Immagini in bianco e nero impresse nella memoria visiva e in quella collettiva di tutti coloro che c’erano, e anche di che è venuto dopo. Il filmato in superotto probabilmente più famoso nella storia dell’umanità intera. Il suo autore, il sarto cinquantottenne Abraham Zapruder, non immaginava certo la fama che il suo documentario era destinato ad acquisire quella mattina del 22 novembre 1963 quando scese in strada nella Dealey Plaza di Dallas per assistere al passaggio della limousine scoperta del presidente John Fitzgerald Kennedy, in visita al capoluogo texano assieme alla consorte Jacqueline Bouvier.
Vendidue secondi durò il filmato,
dal momento in cui la vettura presidenziale sbucò da Elm Street nella piazza a
quello in cui risuonarono gli spari che misero fine alla vita del suo illustre
passeggero. La cinepresa catturò anche gli istanti in cui la First Lady, in
preda al panico, istintivamente cercò di scendere dall’auto in corsa mentre il
marito giaceva già riverso sul sedile imbrattato del suo sangue e della sua materia
cerebrale. Poi Zapruder, sconvolto dal tragico sviluppo che aveva avuto quella
che avrebbe dovuto essere una festa, spense la macchina e tornò al suo
laboratorio. Salvo poi mettere il filmato a disposizione prima della stampa e
poi delle autorità inquirenti. Una delle testimonianze più celebri, nell’ambito
di una delle inchieste più famose e dall’esito più discutibile e discusso della
storia.
Sono passati esattamente cinquant’anni,
e sull’omicidio del Presidente della Nuova Frontiera, sul drammatico epilogo
della vita di JFK, come lo chiamavano tutti affettuosamente non solo in
America, sappiamo con certezza solo quello che c’è nel film di Zapruder e poco
più. Sappiamo che un uomo di cittadinanza americana ma di fede marxista, reduce
dall’URSS e con un passato di ex-marine prima e di sbandato poi, aveva ordinato
per posta un fucile italiano risalente al tempo della guerra mondiale, un
Manlicher-Carcano. Era un residuato bellico (e perciò vendibile senza tanti
controlli e restrizioni) ma perfettamente funzionante, e con esso Oswald
accarezzava l’idea di compiere un gesto eclatante contro un personaggio simbolo
del mondo “capitalista”. La scelta era caduta sul simbolo più forte che il
mondo avesse in quel momento: il giovane presidente degli Stati Uniti, l’uomo
che aveva mandato in pensione la generazione politica della Seconda Guerra
Mondiale e che aveva aperto (almeno nell’immaginario collettivo) le porte del
futuro alla generazione che aveva di fronte la Nuova Frontiera: un nuovo
idealismo che desse significato al secolo americano, la conquista dello spazio,
i diritti civili per tutte le razze in America, la fine della Guerra Fredda e
la distensione.
Ich bihn ein berliner..... |
Secondo la ricostruzione fatta
dagli investigatori e poi avallata dalla Commissione del Congresso presieduta
dal presidente della Corte Suprema Earl Warren, Lee Harvey Oswald aveva agito
da solo, portando il suo fucile all’ultimo piano del Texas School Book
Depository e aspettando il passaggio del corteo presidenziale. Da lassù, lui
che era un ex tiratore scelto del corpo dei Marines, aveva freddato il
presidente riuscendo poi ad allontanarsi nella confusione che seguì, e venendo poi
arrestato quasi per caso dalla polizia di Dallas.
Quello che era successo dopo era
altrettanto clamoroso. Oswald non arrivò mai ad essere interrogato da nessuno,
due giorni dopo l’attentato fu ucciso a sangue freddo (malgrado fosse scortato
dai poliziotti) durante un trasferimento da un cittadino a suo dire indignato
per il suo gesto: il losco Jack Ruby, personaggio quanto mai equivoco legato a
quella malavita che era da tempo accreditata quale acerrima nemica del
presidente e del suo fratello Bobby, Ministro della Giustizia che aveva
dichiarato guerra alle cosche.
La "vendetta" di Jack Ruby su Lee Harvey Oswald |
Warren e gli altri inquirenti non
trovarono nulla di strano nella ricostruzione ufficiale di tutta questa strana
catena di eventi, e dopo tre anni di indagini archiviarono il caso come il
tragico gesto di uno squilibrato. A tenere viva la fiaccola del dubbio provò il
procuratore di New Orleans (città alla quale conducevano diverse piste connesse
alle persone che a vario titolo erano entrate nell’indagine ufficiale), Jim
Garrison, che dovette cedere le armi alla fine nel 1967 dopo essere rimasto isolato
da un establishment che ormai aveva voltato pagina, e che dell’affaire Kennedy
non ne voleva più sentire parlare. Quale che fosse stata la verità, i tempi
stavano cambiando e i venti del 68 e della contestazione alla Guerra del
Vietnam (che Kennedy aveva cercato di scongiurare, o almeno limitare)
imponevano nuovi temi all’opinione pubblica americana.
Il lavoro di Garrison fu ripreso
dal regista Oliver Stone, che nel 1991 riassunse la storia delle indagini nel
suo “JFK un caso ancora aperto”. La
confutazione del rapporto Warren era totale, Oswald non poteva aver agito da
solo, forse aveva fatto soltanto da specchietto per le allodole. La dinamica
degli spari (che indicava un tiro incrociato) escludeva la tesi dell’assassino
isolato. I risultati dell’autopsia erano stati secretati o inquinati, molti
testimoni oculari di quella mattina alla Dealey Plaza sparirono misteriosamente
negli anni successivi. Kennedy era amato dal popolo americano come pochi altri
presidenti, ma in soli tre anni si era fatto nemici potenti. Non solo le cosche
mafiose dei Marcello, Giancana e Trafficante, ma anche la potente lobby
militare-affaristica che premeva per un maggiore impegno nel Vietnam e per
l’abbandono della distensione con l’URSS, e persino l’ambiente degli esuli cubani
scottati dal fiasco alla Baia dei Porci.
Il figlio dell’emigrato irlandese
diventato uno degli americani più ricchi e potenti aveva suscitato grandi
sogni. “Non chiederti cosa può fare per
te il tuo paese, ma cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Se fosse vissuto,
Kennedy avrebbe forse incanalato quella che pochi anni dopo sarebbe diventata
la contestazione giovanile in un nuovo idealismo americano (e forse mondiale).
E chissà se sarebbe riuscito davvero a scongiurare tragedie come quella del
sud-est asiatico (58.000 morti americani e non si sa quanti vietnamiti) e come
la ripresa della Guerra Fredda. JFK divenne il nemico di chi aveva bisogno di
mantenere il mondo in uno stato conflittuale. Mentre era a Berlino nell’estate
del 1963 a sfidare il muro dei comunisti, “Ich
bihn ein berliner”, qualcuno di molto più potente di Oswald si stava
armando per porre fine alla sua Nuova Frontiera.
Questa è la storia che tutti
conoscono, almeno nel suo epilogo. Il dramma di Dallas impressionò profondamente l’anima del mondo e costituì
una svolta nella sua storia con pochi altri precedenti nel passato. Cento anni
prima era toccato ad Abraham Lincoln, il presidente della abolizione della
schiavitù, cadere sotto i colpi di un fanatico sudista quando già la sua
battaglia era vinta. John Wilkes Booth, come Lee Harvey Oswald un secolo dopo,
divenne il capro espiatorio per l’eliminazione di un presidente troppo amato
dalla gente e troppo odiato da chi non voleva che la Costituzione americana
fosse presa troppo alla lettera dal popolo.
Gli spari di Dallas risuonarono
in tutto il mondo, e risuonano ancora. Un anno dopo la morte di Kennedy
scoppiarono a Berkeley in California le prime rivolte studentesche, due anni
dopo i primi disordini per motivi razziali. Quando nel 1968 toccò a Bobby
cadere sotto i colpi di un altro improbabile “fanatico isolato”, il palestinese
Shiran Shiran, a Los Angeles durante la campagna elettorale per succedere al
fratello alla Casa Bianca, l’America era impantanata nel Vietnam fino al collo.
E soprattutto aveva perso per sempre la sua ingenuità e la sua fiducia nelle
istituzioni progressiste, nel sogno americano che fino a Dallas non aveva
conosciuto interruzioni o ostacoli. E la storia degli ultimi 50 anni è stata
tutta diversa da quella che avrebbe potuto essere.
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