domenica 28 settembre 2014

LA NOTTE DELLA REPUBBLICA: Guareschi contro De Gasperi: per rimanere liberi bisogna andare in galera

409 giorni di galera, sotto stretta sorveglianza. Non era un ladro, o peggio ancora un sospettato di qualche omicidio efferato. Era un giornalista scrittore, Giovanni Guareschi da Parma, destinato a diventare famoso per la sua personale rappresentazione della Guerra Fredda in salsa nostrana vissuta attraverso i personaggi di Don Camillo e Peppone. Come giornalista, cercava di raccontare le malefatte di quella che a lui sembrava una classe politica impresentabile (chissà che avrebbe scritto oggi….) dalle colonne del Candido, un periodico di satira politica fondato da Giovanni Mosca e da lui stesso, e che nell’immediato dopoguerra fu la palestra in cui si formarono – o finirono di formarsi – nomi prestigiosi del giornalismo italiano, da Leo Longanesi a Indro Montanelli, a Oreste Del Buono, a Carletto Manzoni a Walter Molino.
Non era un uomo di sinistra Giovanni Guareschi. Gli strali della sua satira avevano come bersaglio preferito i comunisti “trinariciuti”, l’Unione Sovietica, quel Fronte Popolare social-comunista che nel 1948 si era presentato alle prime elezioni libere del dopoguerra convinto di fare man bassa di voti e di portare l’Italia nel campo della rivoluzione proletaria e della Terza Internazionale e che invece aveva dovuto arrendersi clamorosamente alla valanga di consensi allo Scudo Crociato, la Democrazia Cristiana. Proprio sulle pagine del Candido di Guareschi fu coniato lo slogan elettorale più famoso del 1948, “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no!
Tuttavia, l’ex monarchico moderato Guareschi con la penna in mano era un giornalista imparziale, e non risparmiava il veleno del suo inchiostro anche alla maggioranza democristiana e clericale. Ed era inevitabile che venisse a scontrarsi con il potere, che in quel momento era nelle mani di Alcide De Gasperi. Nel gennaio 1954 Guareschi pubblicò due lettere a firma dello statista trentino che risalivano a dieci anni prima, a quella primavera in cui gli Alleati stavano cercando di forzare la resistenza tedesca ed impadronirsi di Roma, che nel frattempo stava agonizzando sotto il regime di città aperta imposto da Kappler e dalle SS di Via Tasso. Una primavera più simile ad un inverno, interminabile, proprio per porre fine alla quale De Gasperi, in quel momento rifugiato in Vaticano come molti altri politici italiani, aveva scritto al generale britannico Alexander, comandante della 8^ armata e del fronte alleato in Italia, per indicargli i punti nevralgici della capitale da bombardare al fine di porre termine più in fretta possibile alla resistenza tedesca e di indurre lo stesso popolo romano a ribellarsi ai nazifascisti.
Era materiale controverso, indubbiamente scottante, e nel clima di passioni avvelenate e tutt’altro che sopite dell’immediato dopoguerra destinato a prestarsi a furiose polemiche ed inevitabili strumentalizzazioni. Invano lo stesso Montanelli sconsigliò Guareschi – e perfino l’editore Rizzoli – di pubblicare le lettere. Guareschi andò a dritto, e De Gasperi sporse querela. Il processo, che allora ebbe luogo in tempi rapidi e non biblici come sarebbe successo al giorno d’oggi, si concluse con la condanna di Guareschi per diffamazione a mezzo stampa. Reato punibile, e punito, con la reclusione fino a dodici mesi.
La costituzione repubblicana, art. 21, tutelava già da sei anni la libertà di stampa, e ad essa si era aggiunta nel 1950 la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ma l’Italia del dopoguerra era – da un punto di vista dell’ordinamento giuridico – più vicina a quel regime fascista a cui la Repubblica era succeduta che a un paese libero, in cui si dava attuazione al dettato costituzionale e si recepivano i trattati internazionali. Il Codice Rocco prevedeva il carcere per diffamazione a mezzo stampa e per vilipendio delle autorità, e carcere fu. Guareschi, condannato dopo un processo in cui fu violata ogni guarentigia nei confronti dell’imputato,  entrò nella prigione di San Francesco a Parma il 26 maggio 1954 e ne uscì il 4 luglio dell’anno seguente. Siccome era recidivo a causa di una precedente condanna sospesa per la condizionale, dopo altri sei mesi in libertà vigilata presso la propria abitazione parmense, Guareschi tornò ad essere un uomo libero soltanto il 26 gennaio 1956.
Alcide De Gasperi, che aveva commentato la sorte dell’avversario con un “sono stato in galera anch’io e ci può andare anche Guareschi” che fa poco onore per la verità ad un personaggio altrimenti riconosciuto e ricordato per la grande statura morale oltre che per le qualità personali di uomo e di statista, non c’era più. Era morto il 19 agosto 1954. Giovanni Guareschi, che era entrato in carcere affermando orgoglioso “per rimanere liberi bisogna, ad un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”, dimostrò di essere un galantuomo fino in fondo dicendosi rattristato per “la morte improvvisa di quel poveretto (De Gasperi, n.d.r.). Io alla mia uscita avrei voluto trovarlo sano e potentissimo come l’avevo lasciato: ma inchiniamoci ai Decreti del Padreterno”.
Guareschi gli sopravvisse per quattordici anni, ma è opinione comune che il soggiorno in carcere l’avesse duramente segnato, imponendogli una vita ritirata per motivi di salute e un forte ridimensionamento della sua stessa attività di giornalista. Il Candido, dalla cui direzione si era dimesso poco dopo l’uscita dalla galera, chiuse i battenti nel 1961. Quando nel 1968 Giorgio Pisanò (esponente di spicco del Movimento Sociale Italiano) rifondò il periodico offrendogliene di nuovo la direzione, un infarto gli impedì di rispondere all’invito. Al suo funerale, l’unico collega presente fu Enzo Biagi, l’unica personalità di rilievo fu Enzo Ferrari. Assenti completamente le autorità. Fu sepolto con la bandiera italiana con lo stemma sabaudo.

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