La notte del 4
novembre 2008 si era chiusa un’epoca. Quello Yes we can gridato alla
platea festante dei Democrats che riportavano il loro
candidato alla Casa Bianca dopo gli otto anni controversi di George
W. Bush sembrò a tutto il mondo in realtà molto di più della
celebrazione di una vittoria elettorale. Era il pagamento di un debito che la
storia aveva contratto con la razza umana molto tempo prima, quando il primo
uomo aveva messo in catene un proprio simile per sfruttarne il lavoro gratis.
Otto anni dopo, si chiude un’altra epoca.
Quando la storia decide di pagare i suoi debiti, spesso e volentieri lo fa in
modo approssimativo, tardivo e ricorrendo alle persone sbagliate. Dispiace
dirlo, considerato tutto ciò di cui era diventato simbolo, ma la vicenda di Barack
Obama è diventata il paradigma delle illusioni disattese, tradite.
Alle Primarie democratiche del 2008, i
debiti storici da pagare erano addirittura due. Gli Stati Uniti,
la più grande potenza mondiale del nostro tempo, attendevano di decidere se
portare finalmente nella loro stanza dei bottoni il primo colored o la
prima donna. Se chiudere la plurisecolare questione razziale sviluppatasi
attraverso la deportazione nel Nuovo Mondo degli schiavi africani, la Guerra
Civile tra Nord e Sud e la segregazione razziale post emancipazione
arrivata fino quasi ai giorni nostri. Oppure se dare riconoscimento al
completamento dell’emancipazione femminile a cui, dai tempi delle Suffragette
fino al ventunesimo secolo, mancava ormai solo la gratificazione dell’elettorato
passivo, l’ottenimento della massima carica dello stato, la Presidenza
degli Stati Uniti d’America.
Barack Husein Obama contro Hillary Rodham
Clinton. Vinse il campione della causa dei Neri
d’America. Il senatore dell’Illinois figlio di immigrati kenyoti rappresentava
addirittura di più, con quella sua estrazione culturale musulmana che ne faceva
l’incarnazione di una ulteriore rottura con il passato immediatamente
precedente e lo scontro di civiltà capitanato da Bush jr. La
campionessa della causa della parità di genere, la moglie
dell’ex Presidente Bill Clinton, avrebbe dovuto attendere. E
adesso sappiamo che dovrà farlo ancora.
L’America scelse e condizionò la storia,
che pagò il suo enorme debito malamente. Malgrado le grandi aspettative che
fecero subito di Obama una figura – almeno nelle intenzioni dei supporters
– carismaticamente paragonabile agli altri grandi campioni della razza
afroamericana, Mohammad Alì, Malcom X, Martin
Luther King, il reverendo Jesse Jackson, Barack Obama
non andò oltre quello stentoreo Yes we can gridato alla sua convention
ed al mondo la notte della sua prima elezione.
Uomo dell’anno di TIME
pochi giorni dopo quel voto storico, addirittura Premio Nobel per la
Pace un anno dopo, l’uomo che aveva portato i negri
finalmente ad esercitare il loro diritto di voto ed esteso loro addirittura il
sogno americano si rivelò sin da subito l’incarnazione della più cocente delle
delusioni. Armato del suo Si può fare, si lanciò in avventure improbabili
e velleitarie, come l’Obamacare, lo stravolgimento della
sanità privata da sempre connaturata alla mentalità dei suoi compatrioti e
basata sul sistema delle assicurazioni. O come il ritiro delle truppe a stelle
e strisce dall’Asia Minore e Centrale che non potevano più essere ritirate una
volta spedite laggiù, essendo ormai l’unico diaframma tra la permanenza
dell’equilibrio Est-Ovest sconvolto dall’attentato alle Torri Gemelle
e la caduta di quella vasta area del mondo nelle mani di Talebani,
Al Qaeda e poi Isis, con tutte le conseguenze
del caso.
O come la guerra personale a quella
mentalità della Frontiera connaturata ad ogni americano, che si
sostanzia nel possesso e nell’uso di armi. O la politica di accoglienza ai migranti,
nel caso specifico i messicani, molto oltre i margini di tolleranza di una
popolazione che pochi mesi prima della sua elezione aveva cominciato a
sperimentare sulla propria pelle gli effetti della crisi economica più
devastante dai tempi del Giovedi Nero del 1929. O l’appoggio
sistematico a tutte le leadership politicamente corrette ed economicamente
devastanti, come quella – per dirne solo una - di Angela Merkel
in una Unione Europea traballante e affamatrice.
E che dire di alcune comparsate, come
quel video che ritrae il Presidente e la sua Vice, la Clinton passata nel suo
staff dopo aver corso contro di lui alle Primarie, intenti ad una
pantomima con tanto di smorfie da cinema muto la notte della presunta cattura
ed eliminazione di Osama Bin Laden, il famigerato e
impalpabile Sceicco del Terrore? E quel veramente
insopportabile e stridente Job Well Done gridato alla folla a Ground
Zero i giorni successivi, ad enfatizzare come un ranchero
texano la morte del pericoloso bandito senza rendersi conto che la
frontiera su cui sparacchiava in area i colpi della sua colt non era
quella dei film western di una volta, ma quella molto più pericolosa
dello scontro di civiltà che lui ha finito per acuire molto
più del predecessore che l’aveva aperto?
Barack Obama è stato l’uomo delle grandi
speranze e delle ancora più grandi delusioni, rivelandosi inadatto a
governarle. L’assunto che chiunque può diventare Presidente degli Stati Uniti
purché nato in America con lui si è completato del corollario che purtroppo non
bastano lo jus soli, il colore della pelle o la teatralità con
cui si professano le proprie idee per essere adeguati a quella carica. Anzi,
sono pochi quelli che alla fine si dimostrano tali, e Barack Obama non va in
archivio come uno di questi.
La vittoria del suo successore, quel Donald
Trump che giura oggi nelle mani della Corte Suprema
come 44° successore di George Washington, ha vinto
sconfiggendo non tanto Hillary Clinton quanto proprio lui in persona, e la sua
eredità presunta. Spazzandone via illusioni e delusioni, e aprendo la porta ad
un’epoca – se Dio vorrà – completamente diversa.
L’unica effettiva eredità di Obama, alla
fine, è quella di aver favorito l’emancipazione non di una razza ma di una
intera comunità nazionale. Da oggi, si può essere colored e nello
stesso tempo incapaci. E lo si può far notare, da parte di chicchessia, senza
essere più accusati di razzismo.