Ormai li conosciamo bene,
il professor Robert Langdon e il suo padre letterario Dan Brown. Lo scrittore
del New Hampshire è al suo quarto best seller avente
per protagonista l’esperto di simbologia religiosa ed esoterica di Harvard, e
almeno in termini di vendite promette di ripetere il successo che gli è ormai
tributato a livelli planetari dai tempi del Codice Da Vinci anche con questa sua ultima fatica ispirata all’Inferno di Dante Alighieri ed alla città che gli dette i
natali. E nella quale ancor oggi si possono respirare le sue atmosfere
predilette e comprendere la commedia – e la tragedia – sottintese alla sua visione
del mondo antico.
La ricetta è sempre la
stessa, alla prima pagina si è già proiettati nel vortice dell’azione, con uno
stile narrativo che ricorda più quello di Ian Fleming nei romanzi dedicati a
James Bond agente 007 che quello di Umberto Eco nei suoi romanzi di
ambientazione storica. Azione in luogo di introspezione, come in ogni grande plot americano che si rispetti, ovunque si svolga la scena.
Per quanto Brown, figlio di un professore di matematica della Exeter Academy,
New Hampshire, possieda e sfoggi una erudizione notevole, la sceneggiatura con
lui non va mai in profondità, non c’è tempo del resto.
Stavolta tocca a Firenze,
dopo Roma, Parigi e Washington, essere la cornice suggestiva di inseguimenti da
brivido, sparatorie e risoluzione di enigmi degni di un Bartezzaghi di annata,
il tutto condito da un brivido ogni qualvolta il pur consapevole professor
Langdon o i suoi biechi inseguitori sono portati dall’impeto dell’azione a
sfiorare pericolosamente qualche capolavoro dell’arte mondiale, lasciandoseli
dietro quasi sempre illesi per miracolo. Quasi, perché stavolta al termine di
una scena anche in questo caso degna del miglior 007 a lasciarci le penne è
nientemeno che l’Apoteosi di Cosimo I del Vasari,
attraverso cui piomba nel sottostante Salone de’ Cinquecento il sicario mandato
dalla misteriosa Spectre di turno a catturare il
professore prestato allo spionaggio ed all’avventura, dopo che nei sotterranei
del Vaticano dove gli Angeli erano inseguiti dai Demoni era andato in frantumi
un intero scaffale contenente preziosissimi documenti del tempo di Galileo Galilei.
Non si ferma davanti a
niente Dan Brown, né con l’iconoclastia sdoganata dal racconto del ritrovamento
della discendenza nientemeno che di Gesù Cristo che gli ha dato fama mondiale,
né nel proporre sviluppi e soluzioni all’intrigo che non hanno più
verosimiglianza del cinema hollywoodiano di cassetta. Neppure al vezzo di
concludere la sua fatica come il sommo poeta, con la parola stelle. Ma alla fine, malgrado gli ingredienti migliori ci siano
tutti, seguendo l’azione via da Firenze in altre località tempio dello spirito
e dell’arte umana si finisce per provare la stessa sensazione che ci da l’assaggio
del cibo americano: stesso sapore, stesse sensazioni (o assenza di esse) che ci
si trovi nel Corridoio Vasariano o a Palazzo Vecchio a Firenze, oppure nella
Chiesa di San Marco a Venezia o a Santa Sofia a Istanbul, Costantinopoli.
I libri di Dan Brown
scontano la maledizione di quelli di molti suoi connazionali, soprattutto
autori di genere: letto uno, letti tutti. E poiché in fondo non ci può essere
colpo di scena più grande di quello che Langdon scopre una volta decifrato il Codice
Da Vinci, alla fine questo sequel - come gli altri - lascia
assai delusi. Resta l’azione, per chi ama il genere Brown non delude e passerà
sicuramente sul grande schermo con grande facilità. Ma non cercate Dante nelle
sue pagine, non lo troverete, come non vi avete trovato Leonardo, Galileo o
George Washington e Benjamin Franklin stessi.
Eppure, una lancia va
spezzata anche per questa letteratura americana che per noi è sempre un
bicchiere pieno a metà, perché non tutti gli aspetti sono negativi, anzi.
Mettetevi davanti alla Porta del Battistero di Ghiberti con Robert Langdon e Dan
Brown, e cercate di immedesimarvi non nei vostri sentimenti (di cittadini che
sono passati lì davanti una volta al giorno per decenni, magari senza alzare lo
sguardo mezza volta) ma nei loro. Certo, a paragone della descrizione della
Biblioteca del monastero benedettino da parte di Umberto Eco/Guglielmo da
Baskerville le parole di Brown ne escono con le ossa rotte. Però quanto
entusiasmo negli occhi di questi visitatori che vengono dall’altro capo del mondo
e che ogni volta sono capaci di emozionarsi come fosse la prima volta. Come forse
riusciva anche ai fiorentini quando videro per la prima volta il capolavoro di Lorenzo
Ghiberti. Come Dante stesso quando vide per la p rima volta, ragazzino, la rappresentazione
di Satana nel Battistero che avrebbe ispirato la sua rappresentazione visionaria
dell’Inferno. Come a noi non riesce più da tanto, troppo tempo.
E’ un fenomeno comune alla
letteratura ed allo stesso cinema americano quello di essere così distante dai
nostri archetipi - e stereotipi - culturali da far pensare che il Mayflower fosse un’astronave interstellare più che un vascello
che attraversò l’Atlantico separando europei e americani per sempre. E tuttavia
nello stesso tempo di riuscire a trasmettere emozioni (tutto sommato più fedeli
allo spirito originale delle nostre opere) in un modo che alla nostra cultura
che pretende di continuare a chiamarsi classica non riesce più. Così, per
esempio, il Troy di Wolfgang Petersen e l’Achille di Brad Pitt sono
quanto di più distante esista al mondo da quello che abbiamo studiato a scuola,
nelle lunghe interminabili ore di Epica. Ma se vogliamo
essere sinceri, quando sognavamo gli eroi di Omero essi erano come lui, il
marito di Angelina Jolie, e abbiamo dovuto aspettare questo regista formatosi
alla scuola di Walt Disney perché i nostri sogni finalmente si
materializzassero.
Yerebatan, la Cisterna. Dove tutto si conclude. |
Alla prossima, professor
Langdon. Non ascolteremmo una lezione delle sue per tutto l’oro del mondo, ma
la seguiremo sempre, dovunque vada e qualunque cosa trovi.