Come si fa a dimenticare
Nasiriyya? Da ogni parte si legge: PER NON DIMENTICARE. Come se fosse possibile
scordarsi di quella tragedia, di quell’attentato sanguinoso che sconvolse un
paese e lo proiettò di colpo nel mondo moderno, in quel ventunesimo secolo in
cui non è più possibile ripudiare la guerra, per nessun motivo. Perché la
guerra ci ha raggiunti in casa nostra.
Come se fosse possibile
dimenticare le mani del Presidente Ciampi, appoggiate su ognuna delle
diciannove bare sbarcate a Ciampino avvolte nella bandiera tricolore. Quelle
mani appoggiate per lunghi, interminabili istanti, a rappresentare come poche
altre volte un sentimento condiviso da tutti gli italiani. In quel caso lo
strazio, il dolore per quei ragazzi partiti con lo scudo verso l’Antica
Babilonia e tornati sullo scudo, come guerrieri antichi in un mondo moderno che
stentava ancora a capirli. A capire il perché c’era e c’è bisogno ancora che
dei ragazzi nel fiore degli anni imbraccino le armi, anziché le fidanzate, e
vadano da qualche parte a difenderci. A difendere chi resta a casa a continuare
la vita di tutti i giorni, che tuttavia può continuare solo grazie a quei
ragazzi lì, lontani, sotto il fuoco.
Sono passati dieci anni. Dieci
anni fa soldati italiani erano in Iraq inquadrati sotto comando Alleato per far
rispettare una risoluzione dell’ONU, la 1843, che con il linguaggio tipico
della politica internazionale moderna parlava d “riportare la democrazia” nel
paese in cui era stato appena deposto il dittatore Saddam Hussein. Il nuovo
Hitler, si diceva allora, quello contro cui erano state combattute le due
guerre del Golfo: la prima, quella del 1990, per liberare il Kuwait invaso dal
più grande e prepotente vicino, che finì
per lasciare le cose come stavano e rinviare i problemi; la seconda, quella del
2003, sull’onda dell’illusione più o meno consapevole, più o meno fondata o ben
diretta, della caccia a Bin Laden, ad Al
Qaeda e a tutti i suoi alleati, prima nell’Afghanistan dei Talebani e poi
nell’Iraq. L’antica Mesopotamia, la terra tra il Tigri e l’Eufrate che avevamo
studiato a scuola e poi opportunamente dimenticato, come tutto ciò che riguarda
quel Medio oriente che pure ha condizionato anche da lontano la vita di più
generazioni di europei.
L’Italia era un paese che, con la
Costituzione del 1948, aveva ripudiato la guerra come mezzo di risoluzione
delle controversie internazionali. L’esercito italiano esisteva soltanto per
difesa dei confini nazionali e dell’Alleanza Atlantica, in cui era inquadrato
dal 1949. La scelta era sembrata doverosa e conseguente dopo la débacle – catastrofe della guerra
mondiale combattuta per di più dalla parte sbagliata. Poi, a metà degli anni
80, durante una delle crisi ricorrenti nel “paese dei cedri”, il Libano –
quella successiva alla famigerata strage di Sabra ed El Shatila, per capirsi –
la situazione in Medio Oriente era parsa talmente compromessa, sull’orlo di una
catastrofe suscettibile di tirarsi dietro il mondo intero, che l’Onu aveva
deliberato l’invio di un contingente internazionale: americano, inglese,
francese e – per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale – italiano.
L’invio del contingente agli ordini
del generale Franco Angioni non era avvenuto senza polemiche laceranti. Per la
prima volta da tempo immemorabile il paese era tornato a spaccarsi tra
interventisti e pacifisti. Stavolta a dividere era il diverso approccio alla
cosiddetta “sporca guerra” del petrolio. Il Medio Oriente era ed è il benzinaio
del mondo, nessuno se lo nascondeva allora e se lo nasconde adesso. Diverso
semmai è il sentimento di chi ha sempre preferito liquidare il coinvolgimento
italiano nella politica internazionale come un sostegno indebito
all’imperialismo americano, rispetto a chi invece – magari lentamente e
faticosamente – ha finito per tornare a convincersi che quel coinvolgimento,
magari a sostegno soltanto del nostro modello di vita a cui nessuno, nemmeno
gli antiimperialisti, sa rinunciare volontariamente, richiede di tornare anche
noi italiani ad imbracciare le armi e fare la nostra parte.
Gli uomini di Angioni partirono
nel 1983. La missione fu un successo, magari retoricamente ammantato del mito
degli “italiani brava gente” contrapposti ai “cattivi” anglosassoni e
francesi. Da allora, sempre più spesso
uomini in divisa dell’esercito italiano presero ad essere inviati fuori dai
confini nazionali in missioni internazionali. Una volta infranto il tabù, dalla
Somalia, all’Iraq, alla Jugoslavia, all’Afghanistan e di nuovo all’Iraq,
l’esercito italiano ebbe il suo carico di lavoro in misura sempre crescente, il
suo battesimo del fuoco e presto purtroppo anche il suo tributo di sangue.
Si chiamava peacekeeping, missione di pace, secondo l’ipocrisia del
“politicamente corretto” tanto in voga nel mondo post Guerra Fredda. Anche la
missione deliberata dal Parlamento italiano nel maggio 2003 e denominata in
codice “Antica Babilonia” in attuazione della risoluzione ONU 1843 venne
rubricata come missione di pace. I nostri soldati furono inviati a Nasiriyya
sotto comando inglese, a controllare una zona chiave nel distretto petrolifero
iracheno. Giravano in assetto di guerra, subivano il fuoco nemico (a volte con
le cosiddette “regole di ingaggio”, altra invenzione della moderna ipocrisia
politica, che neanche permettevano loro di difendersi), venivano feriti e a
volte morivano, ma guai a dire che non erano lì altro che a “mantenere la pace”
L’ipocrisia finì esattamente
dieci anni fa, la sera del 12 novembre 2003, quando la notizia di apertura di
tutti i telegiornali fu che la base italiana nel capoluogo iracheno aveva
subito un gravissimo attentato, ad opera di un carro-bomba, che aveva fatto una
strage tra gli italiani. 19 vittime, il tributo di sangue più alto dalla fine
della seconda guerra mondiale. Quella sera, mentre a tutti si chiudeva la gola
per il dolore, a tutti o quasi fu anche chiaro che la tregua morale imposta
dalla costituzione del 1948 era finita, che eravamo piombati nel mondo moderno,
nel ventunesimo secolo, quello aperto e segnato per sempre dall’attentato alle
Torri Gemelle.
Eravamo in guerra, e i nostri
soldati erano al fronte a difenderci. E venivano uccisi, come quelli degli
altri paesi. Gli italiani non erano più “brava gente”, ma obbiettivi dei
terroristi al pari di americani, inglesi, tedeschi e quant’altri. La missione
di pace era finita, cominciava quella di guerra, e intanto c’erano da riportare
a casa quelle diciannove bare. I nostri primi morti in guerra dal 25 aprile
1945.
Le mani del
Presidente Ciampi che accarezzavano quelle bandiere insanguinate su quelle
casse da morto schierate a Ciampino erano le mani di tutti noi, quella notte. O
quasi tutti, perché qualcuno continua ancora adesso a scrivere su qualche muro
“10, 100, 1000 Nasiriyya”. Si sa, un
paese libero è libero anche se dà pari cittadinanza ai suoi figli più sciocchi.
Dei sessanta milioni o quasi di italiani che dieci anni fa invece compresero
finalmente in che mondo si stavano ritrovando a vivere crediamo che siano
veramente pochi quelli che a distanza di tutto questo tempo non ricordano con
lo stesso dolore e la stessa angoscia quella notte, quelle mani, quel dolore.
Quell’art. 11 della nostra amata Costituzione che non ci difende e non ci giustifica
più. E questi nomi:
Carabinieri
Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante,
Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Giovanni Cavallaro, sottotenente
Giuseppe Coletta, brigadiere
Andrea Filippa, appuntato
Enzo Fregosi, maresciallo
luogotenente
Daniele Ghione, maresciallo capo
Ivan Ghitti, brigadiere
Domenico Intravaia, vice brigadiere
Filippo Merlino, sottotenente
Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante,
Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante
Militari
dell’esercito
Massimo Ficuciello, capitano
Silvio Olla, maresciallo capo
Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore
Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo
scelto
Pietro Petrucci, caporal maggiore
Civili
Marco Beci, cooperatore internazionale
Stefano Rolla, regista
oltre a nove cittadini iracheni presenti
in servizio nella base italiana di Nasiriyya
alle ore 10,40 (ora locale) della mattina dell’attentato, per un totale di 28
vittime
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