolo, sia quella pubblica e conosciuta che quella
segreta, o secretata, che chissà quando e se sarà mai conosciuta fino in fondo.
L’uomo più potente della storia repubblicana si è spento oggi alle 12,25 nella
sua abitazione romana, senza clamore così come aveva vissuto per 94 anni a
partire dal 14 gennaio del 1919, malgrado per buona parte della sua vita si
fosse trovato al centro degli eventi più importanti di quella storia, spesso e
volentieri autore e/o partecipe di essi e ancor più spesso accreditato dall’opinione
pubblica come responsabile, come deus ex
machina di quegli eventi. Di tutti
gli eventi.
Era l’ultimo sopravvissuto dei Padri Costituenti. La
carriera politica di Giulio Andreotti era nata insieme alla Repubblica Italiana.
Il giovane studente di diritto che si stava facendo rapidamente un nome nella Federazione
Universitaria dei Cattolici Italiani e che trascorreva molto del suo tempo
presso la Biblioteca Vaticana vi aveva fatto un paio di incontri importanti:
Giovanni Batista Montini, Segretario di Stato di Papa Pio XII e destinato a
diventare suo successore come Paolo VI, e Alcide De Gasperi, all’epoca uomo politico
in disgrazia presso il regime fascista e che approfittava dell’ospitalità della
Curia Vaticana, in seguito destinato ad essere l’uomo della rinascita italiana,
il leader carismatico della neonata Democrazia Cristiana nonché di una intera
nazione che cercava di riconquistarsi un posto nel consesso delle nazioni
civili.
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Con Pio XII |
Il Cardinal Montini segnalò al segretario DC quel giovane
promettente studente. De Gasperi, malgrado le differenze di carattere e di
estrazione geografica aveva già notato e preso a ben volere Andreotti per conto
proprio, e fu ben lieto di accogliere il suggerimento. Il 2 giugno 1946 Giulio
Andreotti fu eletto all’Assemblea Costituente, entrando così a Montecitorio per
la prima volta. Ne è uscito oggi per l’ultima, al termine della più longeva
carriera politica della storia d’Italia, oltre che – come si è detto – la più
importante e densa di avvenimenti.
Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio in tutti i
Governi De Gasperi fino al 1954, si distinse inoltre per l’opera di
riorganizzazione e rifondazione sia del cinema che dello sport italiano. Gli si
devono sia la rinascita dell’industria cinematografica e degli stabilimenti di
Cinecittà nel dopoguerra, sia la geniale intuizione dell’autofinanziamento del CONI
e dello sport nazionale attraverso il collegamento con il Totocalcio. Per
questi ed altri meriti, fu nominato Presidente del Comitato Organizzatore delle
Olimpiadi di Roma 1960. Grande tifoso di calcio e in particolare della Roma,
gli sono stati attribuiti da sempre numerosi interventi (soprattutto non
ufficiali, in accordo con la leggenda nera che ha corso in parallelo a tutta la
sua vita) volti a favorire la sua squadra del cuore.
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Con Alcide De Gasperi |
Finita l’era De Gasperi, la sua personalità ed i successi
già conseguiti lo posero come antagonista dei cosiddetti “cavalli di razza”,
Amintore Fanfani e Aldo Moro, che avevano preso la leadership del partito tentando di spostarne il baricentro più a
sinistra. La leggenda nera delle trame andreottiane cominciò allora, quando
alla metà degli anni 50 fu ascritta alla responsabilità delle sue manovre la implicazione
dell’enfant prodige democristiano
Piero Piccioni nel Delitto Montesi (il primo scandalo pubblico dell’Italia
repubblicana) e la sua caduta in disgrazia, che favorì il via libera alla nuova
generazione: da una parte i Moro e i Fanfani, dall’altra gli Andreotti e i Dorotei, Colombo, Rumor, Taviani e
tutti coloro che non vedevano di buon occhio aperture a sinistra.
A metà anni sessanta il primo incarico importante, il
Ministero della Difesa, ed insieme nuove accuse di manovre oscure, allorché fu
individuato come responsabile della distruzione dei documenti relativi al tentato
golpe del generale De Lorenzo,
il cosiddetto Piano Solo. I
fascicoli in cui erano schedati più o meno tutti i politici italiani dell’epoca
furono distrutti, come prevedeva la legge, ma misteriosamente delle copie
giunsero in possesso della P2 di Licio Gelli, all’epoca non ancora scoperta,
con le conseguenze che ognuno può immaginare. E grazie alla campagna di stampa
dell’Espresso la colpa, la
prima di una lunga serie, fu addossata a Giulio Andreotti, in collaborazione
con un altro politico di fama e di cui la vox populi aveva già cominciato a "chiacchierare" pesantemente:
Francesco Cossiga.
Nel 1972, negli anni della reazione al centrosinistra con
i socialisti e dei primi contraccolpi sociali alla strategia della tensione che
avvelenava la lotta politica italiana, Andreotti ricevette l’incarico del primo
dei suoi sette governi. Fu in seguito di nuovo Ministro della Difesa e poi del
Bilancio sotto Moro. Ancora accuse di favoreggiamento a terroristi neri, relativamente
alla strage di Piazza Fontana, ancora proscioglimenti o “non luogo a procedere”.
Finché nel 1976 l’avanzata del PCI arginata a stento dalla Democrazia Cristiana
convinse Enrico Berlinguer e Aldo Moro, gli autori del compromesso storico, a dare
nuova forma e nuova sostanza alla loro formula politica coinvolgendo i
comunisti nell’area di governo nell’intento di stemperare le tensioni sociali e
di dare nuovo impulso ad una fase riformista ritenuta più che mai necessaria e
per la quale l’appoggio dei socialisti non era più sufficiente.
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Con Aldo Moro e Benigno Zaccagnini |
Per guidare questa operazione di governo con appoggio
esterno comunista (la cosiddetta non
sfiducia) fu scelto proprio Andreotti, secondo una tecnica di compensazione
tipica della DC. Era un monocolore che si reggeva sull’astensione di tutti i
partiti dell’arco costituzionale, eccezion fatta per il MSI di Giorgio
Almirante, e sopravvisse fino al gennaio 1978. Ritenendo che bisognasse
aumentare il coinvolgimento della sinistra comunista nell’azione governativa,
Moro propose allora un nuovo esecutivo a cui tutti i partiti, PCI compreso,
dessero stavolta non l’astensione ma un voto esplicito di fiducia. Era il
governo che doveva essere presentato alla Camera la mattina del 16 marzo 1978,
quando lo statista pugliese fu rapito dalle Brigate Rosse in Via Fani e la sua
scorta massacrata. Il dramma spinse il Parlamento a votare rapidamente la
fiducia al IV° governo Andreotti, che passò alla storia come di “solidarietà nazionale”.
Da Palazzo Chigi, Andreotti sposò la linea della fermezza
e del rifiuto delle trattative con le BR., come del resto fecero tutte le forze
politiche ad eccezione del PSI di Bettino Craxi e dei Radicali di Marco
Pannella. Nei suoi memoriali dalla prigione
del popolo, Aldo Moro ebbe delle parole durissime per Andreotti.
Dopo il ritrovamento del suo cadavere a Via Caetani, la famiglia Moro mantenne
tale atteggiamento, e rifiutò da allora in poi di avere a che fare con l’uomo
che adesso guidava il partito che non aveva voluto salvare il suo congiunto.
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Con Aldo Moro |
Il dramma di Moro non impedì al governo Andreotti di
conseguire importanti successi quale ad esempio la Riforma Sanitaria, quella
legge 833 che a detta di tutti rimane una delle più avanzate di ogni tempo e di
ogni luogo in materia. La richiesta da parte del PCI di avere maggior peso e
coinvolgimento nella compagine governativa, unitamente all’assenza di un
mediatore abile come Moro ed al mutato clima interno ed internazionale,
portarono alla crisi del governo Andreotti ed alla fine dell’esperimento di
Solidarietà Nazionale. Che fu seguito anche da una interruzione del cursus honorum andreottiano, per i veti
sia di Berlinguer che di Craxi. Il quale ultimo ebbe a dire: “la vecchia volpe è
finita finalmente in pellicceria”.
La vecchia volpe, invece, aveva sette vite, e lo dimostrò
prendendosi l’incarico di Ministro degli Esteri proprio nello storico governo
Craxi nel 1983, e mantenendolo fino al 1989 anche nel successivo esecutivo a guida
di Ciriaco De Mita. In quegli anni, egli svolse un ruolo di mediazione
importante tra gli USA del dopo Reagan e l’URSS in cui cominciava a produrre i
suoi effetti la Perestrojika di
Michail Gorbaciov. Analogo ruolo si trovò a svolgere all’interno, allorché la
rotta di collisione tra Craxi e De Mita lo portò a riavvicinarsi al leader
socialista, a discapito del proprio segretario di partito.
Quando nel 1989 cadde il Muro di Berlino, Andreotti
riprese a De Mita la Presidenza del Consiglio, e si distinse per la sua
posizione eterodossa (ma col senno di poi profetica e rivalutabile) circa la
riunificazione tedesca. Il politico romano andò controcorrente dichiarando
senza mezzi termini che la Germania unita prima o poi avrebbe prodotto ciò che
aveva sempre prodotto nella storia d’Europa: guai.
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Con Tina Anselmi |
Mentre il Presidente della Repubblica Cossiga iniziava a
tirare le picconate che avrebbero abbattuto la Prima Repubblica e Craxi tornava
a rompere l’armonia ricreatasi e codificata nella celebre formula del C.A.F.
(Craxi, Andreotti e Forlani), mentre esplodeva lo scandalo Gladio e si delineava un nuovo oscuro
coinvolgimento del Presidente del Consiglio nelle trame nere di decenni di
storia repubblicana, si arrivò all’anno terribile, quel 1992 che vide la fine
del suo settimo governo e subito dopo il suo tentativo di accedere alla massima
carica dello stato, succedendo proprio a quel Cossiga ex amico e adesso quasi
rivale che tuttavia l’aveva nominato l’anno prima senatore a vita,
assicurandogli senza saperlo un avvenire politico ed una immunità parlamentare
che altrimenti sarebbero stati – come si vide poi – sicuramente compromessi.
La bomba che esplose a Capaci il 23 maggio 1992 non si
portò via soltanto Giovanni Falcone, ma anche le ambizioni personali di Giulio
Andreotti di ascesa al Quirinale, e della prima Repubblica di sopravvivere. Al Colle
salì Oscar Luigi Scalfaro, mentre un paese scosso da Mani Pulite e dalle stragi
di Mafia assisteva alla fine di una classe politica, in primis di quella DC che da esattamente 50 anni l’aveva
guidato senza contendenti. Quando essa si sciolse, ai primi del 1994, Andreotti
aderì al Partito Popolare di Martinazzoli, ma la sua carriera politica attiva
era finita. Fu quello il momento in cui la Procura di Palermo, passata sotto la
guida di Giancarlo Caselli dopo la decimazione del pool di Antonino Caponnetto, ritenne opportuno presentare il
conto al senatore a vita relativamente a quello di cui si sussurrava da tempo:
le sue frequentazioni e presunte collaborazioni con Cosa Nostra, dal dopoguerra
agli anni dei Corleonesi e di quel Totò Riina che era stato appena catturato
dai Carabinieri del Capitano Ultimo.
Negli oltre dieci anni intercorsi tra l’avvio del
procedimento giudiziario e la sentenza definitiva della Cassazione, la Procura di
Palermo non riuscì a provare il suo diretto coinvolgimento nella criminalità
organizzata. La Corte si limitò a dichiarare prescritti i fatti antecedenti al
1980 (non luogo a procedere), mentre lo assolse per quelli successivi,
addossandogli esclusivamente la responsabilità di "incontri" con
personaggi scomodi, che se non costituivano di per sé reato certamente non
alimentavano una accezione positiva della sua immagine.
Negli ultimi anni si era dedicato alla cura del suo
sterminato archivio cartaceo nel suo studio a Piazza in Lucina a Roma, lasciato
in eredità alla Fondazione Sturzo e da lui curato materialmente fino all’ultimo.
E’ facile immaginare che adesso si tratti di uno dei tesori più importanti
della Storia della Repubblica. Qualunque sia la verità, ed il peso che ciascuno
vuole o vorrà darle, è certo che là dentro non si trova soltanto il contenuto
degli scritti con cui per tutta la vita Giulio Andreotti ha alimentato la sua
vena di autore letterario, anche gradevole e celebre per quel suo certo
umorismo british-romanesco fatto di undestatement
e di battute celeberrime come “il potere logora chi non ce l’ha”. Là dentro si trova molto di più,
si trova la Storia d’Italia, quella che conosciamo e quella che non conosceremo
mai, quella che immaginiamo e quella che non possiamo e non potremo mai neanche
lontanamente immaginare.
Mentre Giulio Andreotti si presenta finalmente davanti ad
un Giudice presso la cui giurisdizione niente va mai in prescrizione, per chi
si accinge a salutarlo, nel bene e nel male, per l’ultima volta su questa
terra, valgono più che mai le parole che gli dedicò Indro Montanelli: “delle
due, l'una: o è il più grande, scaltro criminale di questo paese, perché l'ha
sempre fatta franca; oppure è il più grande perseguitato della storia d'Italia.
Come fa dire Paolo Sorrentino al suo Eugenio Scalfari nel film Il Divo, ”allora
Senatore Andreotti, le chiedo: tutte queste coincidenze sono frutto del caso o
della volontà di Dio?".