martedì 23 febbraio 2016

Le mille vite di Umberto Eco



Il tempo non è mai galantuomo. Prima o poi si porta via tutto quello che ha reso la nostra vita meritevole d’essere vissuta. Così, è arrivato il momento di scrivere l’ultima recensione del professor Umberto Eco.
Esattamente un anno fa avevo scritto la precedente, relativa alla sua settima prova d’autore. Numero Zero non aveva avuto forse il successo e la risonanza letteraria delle altre sue opere, soprattutto la prima, Il Nome della Rosa. Ma era stata in qualche modo un’opera conclusiva, paradigmatica. Il professor Eco aveva chiamato a raccolta il proprio talento narrativo e divulgativo per operare una sintesi della sua poetica, elaborata in oltre mezzo secolo di produzione sia saggistica che narrativa. Aveva abbandonato le favole letterarie, la letteratura della e sulla letteratura, “libri che parlano di altri libri” per usare una sua citazione, per approdare finalmente all’attualità, alla cronaca. Le vicende dell’Italia repubblicana fino a Mani Pulite avevano fatto da sfondo alla sua ultima (ma allora non lo sapevamo) Lectio Magistralis su comunicazione e informazione.
Non sapevamo che era l’ultima uscita in pubblico del professore di Alessandria. Umberto Eco aveva 84 anni, e da oltre 60 scriveva libri e ci spiegava come leggerli, i suoi e quelli di tutti gli altri. Con lui era giunta a sistema definitivo la “semiotica”, la scienza che studia i segni ed il modo in cui questi acquistano un significato. La base della comunicazione e della stessa letteratura.
Dagli esordi tomistici (diceva sempre che San Tommaso lo aveva “curato dalla fede”, rendendolo ateo o quantomeno agnostico) fino alla saggistica degli anni sessanta e settanta, il professore era diventato il principale studioso italiano e uno dei principali al mondo di quel fenomeno che conosciamo generalmente sotto il nome di “cultura”.
Diventato famoso per gli addetti ai lavori con il “Gruppo 63”, il raggruppamento di intellettuali che aveva intrapreso – a soli dieci anni dalla sua nascita – l’opera di svecchiamento di quello che era diventato il principale veicolo culturale, la televisione, era diventato conosciuto al grande pubblico con saggi epocali come Diario Minimo, Opera Aperta, Apocalittici e integrati.
Umberto Eco era un  intellettuale  caposcuola, che aveva aperto la porta della cultura italiana con la C maiuscola alla comprensione della sua versione nazional – popolare. Da cui fondamentalmente rifuggeva, per una sorta di snobismo connaturato a tutti gli intellettuali nostrani da che mondo è mondo, Italia è Italia, e cultura è cultura. Ma di cui riconosceva la necessità di essere studiata a fondo. Perché bene o male la nostra storia aveva conosciuto l’avvento della società di massa e lui della società, di ogni società, era studioso a partire dalla sua struttura di base, costituita dalle forme di comunicazione.
Mike Bongiorno e Edy Campagnoli
Il suo celebre saggio “Fenomenologia di Mike Bongiorno” aveva fatto piangere – dicono le cronache – lo stesso presentatore televisivo, che si era sentito a torto o a ragione trattato come fenomeno da baraccone e ridimensionato a livello di guitto del tubo catodico. In realtà, con quel saggio il professor Eco aveva preso due piccioni con una fava, cogliendo tra i primi l’essenza della nuova arte del ventesimo secolo, quella appunto “televisiva”, e la figura scenica, la dramatis personae di uno dei suoi interpreti principali e fondanti, il buon Mike che si apprestava ad accompagnare nelle loro serate domestiche ben due generazioni di italiani, quelle cresciute se non addirittura nate con il boom economico, sociale e culturale.
Eco era un genio apripista, non si fermava davanti a nulla, se lo riteneva meritevole della sua e della nostra attenzione. L’agente 007 era un fenomeno di massa, ed allora ecco il “Caso James Bond”. La padronanza dell’italiano era un problema notevole lasciato in eredità dall’alfabetizzatore maestro Alberto Manzi alle varie riforme scolastiche post-gentiliane, ed allora ecco “Come si fa una tesi di laurea”, che a partire dalla mia generazione è diventato un passaggio obbligato per tutti coloro di noi che ambivano a terminare gli studi scrivendo qualcosa di senso compiuto. L’Italia era un paese che scriveva male e leggeva anche peggio? Ecco Opera Aperta, e la sua definizione del “ruolo del lettore”. L’Italia era un paese che la televisione stava cambiando irrevocabilmente (e ancor più si apprestava a fare nei decenni successivi, dagli anni settanta in poi)? Ecco Apocalittici e Integrati.
Sean Connery, il primo 007 e futuro Guglielmo da Baskerville
Una vita spesa a definire cos’è letteratura e come fruirne. Per tutti, dal laureato all’agricoltore, dal dottore all’operaio. Eco disprezzava gli imbecilli (coloro ai quali internet – avrebbe detto in seguito – stava offrendo l’arma finale, quei fatali quindici minuti di visibilità e notorietà di cui stava parlando nello stesso periodo Andy Warhol) ma non gli ignoranti, ai quali bastava spiegare, per la prima volta, le cose con chiarezza. La differenza tra arte e ciarpame.
"Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito.. perché la lettura è un’immortalità all’indietro".
Di quella immortalità ad un certo punto il professor Eco si stancò di essere analista e osservatore, e desiderò diventarne parte. Ad un certo punto negli anni settanta gli fu chiesto di fare da curatore di una collana di gialli. Lui rispose che se mai avesse avuto a che fare con quel genere letterario lo avrebbe fatto da “autore”, ambientando la sua opera nel medioevo delle abbazie, dei grandi movimenti religiosi, dei monaci e delle eresie.
Sean Connery e Christian Slater
Dopo tanti libri letti e commentati, era arrivato il momento di scriverne uno suo proprio. Nacque così, quasi come divertissement, Il nome della Rosa. In esso, come un torrente in piena, si riversò tutta la erudizione del professore e tutta la sapiente commistione di generi di cui era capace. Guglielmo da Baskerville è uno Sherlock Holmes trasportato ai tempi della riforma cluniacense, della riscoperta della Poetica di Aristotele e dell’insorgere dell’Inquisizione. Baskerville è il nome della più celebre ambientazione dei romanzi di Arthur Conan Doyle, quello della caccia al Mastino. Il monaco a cui fa da assistente non il dottor Watson ma bensì il novizio Adso da Melk è un precursore del metodo induttivo-deduttivo, che sarà alla base della Scienza moderna una volta liberata dalle costrizioni della Fede.
Attraverso gli occhi del novizio, e secondo una tecnica collaudata fin dal feuilleton ottocentesco (si parte dal consueto, per noi, espediente del manoscritto ritrovato in circostanze eccezionali: dal baule contenente l’eredità alla bottiglia dispersa in mare), si dispiega per la prima volta il talento narrativo di Eco capace di alternare la suspence di un giallista di razza al genio figurativo del grande critico d’arte che ci guida in un viaggio visivo attraverso i monumenti e le scene di vita di un’epoca lontana, tragica e suggestiva, l’Età di Mezzo.
Alla fine, dell’abbazia divorata dalle fiamme scatenate dal monaco Jorge, custode dell’ortodossia cattolica, non rimane niente, così come delle nostre illusioni – questo sembra essere il messaggio dell’autore – di cogliere l’essenza delle cose attraverso la conoscenza, quando invece a malapena ne possediamo dei nomi che altro non sono che articolazioni del linguaggio di cui abbiamo perso il senso originario. Stat Rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, è questo il significato dei versi che chiudono la narrazione di Adso da Melk / Umberto Eco e danno il titolo al libro.
Il professore, in realtà, si divertiva a giocare, con filosofia, arte e letteratura in quanto complessi di simboli attraverso cui si affanna la cultura da sempre a cercare di dare un senso alla realtà. Non esiste quell’assoluto a cui tendeva l’uomo medieoevale, ma esistono tutta una serie di rappresentazioni della realtà stessa diverse tra loro e numerose e varie quanto gli esseri umani. Il cosiddetto relativismo di una cultura sempre più aperta, liberata dalle costrizioni di ogni genere.
Nessuno dei suoi libri successivi riuscì a bissare il successo del Nome della Rosa, che era stato probabilmente il prodotto di uno stato di grazia irripetibile. Ma tutti i romanzi successivi di Umberto Eco ripetono lo stesso schema: è una “mimesis biou”, una rappresentazione della vita, della realtà, secondo la percezione di un dato momento storico e secondo la deformazione naturale e/o interessata che gli uomini ne compiono. Tutti i suoi libri successivi vertono in sostanza su questo argomento. "Quando gli uomini smettono di credere in Dio, non è che non credono più a niente. Cominciano a credere ad ogni cosa".
Il Pendolo di Foucalut gioca – ma si tratta di un gioco serissimo e documentatissimo – con la leggenda nera dei Templari e tutte le leggende di vario segno e colore che sono sorte a proposito di Cabale, organizzazioni segrete che attraversano la storia dell’uomo e complotti vari. Erano gli anni del resto in cui uscivano libri come Il santo Graal di Baigent, Lincoln e Leigh, che scatenò per primo la caccia al mistero, all’esoterico, alla discendenza del divino tra noi. Il libro comincia e finisce al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, dove viene conservato l’originale pendolo ideato dal fisico Leòn Foucault per misurare la rotazione della Terra. Dan Brown farà iniziare più tardi il suo Codice Da Vinci nei saloni del Louvre, ma si prenderà molto più sul serio di quanto Umberto Eco mostri di voler fare, pur trattando temi serissimi o almeno vissuti come tali da una porzione sempre crescente di umanità.
L’isola del giorno prima è un altro esperimento. Riportare in prosa del ventesimo secolo la narrazione dei grandi resoconti di viaggio e dei romanzi d’avventura del Sei-Settecento a partire da Daniel De Foe. L’idea della nave che naufraga nell’Oceano Pacifico a cavallo del punto fisso, l’Antimeridiano di Greenvich, è affascinante. Alzi la mano chi non è preda della suggestione ogni notte di Capodanno al pensiero che mentre da noi scocca la mezzanotte al largo delle coste australiane essa è già passata da dodici ore, e gli indigeni di quei luoghi vivono già il nuovo anno. La Daphne, il relitto su cui si muove il protagonista, giace per metà nel giorno prima e per metà in quello successivo. Da lì parte un excursus di Eco attraverso tutta la filosofia e la proto-scienza entro cui si dibatteva la mente dell’uomo appena liberata dall’aristotelismo e dalla concezione del mondo tolemaica.
Con Baudolino si ritorna nel Medioevo. Non quello delle abbazie ma quello di Federico Barbarossa, della lotta tra Papato e Impero (sullo sfondo della quale Eco accenna anche alla fondazione della sua città natale, Alessandria), del richiamo dell’Oriente scatenato dalle Crociate. Il favoloso regno del Prete Gianni nell’immaginario medioevale racchiudeva in sé tutto ciò che esisteva ad est e su cui fino alla riconquista del Santo Sepolcro l’uomo europeo aveva potuto solo cercare di fantasticare. La tecnica di cominciare il manoscritto in volgare medioevale e poi di proseguirlo in italiano moderno contiene suggestioni manzoniane.
La misteriosa fiamma della Regina Loana nasce come pretesto per un ritorno all’infanzia. Quella dei coetanei dello stesso Eco che da ragazzini leggevano i primi fumetti su carta stampata, da Cino e Franco (il titolo del libro è quello di una loro avventura) a Flash Gordon a Mandrake. Il tema del rapporto tra età infantile ed età adulta viene sviluppato attraverso una cavalcata negli archetipi della letteratura avventurosa a fumetti, nonché spunti e citazioni di Jack London, Henry Rider Haggard e addirittura di Socrate. Il protagonista perde la memoria, poi la ritrova. Ma, "nello stesso istante in cui seppe, cessò di sapere". Si cresce, si acquistano cose preziose, se ne perdono altre ancora più preziose.
Il Cimitero di Praga gioca con la storia dell’Ottocento, ma soprattutto con le sue leggende nere. Dai retroscena del Risorgimento italiano alla letteratura (in gran parte ovviamente inventata) a proposito del complotto ebraico per dominare il mondo, si corre nel tempo a fianco di Giuseppe Garibaldi, Alexandre Dumas, Eugene Sue, Victor Hugo, la Cabala e la leggenda del Golem (nata appunto a Praga nel XVI secolo) fino ai Protocolli dei Savi di Sion. Alla fine il libro sembra terminare suggerendoci un interrogativo: siamo sicuri che la nostra storia sia proprio andata come ce l’hanno raccontata i testi ufficiali?
La stessa domanda che ci poniamo al termine di Numero Zero, ma qui l’ambientazione è collocata ai giorni nostri e la tesi ancora più suggestiva proprio perché investe e stravolge la nostra stessa vita. E se Mussolini non fosse morto a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945 e scampato all’esecuzione da parte dei partigiani fosse riuscito a mettersi in salvo? E dal suo rifugio avesse orchestrato tutte le trame nere (e le controtrame di altro colore) del dopoguerra?
Tesi e antitesi. Domande che non hanno e forse non possono avere risposta. Ma non era la risposta ad interessare il professor Umberto Eco, quanto la stessa domanda. Il fatto stesso di porsela, magari tra il serio ed il faceto. La realtà e la sua rappresentazione possono mai coincidere? Se così fosse avrebbe ragione di esistere una semiotica, una scienza dei simboli e dei significati?
Esista o meno quel mondo superiore, quella vita dopo la vita a cui Umberto Eco aveva smesso di credere per colpa di San Tommaso, c’è da pensare che adesso il professore ne sappia – se possibile – molto di più. A noi restano i suoi libri, e tutte le vite che ci ha regalato solo per il fatto di averli letti.

Mario Vargas Llosa, Umberto Eco, Salman Rushdie


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