venerdì 21 febbraio 2014

RENZIADE: La squadra


La porta dello studio del Presidente della Repubblica si apre intorno alle 19,00. Il governo Renzi è appena nato e si presenta alla stampa, che attende da oltre due ore e mezzo. Il Presidente del Consiglio incaricato cerca di nascondere una certa emozione con la consueta spavalderia, quella faccia tosta che l'ha sempre aiutato e che adesso, per sua stessa ammissione, è diventata la principale posta in gioco.
Si, perché come chiarirà Matteo Renzi nella breve ma significativa conferenza stampa, questo governo nasce con l'obbiettivo dichiarato di arrivare alla fine della legislatura nel 2018, ma ha un altro obbietivo decisamente più impellente: arrivare a domattina quando, subito dopo il giuramento, il nuovo Consiglio dei Ministri dovrà mettersi al lavoro per attuare prima possibile quelle riforme che "sono ad un passo" e di cui il paese non può più fare a meno.
Matteo Renzi è il più giovane Presidente incaricato della storia repubblicana e anche in assoluto dell'Italia unita, avendo superato di pochissimi mesi il precedente detentore del record, Benito Mussolini. Insieme a lui, sono altri due i ministri under 40, Marianna Madia a cui è toccata la Pubblica Amministrazione e Maria Elena Boschi andata alle Riforme ed ai Rapporti con il Parlamento. E' appena quarantenne la neo-ministra degli Esteri (che erediterà subito dal predecessore Emma Bonino la patata bollente del caso dei Marò detenuti in India da due anni) Federica Mogherini.
Il governo Renzi stabilisce altri record assoluti. E' il secondo governo con il minor numero di ministri (16) dal dopoguerra ad oggi, dietro un De Gasperi 3 che ne aveva 15. Ed è il primo a realizzare effettivamente le pari opportunità, poiché le donne sono presenti con lo stesso numero degli uomini. Quasi tutti volti nuovi, tra l'altro, ad eccezione di Angelino Alfano, Beatrice Lorenzin e Maurizio Lupi, confermati rispettivamente a Interni, Sanità e Trasporti ed Infrastrutture.
Alla seconda esperienza di governo anche Dario Franceschini alla Cultura e Andrea Orlando alla Giustizia, mentre non può essere definito un volto nuovo Pier Carlo Padoan, già consulente della Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea, nonché vicepresidente dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che succede a Saccomanni al Ministero dell'Economia e delle Finanze. Giuliano Poletti di Legacoop si accomoda invece sulla poltrona del Ministro del Lavoro e del Welfare.
Questa è la squadra che da domattina si metterà al lavoro per riuscire a fare quello che non è riuscito ai predecessori, di cui eredita la maggioranza delle "larghe intese". Il governo presieduto da Renzi è il terzo infatti che non nasce da un voto popolare ma da scelte discrezionali del Presidente della Repubblica favorite dalle forze politiche. Dopo Monti e Letta, tocca adesso all'ex sindaco di Firenze.
Che sia la volta buona? Renzi è convinto di sì, ripetendolo dovunque, da Twitter ai microfoni della sala stampa del Quirinale, e affermando di giocarsi la faccia sulla salvezza dell'Italia prima ancora che la carriera.
Poco dopo esce il presidente Napolitano, che commenta con soddisfazione l'incarico a un governo con tutti i requisiti per realizzare quello che a suo dire è stato l'impegno principale della sua presidenza, le riforme.
Prodi, Berlusconi, Letta e Monti sono archiviati. Tocca al nuovo che avanza, domattina il giuramento, lunedi la fiducia.

giovedì 20 febbraio 2014

RENZIADE: Renzi Vs. grillo: Signore e Signori, va ora in onda il futuro



Non resterà nella storia come Kennedy contro Nixon. Del resto cinquant’anni almeno di ritardo sugli americani non si recuperano in un giorno. E nemmeno come Hollande contro Sarkozy. Il nostro ritardo sui francesi è addirittura abissale, loro chiarirono molto bene i rapporti con i loro governanti nel luglio del 1789 e negli anni seguenti, e raramente hanno avuto bisogno di ritornarci sopra.
Ma da ieri anche noi abbiamo fatto il nostro ingresso nell’età moderna, quella dei mass-media e della politica fatta attraverso di essi, malgrado una Costituzione  che qualcuno cerca di riformare con un “upgrade” di tipo europeistico e qualcun altro cerca di riportare con un “downgrade” allo Statuto Albertino dei tempi della Monarchia.
E’ universalmente noto che le consultazioni in occasione della formazione di un nuovo governo in Italia assomigliavano finora più alle celebrazioni delle feste comandate in Vaticano che ad un processo politico e democratico come quello che ci scopriamo ormai sempre più di frequente ad invidiare ai nostri vicini più fortunati. Tutto si svolge nelle sacre e segrete stanze del Quirinale, dove da sempre un Capo dello Stato la cui discrezionalità per qualche giorno sfugge ad ogni controllo celebra dei “misteri” la cui liturgia si conclude, salvo rare eccezioni, con la presentazione “urbi et orbi” di un nuovo esecutivo le cui ragioni profonde sfuggono ai più.
Da quando poi l’inquilino del Colle è quello attuale, il Capo dello Stato assomiglia più a quello della Chiesa. Ci manca solo il Dogma dell’Infallibilità, per il resto la distanza tra le due sponde del Tevere, come le chiamava il defunto senatore Andreotti, ormai si è decisamente assottigliata.
Senonché, siamo nel secolo della rete, del web, come dicono i suoi inventori anglosassoni. E allora volenti o nolenti siamo costretti anche noi ad uscire dal chiuso dei conclavi e delle sagrestie di ogni ordine e grado e ad andare in “streaming”. E ad assistere a siparietti che finora avevamo soltanto potuto immaginare.
Ripetiamo, Renzi non è Kennedy e meno che mai Grillo è Nixon. Ma quello che abbiamo visto ieri in qualche modo è destinato a restare nella storia. L’unico precedente di consultazioni on line si era concluso esattamente un anno fa mestamente, con il presidente incaricato apparso come il pugile ormai suonato che affronta un giovane ex “sparring partner” e gli soccombe inevitabilmente. Pierluigi Bersani, già declassato da smacchiatore di giaguari a vittima sacrificale della “volontà di impotenza” che pervade da sempre il suo stesso partito, era parso come il vecchio Mohamed Alì a fine carriera di fronte a un Grillo che come Larry Holmes, suo ex sparring di qualche anno prima (nel caso di Grillo a precedenti primarie gestite pessimamente dal PD), non aveva potuto fare a meno di gonfiarlo di botte per mancanza di opposizione.
Stavolta di fronte erano due pesi massimi al meglio della forma. Il giovane Renzi, fresco di primarie vittoriose e di investitura del suo partito alla presidenza, contro l’esperto istrione Grillo, a cui il suo stesso “popolo” aveva in qualche modo imposto il confronto, desideroso probabilmente di vederlo all’opera contro l’altro fenomeno mediatico (definirli “politici” è forse un po’ troppo, almeno per il momento). E confronto è stato, anzi scontro, anche se non si è parlato di nulla. Il palcoscenico era troppo appetibile perché ognuno dei due rinunciasse ad essere se stesso, e pazienza se si è solo intravisto un barlume di quello che sarà lo scontro parlamentare delle rispettive forze politiche nei prossimi anni (se ci sarà ancora un Parlamento dopo la “cura Napolitano”).
Come dice Enrico Montesano, l’atto di votare deve avere una connotazione sessuale, con l’andare degli anni il desiderio cala, e non si fa più. Siamo un paese anziano, e allora accontentiamoci di quello che passa la televisione. Ieri ha passato un Matteo Renzi che ha provato al suo meglio a tirare fuori dall’avversario le sue contraddizioni, riportando continuamente il suo torrenziale eloquio sui punti cardine della presunte riforme con cui l’ex sindaco ci stupirà di effetti speciali nei prossimi mesi.
Dall’altra parte un Beppe Grillo che l’ha apparentemente travolto con la sua presenza scenica allenata da quarant’anni di spettacoli (Renzi ha cominciato molto dopo, anche se si sta facendo, e in fretta), ma che in realtà ha soltanto ribadito due cose: il Movimento 5 Stelle vuole un ritorno “conservativo” al passato, quando i servizi essenziali erano in mano al pubblico (ed erano erogati a costi ragionevoli praticamente a tutti, bisogna dire), e intanto se partecipa a confronti con altre forze tra quelle presenti attualmente sulla scena è soltanto per ribadire la sua totale sfiducia in loro, giovane Renzi in primis in quanto espressione di quei poteri forti che “hanno disintegrato l’Italia”.
Un dibattito che è stato soltanto uno scontro istrionico di personalità resterà quindi nella storia, non solo televisiva ma anche e soprattutto politica, di questo paese. Perché non è stato detto nulla circa il nostro futuro, ma in realtà è stato lasciato intravedere tutto. Intanto siamo usciti dalle stanze segrete dove la casta officiava i suoi riti vestita dei paramenti sacri della Costituzione del 1948 (male attuata e peggio riformata, almeno nelle intenzioni). E quelle ai due lati del tavolo sono le due personalità capaci di smuovere ancora il consenso, al netto sempre più preoccupante di coloro che preferiscono – per scelta o disperazione – l’astensione. Con sullo sfondo per ora ai margini il terzo, quel Silvio Berlusconi a cui molti stanno facendo campagna elettorale gratuita.
Ringraziamo dunque la televisione. Ci dà la possibilità di seguire i contorti percorsi della nostra politica in un modo che i nostri padri e nonni non avrebbero potuto nemmeno immaginare. Quasi un secolo fa, anche allora c’era un ex artista, Gabriele D’Annunzio, capace di mettere a nudo contraddizioni e aspetti drammaticamente ridicoli del sistema con le sue battute e le sue azioni dimostrative. C’era il vecchio uomo politico – Giovanni Giolitti - che cercava, per interesse sia personale che per convinzione circa la cosa pubblica, di governare un futuro per il quale non bastavano più né le sue energie residue né quelle delle altre forze tradizionali. C’erano – come Renzi - molti giovani, soprattutto tra i progressisti di allora, i socialisti, che credevano di poter cavalcare la tigre di un cambiamento imposto da crisi economiche e dinamiche sociali in realtà per loro incontrollabili.
Fallirono tutti. E poi arrivò l’uomo nuovo, che raccolse i frutti – o i cocci - del lavoro degli altri. Si chiamava Benito Mussolini.

sabato 15 febbraio 2014

RENZIADE: Il film di Renzi va in scena al Quirinale




«Mi ero fatto un altro film, ma ho dovuto dire di sì, non avevo scelta». Come frase memorabile per consegnare alla storia il momento Matteo Renzi poteva trovare di meglio.
Personaggi meno acculturati di lui, che nei ritagli di tempo discetta di Dante Alighieri e Dolce Stil Novo, seppero fare di meglio. Vittorio Emanuele di Savoia, poi Vittorio Emanuele II Re d'Italia, aprì la Seconda Guerra di Indipendenza con un «Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi». Niente affatto male.
Benito Mussolini da Predappio celebrò la transizione dalla democrazia liberale al regime autoritario il 3 gennaio 1925 con un «Potevo fare di quest'aula sorda e grigia (la Camera dei deputati, ndr) un bivacco di manipoli. Potevo, e ho scelto di non farlo». Niente male anche lui.
Perfino Giorgio Napolitano da Napoli via Mosca, alla vigilia della sospensione della Costituzione nel Paese di cui era stato eletto Presidente (primo comunista della storia, bisognerà rivalutare la Guerra Fredda) se ne uscì con un «Non possiamo non dirci liberali». Che ha un valore aggiunto: oltre che come frase storica può essere usata benissimo come battuta da avanspettacolo. Roba da Bagaglino, per intendersi.
Matteo Renzi da Rignano sull'Arno lascia alla storia questo «Mi ero fatto un altro film», e bisognerà farselo bastare. Mala tempora currunt, e non solo sul piano letterario. Del resto, bisognerà farsi bastare anche lui come Presidente del Consiglio. Avevamo sperato in qualcosa di più, che so, un Tony Blair, un Francois Mitterand (lasciamo fare Barack Obama, perché poi ti ritrovi una Kyenge, e non puoi nemmeno protestare perché l'hai chiesto tu da decenni, a gran voce). E invece, lo Zapatero de' noantri alla fine rientra nel grande alveo storico della parrocchia democristiana la cui onda lunga, molto lunga, l'ha prodotto.
Alla fine, non si può dire di no a una poltrona come quella di Palazzo Chigi quando si ha una "ambizione smisurata" e non filtrata da una cultura politica proveniente da una tradizione progressista coltivata sulla propria pelle. John Elkann si può permettere di dare la colpa della disoccupazione ai giovani che stanno troppo bene a casa dei genitori e non hanno ambizioni, in fondo il nonno è morto e non può prenderlo a scapaccioni perché sta portando via dall'Italia ciò che aveva reso il nome degli Agnelli degno di essere pronunciato ad alta voce da almeno tre generazioni. Matteo Renzi nell'azienda di famiglia ci ha lavorato ancor meno di John Elkann, non sa cosa sia fare impresa né tanto meno avere – o perdere – un lavoro salariato. O mandare avanti un ufficio, perché il suo a Palazzo Vecchio sono quattro anni che glielo manda avanti qualcun altro.
Ma lasciamo fare. Questo passa il convento, questo sarà convocato al Quirinale tra poche ore da Napolitano per ricevere l'incarico di Governo, dopo le consultazioni più veloci della storia repubblicana, quasi una sparatoria tra Clint Eastwood e Lee Van Cleef. A proposito di frasi storiche, "Nessun passaggio in Parlamento" del Presidente della Repubblica promette assai bene.
Siccome la storia la scrivono i vincitori, ai posteri l'ardua sentenza. Se Napolitano concluderà la propria carriera osannato dai media come il Nonno della Patria, resterà come la celebre allocuzione con cui fu segnato il passaggio dalla democrazia parlamentare a quella presidenziale.
Se invece, "dai, picchia e mena" come si dice da queste parti, prenderà piede oltre ad una crisi politica ed economica sempre più preoccupante quella parte politica che chiede che il vecchio Presidente sia richiamato – con vari gradi di giudizio e di sanzione – alle sue responsabilità, allora si ricorderà questo momento come quello in cui Napolitano uscì allo scoperto, come nessun libro di Friedman o articolo del Corriere l'aveva mai costretto a fare. E dopo tre anni di più o meno surrettizia sospensione della carta costituzionale sbatté in faccia al suo paese senza più infingimenti che qui comandava lui. O chi per lui, poteri forti e quant'altro.
A cosa Matteo Renzi non poteva dire di no lo scopriremo presto. Immaginiamo, alle sollecitazioni di una finanza e di un'industria ancora più miopi di quelle che un secolo fa portarono il mondo alla catastrofe della guerra mondiale e dei totalitarismi. L'Europa lo vuole, insomma. Come prima, più di prima, come sempre.
Non serve essere Noam Chomsky per dire che lungo questa strada a breve dell'Europa non resterà altro che un pallido ricordo. Dell'Europa non sappiamo, dell'Italia ne siamo certi.

venerdì 14 febbraio 2014

RENZIADE: Letta si dimette, tocca al Rottamatore



Con 136 voti contro 16 contrari e 2 astenuti il direttivo del Partito Democratico sfiducia Enrico Letta e investe il neosegretario Matteo Renzi dell'onore-onere di ricevere l'incarico di
formare un nuovo governo. La svolta epocale, per quanto ormai nell'aria, si consuma in modo clamoroso in poche ore, con Matteo Renzi che capovolge integralmente quattro anni di scelte politiche indirizzate sempre verso un cambiamento, se non una rottura del sistema e accetta quel ruolo di "salvatore" che la Patria improvvisamente gli ha attribuito. Addio Terza Repubblica, si torna alla Prima o al massimo alla Seconda, con un avvicendamento che non ha nulla da invidiare a quelli con cui De Mita prese il posto di Craxi o D'Alema quello di Prodi.
Oggi pomeriggio, dopo un ultimo Consiglio dei Ministri all'ordine del giorno del quale era tra l'altro iscritta doverosamente la spinosa questione dei Marò illegalmente detenuti in India (e del pilatesco lavaggio delle mani recentemente operato dalle Nazioni Unite), Enrico Letta salirà al Quirinale a rimettere il suo incarico di Presidente del Consiglio nelle mani di colui che glielo aveva dato dieci mesi fa. Si conclude così la seconda esperienza di governo fondata non sul consenso popolare espresso dal voto ma sulla precisa volontà del Capo dello Stato di indirizzare la crisi politica ed economica del Paese in una direzione controllata e controllabile. Da chi, è un'altra questione.
Il governo il cui battesimo fu bagnato dal sangue dei due agenti in servizio in Piazza Montecitorio abbattuti dai colpi del presunto "folle" Luigi Preiti lascia un'Italia i cui problemi non sono stati affatto risolti, ma viaggiano semmai speditamente verso la cancrena. E' un paese che sperava – o voleva sperare – sempre più spasmodicamente in un cambiamento radicale come quello proposto dal "rottamatore" Sindaco di Firenze, a ciò indotto da una disperazione sempre più profonda e radicata in una economia che non presenta alcun segno di ripresa e in un sistema politico che non ha nessuna intenzione di autoriformarsi.
Quello che si trova davanti stamattina in prospettiva questo paese è un avvicendamento governativo che se poteva essere tollerato negli anni delle cosiddette "vacche grasse", allorché la cosiddetta "palude democristiana" o il "berlusconismo" erano in ogni caso in grado di governare – o quantomeno non ostacolare – cicli produttivi ed economici tendenzialmente virtuosi, adesso non può non apparire altro che l'ennesimo e ultimo tentativo di una casta ormai completamente dissociata dal paese reale di perpetuarsi, di sopravvivere a tutto, perfino a se stessa. Quello che sorprende è che a questo gioco si presti colui che aveva promesso di chiuderlo, fondando su questa promessa tutta la sua carriera politica a venire.
Non vi può esser dubbio infatti, anche a non possedere le cosiddette fonti bene informate, su quale sarà il nominativo della persona a cui Giorgio Napolitano si rivolgerà un attimo dopo aver congedato Enrico Letta, preso atto delle sue dimissioni. Le fonti bene informate comunque riferiscono di un Presidente che dopo le consuete rimostranze iniziali a favore dell'accanimento terapeutico su Letta, si è disposto "obtorto collo" ad adeguare il gioco alle necessità di cui fare virtù.
Come nel 2011, il "coup de theatre" andato in scena ieri è stato preparato, anche se in tempi più ristretti. L'Italia è dal dopoguerra un paese a sovranità molto limitata. Tuttavia, se prima erano facilmente identificabili (e condivisibili) nella Guerra Fredda le ragioni di questa limitazione e nell'appartenenza al Patto Atlantico le sue modalità d'esercizio, negli ultimi tempi il condizionamento internazionale è diventato qualcosa di più pressante nella sostanza ma di più sfuggente nella natura da poter definire. Si parla sempre di poteri forti, di circoli economici d'elite.
Confindustria e le Banche sono alcuni di questi, e forse nemmeno i più importanti, poiché è la grande finanza internazionale ad aleggiare su tutto e tutto controllare e determinare. A quanto pare, a questa grande finanza internazionale pare che stia "in gran dispitto" la prospettiva di far tornare al voto gli italiani, come promesso dal giovane Renzi. Ed ecco allora il colpo di genio, mandiamoci proprio quel giovane a salvare la Patria, senza far votare nessuno e costringendo colui che aveva già tirato fuori dal cilindro Monti e Letta a dargli l'incarico.
Ecco quindi uscire il libro di Alan Friedman, prestigioso giornalista americano che ci ha messo tre anni a scoprire che dal rubinetto di sinistra esce acqua calda. O forse dopo tre anni, e guarda caso al momento giusto, ha avuto da qualcuno i documenti che gli servivano. Ecco la grancassa del Corriere della Sera, giornale di Confindustria se mai ce n'è stato uno, ribadire che quell'acqua non è calda, addirittura ustiona, ricordando a tutti quello che già sanno, che nell'estate del 2011 ci fu una alleanza tra poteri interni ed esterni al paese per defenestrare il governo in carica (bene o male eletto dal voto popolare) a favore di un governo tecnico, di salute se non pubblica certamente di alcuni privati. E a questa alleanza si prestò di fatto colui che doveva essere il garante della Costituzione, il Presidente della Repubblica, coadiuvato da tutte le forze politiche presenti in Parlamento.
Il quale Presidente, già sottoposto a procedura di "impeachment" dal Movimento Cinque Stelle e malgrado la strenua difesa di Boldrini, Grasso e dei loro Mille, probabilmente avverte lo stress di una posizione un po' più difficile, unita forse alla stanchezza per un'età che si avvicina alla veneranda soglia dei 90, il tutto condito – anzi scondito – da una cultura democratica da cui si è sempre tenuto alla larga per tutto il corso della sua lunga vita e militanza politica.
Ecco perché Napolitano ha chiamato Renzi, e lo "sciagurato" Renzi – ci perdoni la licenza il Manzoni – ha risposto. La catena delle pressioni a cui non si può dire di no produrrà nelle prossime ore un incarico al Sindaco fiorentino, il quale già da ieri ha cambiato le sue parole d'ordine: governo fino al 2018, maggioranza delle larghe intese che non si discute, riforme sì ma con tempi che tornano quelli biblici ed incerti della Bicamerale di Dalemiana memoria, altro che "blitzkrieg" di berlusconiana memoria.
Il quale Berlusconi sta alla finestra e ringrazia, preparandosi a elezioni che saranno sicuramente oltre la scadenza della sua interdizione e che lo vedranno pronto – con qualunque sistema elettorale – ad intercettare il voto di quegli italiani, sempre di più, la cui voglia di protestare sarà cresciuta a dismisura. Sempre che nel frattempo non si presenti sulla scena qualche malintenzionato in camicia nera o di qualche altro colore, non importa, tanto quello che conterà sarà la determinazione a far saltare davvero un sistema che non regge più adesso, figuriamoci di qui al 2018.
Perché l'unica cosa certa è che non è Matteo Renzi a rischiare tutto con questa mossa azzardata e veterodemocristiana, ma è l'Italia, che perderà probabilmente l'ultima chance di cambiamento democratico a disposizione. Se si brucia il Sindaco, che alla fine ha scelto la sua "smisurata ambizione" (parole sue), un futuro da qualche parte comunque ce l'ha, di trombati riciclati sono piene le nostre aziende, pubbliche e private. Se si brucia l'Italia, un futuro non ce l'ha più. Almeno non un futuro a cui sia piacevole pensare.