martedì 30 settembre 2014

Knut

Ogni volta che ripenso a lui – praticamente di continuo – lo rivedo sempre com’era quella sera dal veterinario, nella gabbia dov’era convalescente, quando finalmente si rilassò alle mie carezze e concesse a se stesso, e anche a me, il primo barlume di speranza, il primo momento di tenerezza, di voglia di restare in questo mondo, di tornare a casa con noi, di diventare uno dei nostri gatti.
Knut era comparso una sera dello scorso gennaio. Eravamo tornati a casa a buio, mentre io ero già dentro a dar da mangiare ai nostri gatti affamati, Bamboo, Joyce e Amelia, Paola si era fermata fuori perché qualcuno miagolava dentro la siepe che recinta casa nostra. “C’è anche Amelia, qui”, mi gridò da fuori. Io da dentro vedevo Amelia, la gattina bianca, che mi faceva le fusa tra le gambe per avere la sua ciotola. “No,” le risposi, “Amelia è qui!” “Allora c’é un altro gatto bianco!” gridò Paola, prima di entrare in casa portandosi dietro il nuovo, affamatissimo arrivato.
Cominciò così la storia di Knut con noi. Lo chiamammo così perché ci ricordava l’orsetto bianco dello Zoo di Berlino. Bianco come l’Amelia, si distinguevano solo per le dimensioni. Knut era un gattone, per quanto emaciato dai tanti giorni trascorsi nei boschi e da una fame sconfinata.
Chissà da dove era arrivato, non l’abbiamo mai saputo, né abbiamo mai saputo se qualcuno lo cercava, lo reclamava. Più facile che qualcuno l’avesse abbandonato. Il veterinario scoprì subito che aveva la FIV, l’AIDS dei felini. Probabile che fosse stato allontanato, lasciato al suo destino nei boschi sotto Bivigliano, come tanti altri. Oppure chissà.
L’unica cosa certa era che Knuttino aveva una gran fame. Quella prima sera mangiò come un lupo, mentre gli altri gatti guardavano allibiti quel nuovo arrivato che si faceva fuori le loro provviste di cibo. Ma nessuno lo accolse male, tutto sommato. Più intelligenti di tanti esseri umani, capirono subito che quel loro simile aveva bisogno di aiuto, di un riparo contro il freddo invernale, di sfamarsi dopo aver patito la fame per chissà quanto.
E poi Knut era buono come il pane. Mai litigato con nessuno dei suoi fratelli adottivi. Semmai era diventato con il tempo “territoriale”, protettivo verso la sua nuova casa, il suo nuovo giardino, la sua proprietà e quella vita che il cielo gli aveva donato quando tutto sembrava perduto. Solo per illuderlo di nuovo, in attesa di un’altra beffa, ma questo allora non potevamo saperlo, né lui né noi. Knut faceva la guardia tutte le sere, dopo cena, guardando male altri gatti di passaggio e a volte accompagnandoli ai confini della proprietà. Ma mai con cattiveria o aggressività. Come certi americani di prima generazione, era diventato il più fanatico sostenitore della sua nuova patria, restando tuttavia quello che era: la bontà personificata. Perché Knut era una persona. Come noi.
Non facemmo a tempo a decidere di tenerlo con noi che le sue condizioni peggiorarono. Il periodo di stenti l’aveva provato, le sue difese compromesse dall’AIDS gli avevano procurato anemia, infezioni, malattie varie. Quando lo portai dal veterinario credevo di portarlo a morire, se non quella sera la sera successiva. E’ un qualcosa che ho già provato due volte, è straziante, da impazzire. Ed ero pronto ad affrontare quella cosa per la terza volta. La sera dopo invece lo trovai che stava reagendo, con la voglia di vivere che le medicine, le nostre cure e – spero – le mie carezze gli stavano ridando. Mi si abbandonò tra le braccia. Poche volte sono stato così contento come quella sera. Quando lo riportai a casa, pensavo di aver vinto chissà che, meglio di un terno al lotto.
Voglio bene a tutte le mie bestiole, allo stesso modo. A quelle che sono sopravvissute e a quelle che non ci sono più, soprattutto le ultime, portate via da quelle belve che si chiamano uomini e che dalle mie parti sono particolarmente feroci. Ma Knut era diventato in qualche modo speciale. “Salvato dal bosco”, come Mosé era stato salvato dalle acque. Knuttino era affettuoso, cercava il suo posto accanto a noi timidamente, quasi a voler dare agli altri gatti una sensazione rassicurante, far capire loro che non voleva passare avanti a nessuno. Cercava solo affetto e calore.
Era speciale. Come quella volta che dette la caccia all’uccellino entrato in casa fin sulle travi del soffitto, finché non lo prese. Per lasciare poi che glielo togliessi di bocca senza resistenza. Aveva dimostrato di essere un grande cacciatore. Non avendo fame, e non essendo una belva omicida come solo l’uomo può essere, lo lasciò vivere, non c’era scopo a prendersi la vita di un’altra creatura.
Chissà dov’è adesso. Chissà chi ha preso la sua di vite, e perché. Vorrei tanto poter sperare che avesse ripreso il suo viaggio, nei boschi settembrini, verso una nuova destinazione e magari una nuova famiglia. Vorrei solo sapere che sta bene, come ho cercato che stesse con tutte le mie forze da quando è venuto da noi. Ma di lui non c’è traccia, e cinque giorni sono tanti per una bestiola che aveva sempre fame, alle ore pasti si faceva sempre trovare davanti alla sua ciotola. Cinque giorni trascorsi in un bosco dove si aggirano le bestie più orrende che la natura abbia mai creato: gli uomini armati di fucile. Un bosco dove, ancora per chissà quanto, ogni luce ed ogni ombra giustificherà i miei sogni allo stesso modo dei miei incubi. Finché mi resterà solo il ricordo, e nemmeno una tomba dove andarlo a trovare, così come per Ljiuba e il Bianchino e tutti gli altri che non ci sono più. Spariti nel maledetto nulla.

Vorrei almeno la certezza che, se se ne è andato, adesso è in cielo a scorrazzare con gli altri nostri gatti scomparsi, in un giardino dove nessuno può far loro più niente di male. I miei cari, umani e animali tutti insieme. Ma non c’è nessuna certezza, di niente. La vita si fa beffe di noi. E si porta via sempre i più buoni. Come Knut, i cui occhi dolci non potrò scordare mai.

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