Era stato un socialista atipico, nel pensiero e nei modi. Il primo
della sua generazione forse a capire la necessità di modernizzazione di un
partito che ancora oscillava irrequieto e instabile tra esperimenti di
centrosinistra e tentazioni frontiste.
Lelio Lagorio si è spento ieri a Firenze alla veneranda
età di 92 anni. Era nato a Trieste il 9 novembre del 1925, ma aveva eletto il
capoluogo toscano a sua patria d’adozione ed il P.S.I. a sua
patria politica. Erano gli anni in cui Pietro Nenni e gli
altri capi storici del socialismo italiano abbandonavano faticosamente,
dolorosamente e non senza ferite profonde difficilmente rimarginabili, la
strategia del Fronte Popolare con il Partito Comunista abbracciata
nel 1948 e si volgevano verso quello che fu il primo e forse più importante dei compromessi
storici del nostro dopoguerra, il centrosinistra con
la Democrazia Cristiana che trasformò il vecchio partito
massimalista in un partito di governo.
Nessuno meglio di Lagorio sembrava incarnare la nouvelle vague socialista.
Negli anni in cui Nenni diventava il primo membro socialista di un governo
nazionale italiano dopo il 1947, Lelio Lagorio diventava sindaco di Firenze
raccogliendo la pesantissima eredità di Giorgio La Pira. Fu un
mandato breve il suo, pochi mesi prima di cedere il testimone ad un altro
sindaco leggendario: Piero Bargellini, il sindaco dell’Alluvione.
Ma bastò perché Lelio Lagorio si facesse conoscere come politico di
rilievo e come signore dai modi distinti, un gentleman di
stampo britannico del quale la nostra politica annoverava e annovera tutt’ora
ben pochi esempi.
Il suo momento venne nel 1970. Una classe politica che cominciava ad
annaspare contro i venti nuovi della contestazione e della sempre maggiore
richiesta popolare di diritti civili e politici si trovò costretta a dare
attuazione finalmente alla più disattesa fino a quel momento delle previsioni
costituzionali: l’istituzione delle amministrazioni regionali.
La Toscana era una regione che si prevedeva rossa, ma le
urne elettorali dissero che il P.C.I. da solo non aveva i
numeri per raggiungere la maggioranza dei 50 consiglieri assegnatile dalla
legge. Il P.S.I. si rendeva necessario a tale scopo, e si fece pagare il conto
chiedendo la Presidenza della Regione. Sapendo di avere l’uomo giusto.
Lelio Lagorio fu il primo dei Presidenti della Regione Toscana, quando
ancora non si chiamavano – né pretendevano di chiamarsi – governatori.
E fu un grande Presidente, che operò nel periodo delicatissimo dei massicci e
spesso caotici trasferimenti di competenze dallo stato (con i decreti del 1972
e del 1977) sotto l’impatto dei quali le neonate amministrazioni regionali
potevano rischiare di affogare prematuramente. Lagorio fu – e resta a tutt’oggi
– un modello ineguagliato, nemmeno per approssimazione, dai suoi successori.
Tanto da meritarsi, unico, l’appellativo (assai evocativo e significativo da
queste parti) di Granduca.
Il Granduca che siedeva a Palazzo Budini Gattai, allora
sede della Presidenza quando gli uffici della Regione erano disseminati un po’
per tutta l’area urbana di Firenze, governò con saggezza e stile la costruzione
della macchina amministrativa regionale scegliendosi i funzionari giusti tra la
miriade che i trasferimenti statali riversava nel cosiddetto ruolo regionale.
Nel 1978, ritenuto esaurito il suo compito e sollecitato a sfide
ancora più importanti dalla politica romana, rimise il suo mandato candidandosi
alle elezioni politiche dell’anno successivo. Il suo posto fu preso da un altro
socialista, Mario leone, che lo tenne fino al 1983, quando un
P.C.I. il cui peso in Giunta Regionale era stato consistentemente aumentato
dalle avanzate elettorali degli anni settanta e dalla crisi degli alleati socialisti
(ma solo a livello locale, perché a quello nazionale già la rottura craxiana
con i vecchi compagni si stava facendo sentire) lo reclamò per il suo candidato Gianfranco
Bartolini, il presidente operaio.
A Roma, Lagorio trovò un clima favorevole alla ripresa di esperimenti
di centrosinistra, grazie all’azione – come si è detto – di Bettino
Craxi e di quella parte della D.C. che stava
rigettando il compromesso storico con il P.C.I. Nel 1980, per
la prima volta, un socialista si ritrovò affidato il delicatissimo Dicastero
della Difesa. Ormai la N.A.T.O. riteneva ammissibile ai propri Sancta
Sanctorum un esponente del P.S.I., tanto più se questo esponente era
una persona del prestigio e della caratura di Lelio Lagorio.
Fu ministro della difesa con Francesco Cossiga, e insieme
a lui affrontò la tempesta successiva alla strage di Ustica, a cui
Cossiga non sopravvisse. Lui sì, restando in carica con Arnaldo Forlani e
poi con i premier laici Giovanni Spadolini e
Bettino Craxi. Durante il suo mandato, gestì altre situazioni difficili da par
suo, come la crisi degli Euromissili in Sicilia, nonché la
delicatissima fase di avvio delle prime missioni militari italiane all’estero
con tutto il carico di implicazioni non soltanto psicologiche ma anche
costituzionali, in un paese che dopo l’8 settembre 1943 si era fatto scudo
dell’art. 11 della Costituzione ben al di là del suo dettato specifico.
Fu lui a ripristinare la Parata del 2 giugno come Festa
della Repubblica, ed ancora lui a varare a Monfalcone la prima portaerei
della Marina italiana, la Garibaldi. Fu lui a presiedere
addirittura il Consiglio dei Ministri europei della N.A.T.O.
Fu lui, nel 1980 in Irpinia in occasione del terremoto a far fronte al
quale non era stata ancora istituita la Protezione Civile, a gestire di fatto
la macchina dei soccorsi mettendo in campo un Esercito che in quella
circostanza fornì indubbiamente una delle sue immagini e prestazioni migliori.
Nel 1983, chiese ed ottenne da Craxi l’incarico al più tranquillo,
almeno in apparenza, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, dove
nei tre anni successivi legò il suo nome ad una riforma del C.O.N.I. attesa
da tempo immemorabile ed alla legge sul Fondo Nazionale per lo
Spettacolo, destinata ad assicurare per molti anni l'attività delle
istituzioni della musica, del cinema e del teatro.
Dal 1986 al 1988 fu membro del comitato ristretto della Camera dei
Deputati per i Servizi Segreti e per il Segreto di Stato, e in questa
veste gli toccò relazionare sull’episodio di Sigonella in cui
aveva avuto parte come membro del Governo. Cavaliere di Gran Croce al
merito della Repubblica per iniziativa del Presidente Sandro
Pertini, la sua carriera politica si era di fatto esaurita con la Prima
Repubblica. Negli ultimi anni si era dedicato all’attività di storico e di
pubblicista. Aveva pubblicato di recente L'Esplosione: storia della
disgregazione del PSI e le sue memorie come Ministro della
Difesa, L'Ora di Austerlitz.
La Toscana che da tempo ha smesso di essere il Granducato dice addio
al suo ultimo Granduca. Della sua opera, consegnata ormai alla storia, non
rimane pressoché niente nelle stanze sia della Regione che del Comune di
Firenze. Tutto spazzato via dall’opera di successori difficilmente paragonabili
a questo gentleman illuminato che aveva retto il timone della pubblica
amministrazione locale in un età difficile, ma in cui ancora ci si illudeva che
i grandi cambiamenti, se ben governati, potessero portare a grandi risultati.
Nessun commento:
Posta un commento