venerdì 22 novembre 2013

A mio figlio Giacomo

La notte che Giacomo nacque, eravamo andati in ospedale alle prime doglie. A quell’epoca la Maternità di Careggi non era tanto all’avanguardia (nemmeno adesso per la verità) e non mi fecero rimanere. Fui rispedito a casa, ad aspettare. Alle 4 di notte mi telefonarono che la mamma di Giacomo entrava in sala parto. Allora abitavamo in Viale Guidoni a Novoli, davanti al mercato della frutta per chi conosce Firenze. Alle 4,10 ero fuori della sala parto, credo sia tutt’ora il “record della pista”. Siccome era un cesareo, non potei assistere.
Restai un’ora e più su una sedia nel corridoio fuori della Maternità. Vidi scorrere tutta la mia vita passata davanti agli occhi, e cercai di immaginarmi tutta la mia vita futura. Giacomo non era ancora nato e già arrivava la paura. Di cosa ci avrebbe riservato la vita, di cosa GLI avrebbe riservato la vita. Se sarei stato all’altezza o no, se avrei saputo dargli quello che era stato dato a me. La notte nelle ultime ore prima dell’alba sa essere più buia e tenebrosa che mai, specialmente se stai aspettando che nasca tuo figlio.
Finalmente, alle 5,30, un’infermiera uscì a dirmi che era nato. Dopo un’altra mezz’ora me lo fecero vedere. Poi, dopo appena il tempo di veder tornare la madre dalla sala, fui rispedito via, subito dopo aver dichiarato il nome di mio figlio all’ufficiale del Comune. A mezzogiorno potei finalmente riunirmi alla mia famiglia. Quando arrivò insieme ad altri 20 bambini depositati in un carrellone urlante, mi si strinse il cuore. Lui era buonissimo, a malapena si sentiva. Si attaccò subito, e quello fu il suo esordio al mondo.
Sono passati 20 anni. Chissà se sono stato il padre che lui desiderava. Di sicuro lui è stato il figlio che sognavo. E non cambierei un istante di quelli trascorsi con lui e per lui in questi 20 anni.
Tanti auguri, figlio mio. Ti voglio bene. Quanto te ne voglio lo potrai capire soltanto quando sarai tu al posto mio.
Il tuo babbo


JFK


Immagini in bianco e nero impresse nella memoria visiva e in quella collettiva di tutti coloro che c’erano, e anche di che è venuto dopo. Il filmato in superotto probabilmente più famoso nella storia dell’umanità intera. Il suo autore, il sarto cinquantottenne Abraham Zapruder, non immaginava certo la fama che il suo documentario era destinato ad acquisire quella mattina del 22 novembre 1963 quando scese in strada nella Dealey Plaza di Dallas per assistere al passaggio della limousine scoperta del presidente John Fitzgerald Kennedy, in visita al capoluogo texano assieme alla consorte Jacqueline Bouvier.
Vendidue secondi durò il filmato, dal momento in cui la vettura presidenziale sbucò da Elm Street nella piazza a quello in cui risuonarono gli spari che misero fine alla vita del suo illustre passeggero. La cinepresa catturò anche gli istanti in cui la First Lady, in preda al panico, istintivamente cercò di scendere dall’auto in corsa mentre il marito giaceva già riverso sul sedile imbrattato del suo sangue e della sua materia cerebrale. Poi Zapruder, sconvolto dal tragico sviluppo che aveva avuto quella che avrebbe dovuto essere una festa, spense la macchina e tornò al suo laboratorio. Salvo poi mettere il filmato a disposizione prima della stampa e poi delle autorità inquirenti. Una delle testimonianze più celebri, nell’ambito di una delle inchieste più famose e dall’esito più discutibile e discusso della storia.
Sono passati esattamente cinquant’anni, e sull’omicidio del Presidente della Nuova Frontiera, sul drammatico epilogo della vita di JFK, come lo chiamavano tutti affettuosamente non solo in America, sappiamo con certezza solo quello che c’è nel film di Zapruder e poco più. Sappiamo che un uomo di cittadinanza americana ma di fede marxista, reduce dall’URSS e con un passato di ex-marine prima e di sbandato poi, aveva ordinato per posta un fucile italiano risalente al tempo della guerra mondiale, un Manlicher-Carcano. Era un residuato bellico (e perciò vendibile senza tanti controlli e restrizioni) ma perfettamente funzionante, e con esso Oswald accarezzava l’idea di compiere un gesto eclatante contro un personaggio simbolo del mondo “capitalista”. La scelta era caduta sul simbolo più forte che il mondo avesse in quel momento: il giovane presidente degli Stati Uniti, l’uomo che aveva mandato in pensione la generazione politica della Seconda Guerra Mondiale e che aveva aperto (almeno nell’immaginario collettivo) le porte del futuro alla generazione che aveva di fronte la Nuova Frontiera: un nuovo idealismo che desse significato al secolo americano, la conquista dello spazio, i diritti civili per tutte le razze in America, la fine della Guerra Fredda e la distensione.
Ich bihn ein berliner.....
Secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori e poi avallata dalla Commissione del Congresso presieduta dal presidente della Corte Suprema Earl Warren, Lee Harvey Oswald aveva agito da solo, portando il suo fucile all’ultimo piano del Texas School Book Depository e aspettando il passaggio del corteo presidenziale. Da lassù, lui che era un ex tiratore scelto del corpo dei Marines, aveva freddato il presidente riuscendo poi ad allontanarsi nella confusione che seguì, e venendo poi arrestato quasi per caso dalla polizia di Dallas.
Quello che era successo dopo era altrettanto clamoroso. Oswald non arrivò mai ad essere interrogato da nessuno, due giorni dopo l’attentato fu ucciso a sangue freddo (malgrado fosse scortato dai poliziotti) durante un trasferimento da un cittadino a suo dire indignato per il suo gesto: il losco Jack Ruby, personaggio quanto mai equivoco legato a quella malavita che era da tempo accreditata quale acerrima nemica del presidente e del suo fratello Bobby, Ministro della Giustizia che aveva dichiarato guerra alle cosche.
La "vendetta" di Jack Ruby su Lee Harvey Oswald
Warren e gli altri inquirenti non trovarono nulla di strano nella ricostruzione ufficiale di tutta questa strana catena di eventi, e dopo tre anni di indagini archiviarono il caso come il tragico gesto di uno squilibrato. A tenere viva la fiaccola del dubbio provò il procuratore di New Orleans (città alla quale conducevano diverse piste connesse alle persone che a vario titolo erano entrate nell’indagine ufficiale), Jim Garrison, che dovette cedere le armi alla fine nel 1967 dopo essere rimasto isolato da un establishment che ormai aveva voltato pagina, e che dell’affaire Kennedy non ne voleva più sentire parlare. Quale che fosse stata la verità, i tempi stavano cambiando e i venti del 68 e della contestazione alla Guerra del Vietnam (che Kennedy aveva cercato di scongiurare, o almeno limitare) imponevano nuovi temi all’opinione pubblica americana.
Il lavoro di Garrison fu ripreso dal regista Oliver Stone, che nel 1991 riassunse la storia delle indagini nel suo “JFK un caso ancora aperto”. La confutazione del rapporto Warren era totale, Oswald non poteva aver agito da solo, forse aveva fatto soltanto da specchietto per le allodole. La dinamica degli spari (che indicava un tiro incrociato) escludeva la tesi dell’assassino isolato. I risultati dell’autopsia erano stati secretati o inquinati, molti testimoni oculari di quella mattina alla Dealey Plaza sparirono misteriosamente negli anni successivi. Kennedy era amato dal popolo americano come pochi altri presidenti, ma in soli tre anni si era fatto nemici potenti. Non solo le cosche mafiose dei Marcello, Giancana e Trafficante, ma anche la potente lobby militare-affaristica che premeva per un maggiore impegno nel Vietnam e per l’abbandono della distensione con l’URSS, e persino l’ambiente degli esuli cubani scottati dal fiasco alla Baia dei Porci.
Il figlio dell’emigrato irlandese diventato uno degli americani più ricchi e potenti aveva suscitato grandi sogni. “Non chiederti cosa può fare per te il tuo paese, ma cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Se fosse vissuto, Kennedy avrebbe forse incanalato quella che pochi anni dopo sarebbe diventata la contestazione giovanile in un nuovo idealismo americano (e forse mondiale). E chissà se sarebbe riuscito davvero a scongiurare tragedie come quella del sud-est asiatico (58.000 morti americani e non si sa quanti vietnamiti) e come la ripresa della Guerra Fredda. JFK divenne il nemico di chi aveva bisogno di mantenere il mondo in uno stato conflittuale. Mentre era a Berlino nell’estate del 1963 a sfidare il muro dei comunisti, “Ich bihn ein berliner”, qualcuno di molto più potente di Oswald si stava armando per porre fine alla sua Nuova Frontiera.
Questa è la storia che tutti conoscono, almeno nel suo epilogo. Il dramma di Dallas impressionò  profondamente l’anima del mondo e costituì una svolta nella sua storia con pochi altri precedenti nel passato. Cento anni prima era toccato ad Abraham Lincoln, il presidente della abolizione della schiavitù, cadere sotto i colpi di un fanatico sudista quando già la sua battaglia era vinta. John Wilkes Booth, come Lee Harvey Oswald un secolo dopo, divenne il capro espiatorio per l’eliminazione di un presidente troppo amato dalla gente e troppo odiato da chi non voleva che la Costituzione americana fosse presa troppo alla lettera dal popolo.

Gli spari di Dallas risuonarono in tutto il mondo, e risuonano ancora. Un anno dopo la morte di Kennedy scoppiarono a Berkeley in California le prime rivolte studentesche, due anni dopo i primi disordini per motivi razziali. Quando nel 1968 toccò a Bobby cadere sotto i colpi di un altro improbabile “fanatico isolato”, il palestinese Shiran Shiran, a Los Angeles durante la campagna elettorale per succedere al fratello alla Casa Bianca, l’America era impantanata nel Vietnam fino al collo. E soprattutto aveva perso per sempre la sua ingenuità e la sua fiducia nelle istituzioni progressiste, nel sogno americano che fino a Dallas non aveva conosciuto interruzioni o ostacoli. E la storia degli ultimi 50 anni è stata tutta diversa da quella che avrebbe potuto essere.

giovedì 21 novembre 2013

RENZIADE: Renzi Vs. D'Alema: in gioco il futuro dell'Italia


Ha vinto Renzi con il 46,7% dei voti, ma anche Cuperlo con il 38%, e Pippo Civati con il 9%. E soprattutto ha vinto Massimo D’Alema, l’uomo che nessuno ha mai votato ma che da più di vent’anni ha in mano quel partito che ha cambiato nome almeno quattro volte, ma le cui scelte politiche passano sempre attraverso le Case del Popolo. L’unico posto dove il politico meno simpatico della storia d’Italia conserva ancora intatto il suo sex appeal.
Le Primarie a doppio turno del PD hanno candidato il Sindaco di Firenze, il suo antagonista costruito nel laboratorio delle Case del Popolo e quell’altro, il “ragazzo terribile” e indisciplinato emerso dalla nuova generazione, forse l’ultima su cui il PD stesso eserciterà una qualche forma di richiamo.
L’8 dicembre prossimo la parola definitiva passerà a tutti coloro che saranno disposti a versare l’obolo di due euro. Basta questo infatti per scegliere il nuovo segretario del Partito Democratico, nonché candidato alla presidenza del consiglio nelle elezioni che prima o poi si terranno anche in questo paese il cui sistema politico è regredito ad una Monarchia semi-costituzionale. Del resto, per scegliere i candidati a questo ballottaggio si poteva essere anche sbarcati da poco da qualche gommone e tesserati con procedura d’urgenza da qualche solerte funzionario di partito. Molto più difficile e complicato avere un appuntamento medico tramite CUP, soprattutto se si è cittadini italiani.
Matteo Renzi sente già la vittoria in tasca, parla da segretario in pectore e da nuovo leader della sinistra. Ha già fatto ampiamente quello che gli riesce meglio: parlare in lungo e in largo, raccontando a tutti cosa sarà e cosa farà il nuovo PD. Per esempio, non sosterrà più ministri screditati come quella Cancellieri che ieri ha riaffermato arrogantemente il proprio buon diritto a farsi gli affari propri e dei propri amici di famiglia utilizzando apparecchiature di proprietà dello Stato. Con la benedizione e l’imprimatur del Presidente Letta, che ha legato il suo destino a quello della ministra telefonista, affermando un “la Cancellieri sono io” che come frase storica è seconda solo a quella celeberrima del re Sole Luigi XIV.
Renzi aveva speso molto del proprio prestigio presente e futuro nella sfiducia pubblica alla Cancellieri. Peccato che il nuovo PD è ancora di là da venire. In vigore c’è ancora quello vecchio, e quello vecchio è in mano a D’Alema & C. Dove “C” sta per la vecchia guardia che non molla, che vede il sindaco fiorentino come il fumo negli occhi e che si è organizzata dapprima mettendogli contro metà del partito (Cuperlo e Civati, se la matematica non è un opinione, hanno raccolto – lasciamo perdere come e da chi – consensi che ammontano insieme a quelli di Renzi, se non a qualcosa di più) e poi costringendo l’intero centrosinistra a votare compatto per la fiducia al Letta-Cancellieri. Passata ieri in tromba a Montecitorio con 405 voti a favore e 154 contrari. Tanti saluti a Matteo, rientrato nei ranghi come un Civati qualsiasi e lasciato a sproloquiare del nuovo partito che verrà.
Da un’altra parte sproloquiava anche D’Alema, parlando del partito che c’è, del fatto che questo continuerà a sostenere un governo che gli italiani non vogliono e non hanno mai scelto, ma che è voluto dalla Casta, che ha tutte le intenzioni di arrivare in fondo alla Legislatura così come stiamo messi adesso. Cioè male, visto che siamo ridotti al punto che mentre Letta annuncia che mancano 900 milioni di euro da trovare (sic!) entro oggi a pena di reintroduzione della seconda rata dell’IMU, in un’altra stanza Saccomanni dice che non è vero nulla, che i conti sono a posto così.
Ma di questo nel D’Alema-pensiero non si trova traccia. Ciò che conta è che il sistema vuole resistere a tutti i costi, e ha ufficialmente dichiarato guerra al rottamatore per antonomasia, Matteo Renzi. Il quale a questo punto avrebbe bisogno di qualche successo concreto da poter mostrare, oltre alle consuete parole. E non può certo bastare il millantato nuovo stadio a Firenze, che ieri pare essere tornato in auge.
Se Renzi vincerà l’8 dicembre, governerà su mezzo partito soltanto. In compenso Letta rischia di governare l’Italia per altri 4 anni. E “baffino” D’Alema non sarà “baffone” Stalin, ma in mano a lui il partito è veramente quella gioiosa macchina da guerra che Occhetto sognava. Un osso ben più duro da rodere di colui che smacchiava i giaguari.

Buona fortuna, Matteo. Ne avrai bisogno. Ne avrebbe bisogno anche l’Italia, ma non crediamo sia più neanche il caso di augurarglielo.

mercoledì 20 novembre 2013

Corso Salani torna a Firenze

20 novembre 2013


La 50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze, la manifestazione che con il patrocinio di Mediateca Regionale e Comune di Firenze è stata creata per raccordare tra loro tutti i festival cinematografici internazionali che si svolgono in autunno in riva all’Arno, ha proposto quest’anno l’evento “Per-Corso, tra i nostri autori”. La giornata di ieri 19 novembre è stata dedicata alla rievocazione di Corso Salani, il regista fiorentino prematuramente scomparso più di tre anni fa.
E’ la seconda volta che succede, dopo la retrospettiva dedicatagli “a caldo” nel 2010. Stavolta si è scelto di celebrarlo attraverso quella che possiamo definire la sua eredità, raccolta e curata in primis dall’Associazione che porta il suo nome e formalizzata nel Premio cinematografico parimenti a lui intitolato e che viene da quattro anni a questa parte assegnato alla migliore tra le opere cinematografiche indipendenti e low budget, che si avvicinano appunto alla sua visione del mondo e del cinema.
Il Premio viene attribuito nella manifestazione che da 25 anni a questa parte è assurta al rango di vero e proprio festival del cinema indipendente italiano, una sorta di Sundance nostrano, il Trieste Film Festival, che nella prossima edizione avrà luogo nel capoluogo giuliano dal 17 al 22 gennaio 2014. L’antipasto di ieri del festival fiorentino ha fornito intanto un significativo “dietro le quinte”, attraverso l’incontro con i membri della giuria che ha valutato le opere in concorso nel Premio ed i loro autori, con visione in sequenza di alcuni di questi film. Interessantissima in particolare l’anteprima assoluta italiana de Il seminarista, film realizzato grazie al sostegno del Fondo Cinema della Regione Toscana che il regista Gabriele Cecconi ha dedicato all’amico Salani.

Anche chi scrive ha avuto la fortuna e il privilegio di avere avuto Corso Salani come amico fin dagli anni della adolescenza. Corso era un po’ come Firenze, la città dov’era nato nel 1961 (oggi avrebbe avuto 52 anni). Un mix originalissimo di talento artistico e di umanità capace di rinnovarsi ogni giorno e capace di mostrare sempre nuovi aspetti di sé nei momenti più impensati anche a chi ci aveva fatta l’abitudine per la lunga consuetudine.
Corso Salani poteva essere estroverso e timido nello stesso tempo, con un universo di cose da esprimere dentro di sé e la capacità di esprimerle in mille modi diversi, e tuttavia mai soddisfatto di quelli più comuni, tradizionali, sempre alla ricerca di forme espressive sue, particolari, che prendevano di sorpresa anche chi le aveva viste nascere fin dai primi scherzi tra amici.
Di quegli amici di vecchia data, nessuno si era sorpreso quando Corso aveva comunicato la sua intenzione di intraprendere la carriera artistica nella Decima Arte, il Cinema. Quello era il suo mondo e il suo destino, lo sapevamo tutti. Neppure sorprese la sua scelta di dedicarsi al cinema indipendente, dopo alcune prove d’attore non indifferenti come quel Rocco Ferrante che costituisce lo splendido alter ego del giornalista Andrea Purgatori nel Muro di Gomma di Marco Risi, 1991. Alzi la mano chi non si è commosso dal profondo del cuore quando nelle scene finali Corso-Rocco-Andrea detta il suo pezzo dal telefono fuori del tribunale dove il muro di gomma è stato per la prima volta sfondato.
Il cinema che interessava a Corso, che era nelle sue corde, era tuttavia un altro. Era il cinema indipendente, estremamente personalizzato, intravisto già nella sua opera prima Voci d’Europa, del 1989. Era quella commistione tra documentario e fiction, tra osservazione della realtà e sua rappresentazione poetica che avrebbe pervaso la sua opera fino ai suoi ultimi giorni, trovando la consacrazione nei Confini d’Europa, quei corto-mediometraggi in cui aveva riversato la sua celebrazione delle land’s end del nostro continente come luoghi limite dello stesso spirito umano, di incontro delle diverse incomunicabilità e del proprio sentirsi comunque fuori posto, spaesati. O nel poetico road movie Mirna, riproiettato ieri sera in streaming da Mymovies in collaborazione con la 50 giorni.
Non c’è mai differenza tra l’amore che si legge in un fotogramma e quello che si sente nel cuore”, diceva lui. “Non credo che ci sia molta differenza tra quello che filmo e quello che vivo”. Era vero. Aveva davvero un gran cuore Corso Salani, anche se fu proprio il cuore a tradirlo, lasciandolo a terra quella sera di metà giugno sul lungomare di Ostia. Per chi l’ha conosciuto come uomo ci sono i ricordi di una vita terminata per lui troppo presto. Per chi vuole ricordarlo come regista e ha perso l’appuntamento di ieri, c’è la Fondazione che porta il suo nome e per tutti appuntamento a Trieste a gennaio prossimo.




martedì 12 novembre 2013

Nasiriyya



Come si fa a dimenticare Nasiriyya? Da ogni parte si legge: PER NON DIMENTICARE. Come se fosse possibile scordarsi di quella tragedia, di quell’attentato sanguinoso che sconvolse un paese e lo proiettò di colpo nel mondo moderno, in quel ventunesimo secolo in cui non è più possibile ripudiare la guerra, per nessun motivo. Perché la guerra ci ha raggiunti in casa nostra.
Come se fosse possibile dimenticare le mani del Presidente Ciampi, appoggiate su ognuna delle diciannove bare sbarcate a Ciampino avvolte nella bandiera tricolore. Quelle mani appoggiate per lunghi, interminabili istanti, a rappresentare come poche altre volte un sentimento condiviso da tutti gli italiani. In quel caso lo strazio, il dolore per quei ragazzi partiti con lo scudo verso l’Antica Babilonia e tornati sullo scudo, come guerrieri antichi in un mondo moderno che stentava ancora a capirli. A capire il perché c’era e c’è bisogno ancora che dei ragazzi nel fiore degli anni imbraccino le armi, anziché le fidanzate, e vadano da qualche parte a difenderci. A difendere chi resta a casa a continuare la vita di tutti i giorni, che tuttavia può continuare solo grazie a quei ragazzi lì, lontani, sotto il fuoco.
Sono passati dieci anni. Dieci anni fa soldati italiani erano in Iraq inquadrati sotto comando Alleato per far rispettare una risoluzione dell’ONU, la 1843, che con il linguaggio tipico della politica internazionale moderna parlava d “riportare la democrazia” nel paese in cui era stato appena deposto il dittatore Saddam Hussein. Il nuovo Hitler, si diceva allora, quello contro cui erano state combattute le due guerre del Golfo: la prima, quella del 1990, per liberare il Kuwait invaso dal più grande  e prepotente vicino, che finì per lasciare le cose come stavano e rinviare i problemi; la seconda, quella del 2003, sull’onda dell’illusione più o meno consapevole, più o meno fondata o ben diretta, della caccia a Bin Laden, ad Al Qaeda e a tutti i suoi alleati, prima nell’Afghanistan dei Talebani e poi nell’Iraq. L’antica Mesopotamia, la terra tra il Tigri e l’Eufrate che avevamo studiato a scuola e poi opportunamente dimenticato, come tutto ciò che riguarda quel Medio oriente che pure ha condizionato anche da lontano la vita di più generazioni di europei.
L’Italia era un paese che, con la Costituzione del 1948, aveva ripudiato la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. L’esercito italiano esisteva soltanto per difesa dei confini nazionali e dell’Alleanza Atlantica, in cui era inquadrato dal 1949. La scelta era sembrata doverosa e conseguente dopo la débacle – catastrofe della guerra mondiale combattuta per di più dalla parte sbagliata. Poi, a metà degli anni 80, durante una delle crisi ricorrenti nel “paese dei cedri”, il Libano – quella successiva alla famigerata strage di Sabra ed El Shatila, per capirsi – la situazione in Medio Oriente era parsa talmente compromessa, sull’orlo di una catastrofe suscettibile di tirarsi dietro il mondo intero, che l’Onu aveva deliberato l’invio di un contingente internazionale: americano, inglese, francese e – per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale – italiano.
L’invio del contingente agli ordini del generale Franco Angioni non era avvenuto senza polemiche laceranti. Per la prima volta da tempo immemorabile il paese era tornato a spaccarsi tra interventisti e pacifisti. Stavolta a dividere era il diverso approccio alla cosiddetta “sporca guerra” del petrolio. Il Medio Oriente era ed è il benzinaio del mondo, nessuno se lo nascondeva allora e se lo nasconde adesso. Diverso semmai è il sentimento di chi ha sempre preferito liquidare il coinvolgimento italiano nella politica internazionale come un sostegno indebito all’imperialismo americano, rispetto a chi invece – magari lentamente e faticosamente – ha finito per tornare a convincersi che quel coinvolgimento, magari a sostegno soltanto del nostro modello di vita a cui nessuno, nemmeno gli antiimperialisti, sa rinunciare volontariamente, richiede di tornare anche noi italiani ad imbracciare le armi e fare la nostra parte.
Gli uomini di Angioni partirono nel 1983. La missione fu un successo, magari retoricamente ammantato del mito degli “italiani brava gente” contrapposti ai “cattivi” anglosassoni e francesi.  Da allora, sempre più spesso uomini in divisa dell’esercito italiano presero ad essere inviati fuori dai confini nazionali in missioni internazionali. Una volta infranto il tabù, dalla Somalia, all’Iraq, alla Jugoslavia, all’Afghanistan e di nuovo all’Iraq, l’esercito italiano ebbe il suo carico di lavoro in misura sempre crescente, il suo battesimo del fuoco e presto purtroppo anche il suo tributo di sangue.
Si chiamava peacekeeping, missione di pace, secondo l’ipocrisia del “politicamente corretto” tanto in voga nel mondo post Guerra Fredda. Anche la missione deliberata dal Parlamento italiano nel maggio 2003 e denominata in codice “Antica Babilonia” in attuazione della risoluzione ONU 1843 venne rubricata come missione di pace. I nostri soldati furono inviati a Nasiriyya sotto comando inglese, a controllare una zona chiave nel distretto petrolifero iracheno. Giravano in assetto di guerra, subivano il fuoco nemico (a volte con le cosiddette “regole di ingaggio”, altra invenzione della moderna ipocrisia politica, che neanche permettevano loro di difendersi), venivano feriti e a volte morivano, ma guai a dire che non erano lì altro che a “mantenere la pace”
L’ipocrisia finì esattamente dieci anni fa, la sera del 12 novembre 2003, quando la notizia di apertura di tutti i telegiornali fu che la base italiana nel capoluogo iracheno aveva subito un gravissimo attentato, ad opera di un carro-bomba, che aveva fatto una strage tra gli italiani. 19 vittime, il tributo di sangue più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. Quella sera, mentre a tutti si chiudeva la gola per il dolore, a tutti o quasi fu anche chiaro che la tregua morale imposta dalla costituzione del 1948 era finita, che eravamo piombati nel mondo moderno, nel ventunesimo secolo, quello aperto e segnato per sempre dall’attentato alle Torri Gemelle.
Eravamo in guerra, e i nostri soldati erano al fronte a difenderci. E venivano uccisi, come quelli degli altri paesi. Gli italiani non erano più “brava gente”, ma obbiettivi dei terroristi al pari di americani, inglesi, tedeschi e quant’altri. La missione di pace era finita, cominciava quella di guerra, e intanto c’erano da riportare a casa quelle diciannove bare. I nostri primi morti in guerra dal 25 aprile 1945.
Le mani del Presidente Ciampi che accarezzavano quelle bandiere insanguinate su quelle casse da morto schierate a Ciampino erano le mani di tutti noi, quella notte. O quasi tutti, perché qualcuno continua ancora adesso a scrivere su qualche muro “10, 100, 1000 Nasiriyya”. Si sa, un paese libero è libero anche se dà pari cittadinanza ai suoi figli più sciocchi. Dei sessanta milioni o quasi di italiani che dieci anni fa invece compresero finalmente in che mondo si stavano ritrovando a vivere crediamo che siano veramente pochi quelli che a distanza di tutto questo tempo non ricordano con lo stesso dolore e la stessa angoscia quella notte, quelle mani, quel dolore. Quell’art. 11 della nostra amata Costituzione che non ci difende e non ci giustifica più. E questi nomi:
Carabinieri
Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Giovanni Cavallaro, sottotenente
Giuseppe Coletta, brigadiere
Andrea Filippa, appuntato
Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente
Daniele Ghione, maresciallo capo
Horacio[1] Majorana, appuntato
Ivan Ghitti, brigadiere
Domenico Intravaia, vice brigadiere
Filippo Merlino, sottotenente
Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante
Militari dell’esercito
Massimo Ficuciello, capitano
Silvio Olla, maresciallo capo
Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore
Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto
Pietro Petrucci, caporal maggiore
Civili
Marco Beci, cooperatore internazionale
Stefano Rolla, regista
oltre a nove cittadini iracheni presenti in servizio nella base italiana di Nasiriyya alle ore 10,40 (ora locale) della mattina dell’attentato, per un totale di 28 vittime