di Paola Stillo
Afghanistan, paese che evoca in
molti immagini di guerra, di mine antiuomo, di terroristi, di Talebani dalle
lunghe barbe, di bourqa azzurri al di
sotto dei quali le donne vivono la loro “non condizione femminile”.
Eppure l’Afghanistan non è solo
questo, è un paese ricco di storia e di cultura, di paesaggi magici nonostante
la distruzione, dove ad ogni stagione dell’anno sembrano darsi ritrovo i più
grandi pittori, da Van Gogh a Renoir, da Houssaki a Brugel in una gara
interminabile di immagini e di colori. Di gente fiera e generosa, con un senso
dell’umorismo che più di trenta anni di guerra non sono riusciti a spegnere.
La mia esperienza in questo paese
è iniziata nel febbraio 2003 ed è continuata per altri quattro anni. Insieme ad
una collega ostetrica ci siamo occupate dell’apertura di un ospedale materno
infantile di Emergency a nord di Kabul, nella valle del Panjshir. Per poter
capire almeno in parte il popolo afghano bisogna conoscere le sue vicende e la
sua storia così drammaticamente crudele e sanguinosa.
Lavorare in questo contesto,
soprattutto all’inizio, non è stato facile, anche se ormai questo paese e la
sua gente sono entrati nei nostri cuori e nel lasciarlo parte di noi è rimasta
nelle sue valli, con le donne e gli uomini che hanno condiviso insieme a noi
questa meravigliosa esperienza.
I problemi che abbiamo dovuto
affrontare sono stati molti sia dal punto di vista professionale e tecnico sia
da quello umano e relazionale. Il lavoro più importante abbiamo dovuto farlo su
noi stesse: formare donne afghane a prendersi cura di altre donne afghane,
parlare loro di maternità e di sessualità. Per farlo, bisognava “capire”,
uscire dal nostro vissuto di donne europee, emancipate, libere ma spesso
frustrate, ed immergerci lentamente ma profondamente nella condizione femminile
afghana.
Condizione precaria,
caratterizzata da anni di guerra, da un sistema scolastico spesso inesistente,
da un regime talebano che vietava alle donne il diritto di esistere, obbligate
a nascondersi, a non uscire, a non lavorare. Ed è proprio con queste donne che
abbiamo iniziato un periodo di formazione per l’assistenza di base ostetrica e
neonatale.
Pur occupandomi da tempo di
formazione di personale sanitario, mi sono resa conto per la prima volta che la
definizione degli obiettivi formativi, così cari ai formatori, non può
prescindere dalla trasmissione di valori e che questi ultimi non sono
universalmente gli stessi.
Come si fa a parlare a queste
donne della magia della maternità, di questo legame speciale che unisce madre e
bambino ancora prima della nascita? Della preparazione al parto? Del prendersi
cura del proprio corpo durante la gravidanza? Ma anche semplicemente del
“prendersi cura”, del rispondere ai “bisogni della persona”!
Il “prendersi cura” per queste
donne significa svegliarsi alle quattro del mattino, prendersi cura degli
animali, raccogliere la legna ed accendere il fuoco, preparare da mangiare,
raggiungere il fiume per raccogliere l’acqua, lavorare nei campi. Significa occuparsi
degli anziani della famiglia (quella del marito), del marito, dei figli: figli
ovviamente non desiderati o programmati, ma “dovuti”, e così è un susseguirsi
di gravidanze, aborti spontanei e mortalità materna ed infantile tra le più
alte al mondo.
Ancora oggi, la professione
infermieristica si porta appresso un’immagine legata al femminile, al ruolo
della donna nella cura e nell’assistenza, ma anche alla corporeità, perché è
sul corpo, sui suoi vissuti e sui suoi prodotti che l’infermiere opera. Stranamente,
ma neanche tanto se si pensa alla condizione di isolamento della maggior parte
delle donne, il “mondo infermieristico” afghano è un dominio maschile. Nella
cultura afghana, la corporeità e la fisicità sono vissute in maniera
repressiva, basti pensare all’obbligo delle donne di coprirsi, ma anche agli
stessi uomini ai quali è imposto ad esempio un abbigliamento che copra braccia
e gambe ed ai bambini che seguono le stesse regole valide per gli adulti.
Ecco allora che diventa difficile
“insegnare ad assistere” in un mondo di rigide regole comportamentali, che a
volte si possono infrangere ma non si sa mai quando. Un uomo, in questo caso un
infermiere, non può toccare una donna, ma questa regola non vale nel caso del
pronto soccorso o della sala operatoria; eppure non può inserire un catetere
vescicale o assistere durante un parto precipitoso o semplicemente eseguire
l’igiene personale di una paziente allettata.
Vi è una netta separazione tra
quello che è ospedale e malattia, e quindi sottoposto a concessioni, e quello
che è normalità, vita quotidiana. La maternità, ovviamente e sfortunatamente,
appartiene a quest’ultima sfera. Sfortunatamente perché non si possono
infrangere le regole sociali, e così nel nostro ospedale non era consentito
l’ingresso di nessun uomo se non per casi di emergenza, che diventavano
“malattia”.
Trovare 32 donne con un minimo di
istruzione (mediamente l’equivalente della nostra III media in termini di
durata degli studi), iniziare con loro un percorso formativo che affrontava argomenti
non di uso comune (ricordo come arrossivano tutte quando si parlava di
mestruazioni), abituarle ad infrangere alcune regole (eseguire l’igiene intima,
per esempio) è stata, non solo come formatore, una sfida.
Eppure lentamente, conquistando a
poco a poco la loro fiducia, accendendo la loro curiosità ma soprattutto
attingendo a quella complicità che nasce tra donne, fatta di affetto, di
comprensione, di simpatia, siamo riuscite in un anno a formare un team capace
di erogare autonomamente assistenza di base ostetrica, infermieristica e
neonatale. La struttura ospedaliera era arrivata a visitare circa quattrocento
donne al mese (visite prenatali e ginecologiche), con una media di settanta
ricoveri e cinquanta parti al mese.
Il personale locale adesso è in
grado di effettuare un triage
ambulatoriale, prendersi carico della donna in travaglio e seguirla durante il
parto, gestire il post-operatorio e la degenza ginecologica. Alcune di queste
donne sono state addestrate da un’infermiera di sala operatoria e “strumentano”
in maniera autonoma i principali e più frequenti interventi quali cesarei,
isterectomie, raschiamenti. Dal giugno del 2003, quando la Maternità è stata
ufficialmente aperta ad oggi, sono nati nel Panjshir circa ventiduemila
bambini, una media di oltre duemila l’anno, e più di 175.000 donne si sono
rivolte al Centro di Maternità per essere curate e assistite.
Quelle donne afghane che dal 2003
con determinazione e coraggio, superando numerosi ostacoli, hanno affrontato quell’esperienza
formativa, hanno continuato nel loro cammino “rivoluzionario” contagiando così altre
donne nell’acquisire il diritto ad essere curate, ascoltate, ad esistere!
Mi piace ricordare una frase
citata da uno dei miei studenti del passato: “Chi educa un uomo educa una persona,
chi educa una donna educa una generazione”.