mercoledì 31 luglio 2013

RENZIADE: Matteo Renzi, addio allo Stadio e al Giglio?


Il nuovo che avanza non ne indovina più una. Per lungo tempo Matteo Renzi ha tramutato in oro tutto quello che toccava, lasciando a chiunque gli attraversasse la strada la parte del vecchio da rottamare, del perdente che non si rassegna a lasciare il passo ai tempi moderni.
Anche la battaglia delle primarie, naturale approdo del percorso cominciato alla Leopolda quando Renzi si rese conto che la sua immagine filtrata al di fuori delle mura cittadine lo proiettava come candidato ad un ruolo politico nazionale di primissimo piano al cospetto di un paese che dei politici nazionali già all’opera non ne poteva più, era sembrata un atto di coraggio, tanto più impreziosito da una sconfitta dovuta esclusivamente alla nomenklatura che aveva barato e creduto di potersi perpetuare con ogni mezzo, meglio se contrario ad ogni fair play.
Sembrava questione di tempo, un po’ come alla stazione, il treno è in ritardo ma prima o poi arriverà, è certo. E invece, come succede ai tempi di Trenitalia, il treno forse è già passato, o forse non passerà perché è stato soppresso. Da qualche tempo, l’immagine del Sindaco candidato Premier si è appannata, dentro e fuori Firenze. La nomenklatura romana gli ha preso le misure, ha trovato il modo di non perdonargliene più una. Ma soprattutto è a Firenze che la terra gli viene meno sotto i piedi.
Ha cominciato l’Arcivescovo, quel Mons. Betori che sbottò come un fulmi ne a ciel sereno quando disse che la città – stretta nella morsa di mille problemi – si meritava più che mai una amministrazione efficiente, cosa che da mesi non aveva più. Attacco mica da poco, se il Vescovo fosse stato un terzino Renzi sarebbe finito a gambe all’aria per la sua entrata decisa, del genere o palla o gamba. La risposta del sindaco era stata peraltro un autogol, paragonare l’uscita delL'alto prelato ad un attacco politico equivaleva a sminuire il suo ruolo particolare, e questa è una cosa che la Chiesa non tollera e non perdona. E la Chiesa, non è un mistero, è rimasta uno dei pochi punti saldi di quel Partito Democratico che una volta era il “campo” del Renzi, e di quelli come lui.
Per ritrovare un simile attacco della massima autorità ecclesiastica cittadina alla massima autorità civile bisogna andare parecchio indietro nel tempo, fino a Dante Alighieri ed ai Guelfi e Ghibellini, che si scannavano per le strade di Firenze nel nome del Papa e dell’Imperatore. Crisi di immagine o crisi di contenuti? Agli elettori (semmai) l’ardua sentenza. Il sindaco in questi mesi ha continuato ad essere più presente sugli schermi TV che nelle stanze di Palazzo Vecchio. Con risultati incerti in entrambi i casi, ma mentre per la corsa alla successione dell’amico Letta bisognerà attendere primarie e secondarie che chissà se e quando verranno, per la valutazione del primo mandato di Matteo Renzi come sindaco del capoluogo toscano si può già azzardare un bilancio.
Evidentemente affrontare le ZTL e i permessi di accesso e parcheggio non era niente a confronto a quello che è venuto dopo, e vestirsi da Fonzie non basta più. “Lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato” (il famoso slogan di Baden Powell, fondatore dei Boy Scouts, il celebre movimento che annovera tra i suoi epigoni più illustri proprio il sindaco fiorentino) si sta rivelando un affare più serio di quanto Renzi stesso pensasse.
Le promesse fatte del resto ormai sono tante, il tempo per passare ai fatti sempre meno. Lo stadio nuovo? Chiamato oggi ad inaugurare un impianto di Publiacqua ad Ugnano, a chi gli chiedeva conto dell’altra grande opera ha risposto: “la vedo dura, perché servono tanti soldi”. Buonanotte suonatori, e due anni di proclami e di comparsate allo stadio (quello vecchio) a fianco di Della Valle a cosa sono serviti? Era dura anche allora, oppure la Fiorentina quest’anno ha giocato talmente bene che sia Renzi che lo stesso Della Valle si sono dimenticati di parlare della più importante delle loro questioni, e di quanto costa? Intendiamoci, può darsi che ne venga fuori un bene, Firenze è servita degnamente dal vecchio Franchi da circa 80 anni, e difficilmente riempirà sistematicamente stadi più ampi, a meno che la Fiorentina non diventi il Barcellona in pianta stabile. Ma una promessa è una promessa, era la prima regola degli Scouts, se non andiamo errati.
E il Ponte Vecchio affittato alla cena della Ferrari? Il salotto buono a Firenze è delicato, e soprattutto è delicato il rapporto che i fiorentini hanno con la sua - e la loro - immagine. Si può prestare tutto, per carità, bisogna adeguarsi ai tempi, i soldi fanno comodo anche e soprattutto alle nobili decadute, e a sentire l’ineffabile Marchionne Sergio noi fiorentini siamo caduti molto in basso. Ben venga quindi il cumenda con i suoi sghei, tutto sta a vedere come ce lo tratta, questo salotto buono, chi ci fa entrare e come ce lo restituisce. E soprattutto che fine fanno gli sghei. Sì, perché sarebbe davvero singolare continuare a sentirsi dire che non ci sono i fondi per questo e quello, quando sappiamo di avere monumenti la cui fruizione corretta può valere – scusate la presunzione – quanto una finanziaria dello Stato.
Poi c’è la questione del brand. Parola anglosassone che significa marchio di fabbrica. Ora, verrebbe da parafrasare Gino Strada quando parla della sanità pubblica, dicendo che una città (soprattutto come Firenze) non è una azienda.
E così, ecco il concorso internazionale, che dovrebbe attirare in questa landa così bisognosa evidentemente di rappresentazioni simboliche designer, architetti e grafici pubblicitari dai quattro angoli della terra. Con quali risultati, si puç solo immaginare. O forse è meglio dire temere. Altro che Sirenetta di Copenhagen, o marchio Tod’s come toccherà al Colosseo.
Qui girano già sul web immagini di scorci fiorentini inscritti nella mela della Apple, per dirne una, e ricordano tanto quelle palle di vetro con la neve dentro che hanno reso agghiacciante la nostra infanzia.Va bene creare concorsi ed occasioni di lavoro per professioni che non ne hanno più, malgrado questa una volta fosse la terra di Michelangelo, del Brunelleschi e del Vasari. Ma non a prezzo della nostra identità.
Ha scritto Claudio Morganti, europarlamentare indipendente dell'Eld, «nel 1811 anche Napoleone cercò di sostituire il giglio tramite un decreto, ma dovette desistere per la forte protesta dei fiorentini. Mi auguro – ha continuato l’eurodeputato - che adesso succeda altrettanto e Firenze si ribelli alle bizze del suo sindaco. Capisco – ha concluso Morganti – che Renzi voglia rimanere nella storia per aver fatto qualcosa di concreto per Firenze e per i fiorentini, ma la storia di quasi mille anni non si tocca».
A ben pensarci, Firenze ha già esiliato figli illustri come il Sommo Poeta Dante. Se Parigi valeva una messa, Roma val bene Firenze? Il collegio elettorale di Renzi è qui, e continuare a trascurare la propria città potrebbe risolversi per lui nella perdita dell’ultimo treno, e perfino della casa a cui ritornare a leccarsi le ferite, se le cose dovessero andare come Baden Powell non aveva previsto.
Firenze ha il suo simbolo (suona molto meglio che brand!) da secoli, è il famoso Giglio, e non si spiega quale vaghezza abbia punto il nostro sindaco allorché ha deciso di rottamarlo (non riuscendo peraltro a farlo con cose e persone ben più meritevoli….).
Ben consigliato dal proprio istinto (non ancora sopraffatto dalla crescita del proprio ego al di sopra del livello di guardia) nonché da un esperto di comunicazione proveniente da un’altra formidabile fabbrica del consenso, Giorgio Gori ex Mediaset, il sindaco di Firenze era partito in quarta con una serie di provvedimenti che se non sempre condivisibili avevano comunque il minimo comune denominatore del coraggio, andando a toccare equilibri e rendite di posizione cittadine che non venivano messe in discussione da tempo immemorabile.

giovedì 18 luglio 2013

Buon compleanno Madiba!


PRETORIA (Sudafrica) - Giorni fa si era diffusa in tutto il mondo la notizia della sua morte, dopo il ricovero in ospedale da più di un mese a causa di un’infezione polmonare. Notizia rivelatasi incontrollata e infondata, e che come sempre in questi casi gli ha allungato la vita. Madiba festeggia oggi in ospedale il suo novantacinquesimo compleanno, e con lui tutto il paese che lui ha contribuito a rendere migliore, più libero, e che ormai lo venera come il Padre della patria, il Sudafrica.
Le sue condizioni – dicono i bollettini - paiono in lento e costante miglioramento per quanto può consentirlo l’età, e allora oggi è un giorno di festa non solo per i sudafricani ma per quanti in tutto il mondo hanno atteso per lungo tempo la fine dell’Apartheid, una delle manifestazioni più odiose della segregazione razziale di tutta la storia umana.
L’uomo che ha dedicato 67 dei suoi 95 anni al servizio della sua gente e del suo paese e che nell’iconografia dei progressisti di tutto il mondo ha un’immagine paragonabile ormai a quella del Mahatma Gandhi come simbolo di liberazione e di emancipazione razziale verrà festeggiato dai suoi connazionali nella maniera più singolare possibile: migliaia di volontari (l’invito delle autorità è rivolto a tutti i sudafricani) dedicheranno oggi 67 minuti del loro tempo al servizio gratuito della collettività, impegnandosi in attività quali la pulizia ed il restauro di scuole, ospedali ed altri edifici pubblici o nella distribuzione di cibo e medicinali ai poveri.
E’ forse il premio migliore, il più significativo ricevuto da Mandela nel corso della sua lunga vita, più importante forse di quello stesso premio Nobel per la Pace assegnatogli nel 1993 poco dopo la sua scarcerazione, allorché insieme all’allora presidente sudafricano Frederik Willem De Klerk dette la spallata finale al regime dell’Apartheid che ebbe come conseguenza il suffragio universale per tutte le etnie del paese e la sua inevitabile vittoria alle elezioni presidenziali dell’anno seguente.
Nelson Rolihlahla Mandela era nato il 18 luglio 1918 a Mvezo, un piccolo villaggio della provincia di Capo Orientale. Che fosse un predestinato lo avevano intuito già i suoi genitori alla nascita, il suo secondo nome Rolihlahla significa infatti “colui che provoca guai”. Il primo lo provocò a 20 anni quando fuggì dal suo villaggio per sottrarsi ad un matrimonio combinato secondo l’uso della sua tribù, la sua prima azione di lotta per la libertà.
A Johannesburg, dove studiò legge e divenne avvocato, si unì all’African National Congress, il partito che si batteva già allora (erano gli anni della Seconda Guerra mondiale) per l’abolizione della segregazione razziale. Il Sudafrica era un paese membro del Commonwealth britannico, e aveva già
adottato l’Apartheid come regime ufficiale, solo la razza bianca aveva diritti civili e politici.
Madiba, questo era il nome datogli dal Clan Xhosa (la sua etnia di appartenenza), fu promotore negli anni ’50 della Carta della Libertà, il manifesto anti-Apartheid che sarebbe diventato il programma dell’A.N.C. fino alla vittoria finale, e con il suo studio legale fornì assistenza gratuita a tutti coloro, perlopiù neri, che venivano accusati di tradimento e incriminati per essersi opposti al regime segregazionista.
Quando alla fine toccò a lui, nel 1962, era già il leader più famoso dell’A.N.C. e comandante dell’ala militare che era stata costituita dal movimento dopo che diversi manifestanti inermi erano stati uccisi dalla polizia e lo stesso movimento era stato dichiarato fuorilegge, ritrovandosi quindi costretto ad operare in clandestinità. Diversamente da Gandhi, il Mandela di allora aveva smesso di credere nella possibilità di una emancipazione razziale per vie pacifiche, non violente.
Mandela in visita al suo vecchio carcere a Robben Island
Condannato all’ergastolo, nei successivi 27 anni, Nelson Mandela restò rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Robben Island, al largo di Capetown. Dalla sua cella continuò a guidare il movimento contro l’Apartheid, il cui regime con il passare del tempo diventava sempre più odioso ed impopolare. Negli anni ’70 ormai il Sudafrica era completamente isolato a livello internazionale, escluso da tutti gli organismi politici e dalle manifestazioni sportive. Lo slogan “Mandela libero” era
uno dei più ricorrenti in tutte le manifestazioni di piazza a qualsiasi latitudine.
Per Madiba, che ancora nel 1985 rifiutò una proposta di libertà condizionata in cambio della rinuncia alla lotta armata, il momento di riacquistare la libertà senza condizioni arrivò finalmente l’11 febbraio 1990. Il mutato clima internazionale con la fine della Guerra Fredda e la convinzione che il mondo fosse entrato in una nuova fase storica in cui i diritti dell’uomo non erano più comprimibili giustificatamente portarono il presidente sudafricano de Klerk a valutare che fosse arrivato il momento di cedere alle pressioni internazionali, ridare legalità all’African National Congress, ridare la libertà al suo leader di fatto (che ne divenne subito Presidente di diritto) e porre fine alla segregazione razziale verso i sudafricani di colore.
Primo presidente nero del Sudafrica dal 1994 al 1999, Mandela ha continuato fino a tempi recenti la battaglia per i diritti civili e politici dei suoi connazionali e per l’accreditamento dell’immagine internazionale del nuovo Sudafrica libero. Uno dei veicoli da lui abilmente individuati per queste operazioni è stato proprio lo sport, l’ambito cioè su cui si era più clamorosamente manifestato l’isolamento internazionale del suo paese nei decenni precedenti alla fine dell’Apartheid.
La nazione che era stata esclusa dalle Olimpiadi a partire dal 1976 a Montreal, contro cui nessuno voleva andare a giocare né a Tennis in Coppa Davis né a Rugby, Calcio o qualsiasi altra disciplina, fu per sua iniziativa organizzatrice di due eventi epocali: i Mondiali di Rugby, organizzati durante la sua presidenza nel 1995 e vinti dagli Springbok, la leggendaria squadra di casa, ed i Mondiali di Calcio del 2010, i primi svoltisi nel continente africano, anche questi fortemente voluti da lui che a causa delle già precarie condizioni di salute e di un grave lutto familiare non pote’ di fatto assistervi, tranne una breve comparsata nella cerimonia di chiusura.
Oggi tutto il mondo guarda all’Ospedale di Pretoria dove è ricoverato, attento a qualsiasi notizia vera o presunta circa le sue condizioni. Nel frattempo, in tutto il mondo dalla Gran Bretagna all’Australia si terranno concerti ed iniziative per omaggiarlo. Ma in fondo, tutto questo ha poca importanza. Come ha detto recentemente il portavoce dell’A.N.C., adesso stabilmente il partito di governo sudafricano, quella di Mandela è stata una “vita ben vissuta per tutti i suoi 95 anni”, e altro da aggiungere non c’é.

Buon compleanno, Madiba.