Il paese che si appresta a
dare l’ultimo saluto a Rita Levi Montalcini celebra in concomitanza la chiusura
di uno dei suoi anni peggiori, e le due cose appaiono giustamente coincidenti.
L’addio a uno degli ultimi intelletti di cui siamo stati orgogliosi di essere
concittadini cade nel momento in cui forse prendiamo coscienza del fatto che
non solo ci ritroviamo a vivere in un sistema-paese che difficilmente ne
riprodurrà altri di quella levatura, ma anche che stiamo più o meno
consapevolmente distruggendo le ultime vestigia di quanto di buono questi
intelletti medesimi unitamente alla nostra coscienza civile faticosamente
coltivata sul terreno impervio della nostra storia moderna avevano prodotto, in
termini di conquiste sociali e di istituzioni civili.
Rita Levi Montalcini, Premio
Nobel per la Medicina 1986 e Senatrice della Repubblica a vita dal 2001, ci ha
lasciati ieri, e non le sarà dato di vedere che fine farà questa patria
disgraziata che ha avuto bisogno di eroi come lei, per dirla con Brecht, e
oltretutto quasi non ha saputo che farsene. Quando le sue spoglie mortali
avranno trovato l’eterno riposo, molti di coloro che si sono sentiti in diritto
di oltraggiare la sua stessa presenza in Parlamento in questi ultimi anni, in
ragione delle sue sempre più precarie condizioni di salute, si saranno già
ripresentati in lista per farsi un altro giro a quel Win-For-Life che
sono diventati ormai da noi il Senato e la Camera dei Deputati. Al punto che
per avere un rappresentante tra i senatori del calibro della dottoressa
Montalcini dovette nominarla il presidente Ciampi nell’ambito delle sue
prerogative. Che venisse fuori da una consultazione elettorale una persona
della sua levatura non ci sarebbe stato mai verso.
In un panorama intellettuale e
morale sempre più depauperato, quindi, la Seconda Repubblica si prepara a celebrare
il suo rito di primavera, senza sapere tuttavia se stavolta si tratterà di una
ennesima riedizione del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quel
Gattopardo le cui parole immortali, perché nulla cambi tutto deve cambiare,
hanno ispirato secoli di politica nazionale al di là delle possibilità di
previsione del suo stesso autore. O se invece avrà luogo uno di quei periodici
tentativi che la stessa politica italiana e la società civile che ad essa
sottende mettono in scena, dalla Guerra Partigiana agli Anni di Piombo a Mani
Pulite. Purtroppo, finora, con risultati non dissimili da quelli preconizzati
dal Principe di Salina. Much ado about nothing, molto rumore per nulla, diceva
Shakespeare.
Un anno fa se ne andava
Giorgio Bocca (Natale non regala più nulla all’Italia, anzi ultimamente si
porta sempre via i pezzi migliori), che avrebbe avuto da dirci sicuramente
qualcosa di interessante sulle grandi manovre della politica. Soltanto sul
Professor Monti e sul suo governo vinil-tecnico avrebbe scritto sicuramente
parole memorabili. Ma Giorgio Bocca, come Rita Levi Montalcini, non ci sono più.
Siamo più soli, e da soli dobbiamo fare. A capirci qualcosa e a reagire, se ne
siamo capaci.
Di governi tecnici è piena la
nostra storia, a partire da Badoglio in poi. Periodicamente, la politica si è dimostrata
incapace di assolvere ai compiti per cui la paghiamo, e cara, e si è dovuta
fare da parte (a volte con acquiescenza infingarda pari alla propria incapacità
riconosciuta), lasciando il Monarca di turno, da Vittorio Emanuele III a
Giorgio I, a dare l’incarico al tecnico, al professore, così come
noi nel nostro piccolo si chiama l’Sos Casa a rimediare ai danni di architetti
e ingegneri strapagati a suo tempo.
Quasi sempre, prima di un
governo tecnico, o della sua variante esotica minimalista nostrana, il governo
balneare, c’era stata in precedenza una bella catastrofe di qualche tipo,
bellica o economica. E sempre al tecnico incaricato si chiedeva di ristabilire
la situazione dandogli sostanziale carta bianca e nessun obbligo di rendere
conto a organi minimamente elettivi e rappresentativi della volontà popolare.
Il Re d’Italia incaricò il Maresciallo Badoglio di tirare fuori il paese dalla
seconda guerra mondiale con la stessa nonchalance e la stessa lettura disinvolta
(ma legale) delle sue prerogative con cui 20 anni prima l’aveva consegnato al
Fascismo di Mussolini.
Il Presidente della Repubblica
aveva prerogative meno certe ed accertate quando bypassando completamente la
volontà popolare ha incaricato il Prof. Mario Monti di tirare fuori il paese
dalla crisi finanziaria (non economica, si badi bene) in cui l’avevano gettato
le banche (al pari di altri paesi nelle stesse condizioni, che però sono andati
a votare) che a suo tempo avevano espresso proprio i Monti, i Draghi e compagnia
bella a governare l’economia dell’Unione Europea in senso a loro favorevole. E
tuttavia l’ha fatto, con la stessa retorica disinvoltura con cui ha
accompagnato ogni azione politica della sua lunga vita, e ci fosse stata una
delle forze politiche presenti in Parlamento (ad eccezione di Lega ed Italia
dei Valori, peraltro squalificatesi da sole su altri terreni e per altri
motivi) che avesse avuto da ridire!
Anzi, proprio loro hanno
finito per legittimare l'azione di Napolitano dandogli quella maggioranza che
la Costituzione gli impone di cercare. In nome dello spread, della spending
review e di altre due o tre parole in lingua inglese che non hanno più significato
di quel gramelot con cui Dario Fo ci deliziava nei suoi splendidi spettacoli
teatrali di qualche anno fa, dalla sera alla mattina maggioranza e opposizione
sono sparite, in una ammucchiata che non ha avuto nemmeno quel minimo di
parvenza dignitosa dell’Unità Nazionale successiva al rapimento e al delitto
Moro. Tutti compatti a sostenere Mario Monti e la sua politica patrimoniale
verso i poveri, con la sua troupe che in un paio di elementi almeno non
ha fatto rimpiangere – quanto a sciocchezze e modo di porgerle, se non di
attuarle – i bei tempi di Brunetta.
La legislatura comunque dura
cinque anni e alla fine devi decidere, o sciogli le Camere e rimandi la gente a
votare o fai un colpo di stato, con tutti i rischi, gli incerti e le fatiche
del caso. E stavolta, stante la crisi economica reale e in alcuni momenti
veramente spaventosa e la sua gestione che è apparsa decisamente sperequativa
da parte di un governo di irresponsabili (in senso letterale) e di
uomini comunque provenienti dal mondo del privilegio bancario e finanziario,
non è affatto sicuro quale prodotto avrà l’umore sempre più nero del corpo
elettorale una volta al’interno della sospirata cabina di voto. Ecco allora che
la politica, il cui unico problema è tornare in Parlamento, sta correndo ai
ripari in uno scontro tra nuovo che cerca di avanzare e vecchio che cerca di
non arretrare che avrebbe fatto la felicità dei grandi commediografi e
sceneggiatori di una volta.
Tra partiti e personaggi in
cerca di autore, tra sequel o semplici remake di film già visti,
tra trasformismi ormai consueti della politica italiana eppure sempre
affascinanti nel loro ripetersi come se fosse la prima volta, la commedia delle
parti sempre meno chiare ha prodotto uno scioglimento delle Camere ed una convocazione
dei comizi elettorali per il 24 febbraio 2013. Per quella data, chi ha qualcosa
da brevettare lo tiri fuori, non si va oltre. Rien ne va plus.
Per quella data, sapremo se
nel campo Democratico avrebbe valso la pena scommettere sulla nuova generazione
dei Renzi, o se pure la vecchia dei Bersani, delle Bindi, delle Finocchiaro dei D’Alema ha qualche possibilità di riciclo
(e qualche politica da attuare che non sia quella di Mario Monti, se di politica
si è potuto parlare). Se nel campo liberale funziona ancora l’equazione di vent’anni
fa tra l’imprenditore di Arcore che sa parlare agli italiani e la loro paura
del cambiamento avventuroso rappresentato da chi nel frattempo ha avuto,
soprattutto in sede locale, le sue brave occasioni per sgovernare. Sapremo
inoltre se l’ennesimo tentativo di ridare vita alla Balena Bianca, la
Democrazia Cristiana, ha possibilità di successo e se vecchi arnesi dell’area
di governo e sottogoverno come Casini, Rutelli, Fini e lo stesso Montezemolo
hanno visto giusto nel tentare di presentare Mario Monti come il novello Alcide
De Gasperi, con buona pace di chi ha ragione di pensare che se lo statista
trentino tornasse in vita oggi toglierebbe perfino il saluto a questi suoi sedicenti
epigoni che a lui pretendono di richiamarsi.
Sapremo infine che sorte
avranno i tentativi veri o presunti di rompere il sistema vigente. Da quello del
Movimento Cinque Stelle che si è mosso per tempo ponendosi come alternativa
platealmente anti-sistema (e accettando di correre i rischi del caso, in
termini di reazione da parte di un sistema che non è mai stato né tenero né
leale verso i suoi oppositori), a quello di movimenti che stanno nascendo negli
ultimi giorni, dai “Fratelli d’Italia” di Crosetto e Meloni, per nulla convinti
del ritorno di Berlusconi, alla Rivoluzione Civile dell’ex magistrato di
turno Antonio Ingroia.
A tale proposito, al netto del
rispetto delle vigenti norme sia costituzionali che ordinarie, si moltiplica il
fenomeno dei giudici che decidono di saltare il fosso e di passare dal
Giudiziario al Legislativo. Senza voler esprimere un giudizio di merito sulle
persone, c’è da pensare che si tratti a questo punto di un fenomeno che si
possa configurare anche come degenerativo, oltre che poco produttivo, della
nostra politica nazionale. La lista dei magistrati prestati alla politica e non
più ritornati indietro è lunga, ormai, e dati alla mano si può affermare che
abbia prodotto ben poco di utile alla causa del paese, in ciascuno dei due
ambiti e poteri costituzionali. Di sicuro, si può affermare che magistrati
anche valenti hanno cessato di servire il loro paese indossando la toga con profitto
come avevano fatto, e sono andati a sedersi in un Parlamento a cui hanno dato
ben poco lustro o contributo.
Del resto, che c’è una
Costituzione da riformare in profondità e che il capitolo della Magistratura
non sia secondario nell’ambito delle riforme da fare, non è novità di oggi. Un
plauso semmai alla nostra classe politica che ha pensato bene di trasferire
anche questa questione a chi le succederà nella prossima legislatura, cioè a se
stessa, senza peraltro nessuna fretta.
Questo è il paese che nei
prossimi giorni darà l’ultimo saluto a Rita levi Montalcini. Le sia lieve la
terra, Dottoressa. E non porti con sé alcun rammarico nel suo viaggio verso il
suo meritato eterno riposo. Per scoprire il gene malformato che avvelena da
sempre la nostra vita di cittadini italiani sarebbe occorsa una vita
decisamente più lunga e avventurosa della sua. Buon anno a chi resta.