lunedì 8 settembre 2014

8 settembre

Di tutte le disfatte (e ce ne sono state) subite dall’esercito italiano – o per meglio dire dall’Italia come comunità civile e politica prima ancora che militare – ha finito per diventare quella per antonomasia. C’era stata Caporetto, ma era stata una sconfitta militare, lo Stato Maggiore e l’Esercito avevano comunque reagito, era una guerra n qualche modo sentita per le sue implicazioni risorgimentali. Il “popolo del Piave” aveva stretto i denti, e sul Piave aveva serrato le fila. Poi era venuta Vittorio Veneto, la vittoria nella Grande Guerra, Trento e Trieste, la fine del Risorgimento, il trionfo sull’odiato invasore germanico dopo 1.500 anni circa.
Vittorio Emanuele III di Savoia e Benito Mussolini
L’8 settembre no. Non c’è mai stata possibilità di riscatto, di rivalsa. Nemmeno di revisionismo storico, tanto di moda ai giorni nostri. L’8 settembre fu la débacle italiana sotto tutti i punti di vista. Quella forse da cui non ci siamo ripresi mai più, in cui abbiamo perso quel poco di autostima faticosamente rimessa insieme durante le sanguinose e sofferte guerre risorgimentali.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, il mito della “vittoria mutilata” – assieme a tante altre cose – aveva finito per imporre all’Italia la Seconda. Il regime fascista, incarnato da un Mussolini che fino al 1936 era stato bene o male in sintonia con un paese con voglia scomposta ma comunque legittima di rinascita e di crescita, aveva perso il contatto con il mondo moderno all’epoca della conquista dell’Impero. L’alleanza con Hitler, impulsivamente decretata dal Duce dopo che le potenze coloniali avevano storto la bocca alla nostra conquista dell’Etiopia, aveva partorito questo mostro, una guerra combattuta acanto a un nemico storico, mal digerito, per di più reso ancora più odioso da un regime – quello nazista – diventato agli occhi del mondo la personificazione del male assoluto.
La guerra nazifascista, a cui l’Italia aveva scelto di partecipare nel modo peggiore, entrandovi quando gli Alleati vivevano il loro momento più difficile ammassati sulla spiaggia di Dunkerque, aveva finito per concludersi come era fatale che fosse. La sottovalutazione di nemici molto più potenti di quanto non apparisse al provinciale condottiero di Predappio ed al suo entourage – in primis quegli Stati Uniti d’America che erano chiaramente anche all’epoca la potenza industriale emergente e la probabile superpotenza del futuro – aveva impelagato un’Italia che a fatica aveva retto la guerra coloniale e la Guerra di Spagna in aiuto dei franchisti in qualcosa che era più grande di lei.
Benito Mussolini e Pietro Badoglio
Hitler aveva dovuto rilevare e fare proprie tutte le “imprese” di Mussolini, che diversamente da Franco non aveva saputo opporgli un “no”. L’Italia era diventato quello che Churchill aveva definito con la consueta lucidità il “ventre molle dell’Asse”. Il bluff aveva retto finché Erwin Rommel – il vecchio nemico che aveva sfondato a Caporetto – aveva tenuto il Nordafrica. Poi la Sicilia era diventata un bersaglio fin troppo facile, e da lì prima l’Italia continentale e poi l’Europa sotto il tallone nazifascista.
Il 10 luglio Eisenhower aveva lanciato lo sbarco a Gela. Da quel momento era chiaro che l’Italia era sconfitta. Il prezzo da pagare dipendeva solo da lei. Perfino Mussolini, in uno degli ultimi sprazzi di buon senso e lucidità, avvertiva la necessità di separare le sorti dall’alleato improvvidamente scelto. Ma pochi giorni dopo, incontrandolo, non seppe far altro che ascoltarne l’ennesimo monologo in tedesco. E allora toccò ad altri prendere in mano le sorti di una patria sull’orlo del baratro.
La Principessa di Piemonte Maria José del Belgio, figlia di un re che non si era arreso ai nazisti finendone addirittura prigioniero, da tempo conduceva trattative segrete con gli angloamericani. Analoghe iniziative erano condotte dalla Santa Sede attraverso il Cardinale Montini, il futuro Papa Paolo VI. Vittorio Emanuele III aveva sempre fatto orecchie da mercante a tutto questo, ma di fronte all’eventualità di finire come molti colleghi europei si risolse ad agire, previo pronunciamento del Gran Consiglio del Fascismo, un organo assurto al rango di costituzionalità a seguito delle modifiche apportate con la sua acquiescenza allo Statuto Albertino dal regime fascista.
Il pronunciamento arrivò la notte tra il 24 ed il 25 luglio 1943. Dino Grandi e gli altri gerarchi sconfessarono Mussolini, che il giorno dopo si recò dal Re immaginando di dover rassegnare le dimissioni da quello che in fondo era un incarico di governo conferitogli a scadenza ventennale, ma non certo di uscirne in manette, arrestato dai Carabinieri che lo internarono in un carcere allestito appositamente a Campo Imperatore sul Gran Sasso.
Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle Forze Alleate in Europa
La sera di quel giorno, capo del governo italiano era diventato il personaggio più improbabile da un punto di vista delle capacità ma più verosimile alla luce della nota attitudine carrieristica italiana. Pietro Badoglio era un monumento alla mediocrità di lungo corso. C’era lui a Caporetto a fare quella bella figura di fronte a Rommel, c’era lui in Africa a concludere alla bell’e meglio quella campagna che in principio rischiava di ripetere i fasti di Adua 1896. C’era lui la sera del 25 luglio a dire alla radio agli italiani che “la guerra continuava a fianco dell’alleato germanico”. Vittorio Emanuele III di Savoia non aveva trovato di meglio che un grigio burocrate sabaudo come lui.
Il Marchese del Sabotino fece finta di continuare la guerra per un altro mese, poi a metà agosto si risolse a mandare il generale Castellano a Lisbona, zona neutra, a sentire se gli Alleati per caso fossero stati interessati ad un armistizio.  L’inglese non lo sapeva nessuno, ovviamente, altrimenti la delegazione italiana avrebbe avuto ben chiaro prima ancora di partire che gli Alleati non erano interessati a niente di meno che una unconditional surrender, una resa incondizionata. Come era stato stabilito fin dal gennaio di quell’anno a Casablanca, da Churchill, Roosevelt e Stalin. O forse lo sapevano benissimo.
E resa incondizionata fu. Con un’avvertenza, ma nota solo a pochi “interessati”. Quello che la delegazione italiana che si recò per firmare a Cassibile, popolosa e ridente frazione del Comune di Siracusa, era un armistizio corto. Il 3 settembre l’Italia uscì dalla guerra dell’Asse ed entrò in quella a fianco degli Alleati. Ma ottenne 5 giorni di tempo perché la cosa venisse alla luce. Il tempo in cui sarebbe entrato in vigore l’armistizio lungo, quello definitivo e pubblico. Il tempo che serviva a Sua Maestà Vittorio Emanuelle III di Savoia, la sua intera famiglia, il suo intero Stato Maggiore e tutta la sua Corte per scappare alla volta di Brindisi, città già controllata dalle forze angloamericane, abbandonando il popolo italiano, il suo esercito ed il suo onore al loro destino.
Più di mille parole, a descrivere il crollo di un paese e di una società insieme ai sofferti tentativi individuali di tanti connazionali che cercarono di reagire personalmente magari rivolgendo le armi contro chi dalla sera alla mattina era diventato da diffidente alleato a feroce occupante, vale il capolavoro cinematografico di Luigi Comencini interpretato da Alberto Sordi, Tutti a casa. “Signor comandante, accade un fatto incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani”.
In quelle ore, i nostri militari ignari venivano massacrati – come a Cefalonia – dalle SS, a Porta San Paolo i Granatieri di Sardegna tentavano una coraggiosa quanto inutile difesa di Roma contro la Wehrmacht, i Carabinieri cercavano dovunque di limitare gli eccessi dei nazisti inferociti per la “pugnalata alle spalle”, rimettendoci spesso la pelle. In quelle ore, Vittorio Emanuele III era al sicuro a Brindisi, avendo salvata la pelle ma avendo separato per sempre i destini della Monarchia da quelli dell’Italia.

Gli italiani reagirono a seconda delle inclinazioni personali. Un popolo che aveva perso almeno dal Rinascimento qualsiasi virtù guerriera e qualsiasi spirito civico – se non nazionale – per la maggior parte rimase a guardare, cercando di mettersi in salvo alla meno peggio. Alcuni scelsero la via dei monti, altri quella di Salò, secondo le ideologie o le pulsioni dei vent’anni. Ci vollero due anni per venire a capo dei guasti firmati a Cassibile. Vinsero per fortuna i partigiani, ma gli italiani ebbero in eredità un’Italia da ricostruire nel morale prima ancora che negli edifici e nelle strutture. E malgrado qualche vittoria nei Mondiali di Calcio o in altre competizioni prestigiose, non ci sono ancora riusciti. Ed è lecito a questo punto dubitare che ci riusciranno più.

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