La mattina del 23 marzo 1944,
quando l’Obersturmbannführer Herbert Kappler, comandante della piazza militare di Roma
occupata dai nazisti gli ordinò di organizzare ed eseguire la più feroce delle
rappresaglie compiute dall’esercito tedesco in Italia, Priebke portava appunto
i gradi di capitano ed era uno degli uomini di fiducia di Kappler. Inevitabile
che il massacro delle Fosse Ardeatine fosse affidato a lui, che non si fece
pregare e non deluse la fiducia accordatagli, andando perfino al di là dei
crudeli, disumani ordini ricevuti.
Roma
era sotto il controllo della Wehrmacht
e della Gestapo fin da subito dopo
l’8 settembre, e aspettava la fine di uno degli inverni più lunghi e duri della
sua storia, combattuta tra la speranza che gli Alleati – ormai vicini alla
città ma bloccati dal caposaldo tedesco arroccato nell’antica Abbazia di
Montecassino – riuscissero a sfondare le linee nemiche prima possibile ed il
terrore della legge marziale germanica, dei rastrellamenti di ebrei, partigiani
e di quanti semplicemente incappavano nel capriccio degli occupanti. Pur avendo
conosciuto tante invasioni e saccheggi durante il corso della sua storia
plurimillenaria, niente era paragonabile all’orrore vissuto dai romani in quei
nove mesi intercorsi tra la resa dei Granatieri di Sardegna a Porta San Paolo
il 12 settembre 1943 e l’entrata delle avanguardie del generale Clark, la
benedetta V^ Armata, la mattina del 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione.
Era
il periodo magistralmente immortalato da Roberto Rossellini con la grande Anna
magnani nel capolavoro “Roma città aperta”.
A fine marzo, la Linea Gustav reggeva ancora, la luce in fondo al tunnel era
tutt’altro che in vista, e i Gruppi Armati Partigiani (G.A.P.) adottarono
pertanto la decisione controversa di compiere una azione dimostrativa per
scuotere il morale delle truppe tedesche occupanti e risollevare quello dei
romani, dando impulso nel contempo allo sforzo degli Alleati nella difficile
marcia verso la Capitale dopo lo sbarco di Anzio.
Fu
prescelta Via Rasella, traversa della centralissima Via del Tritone. Il cuore
di Roma, dove la bomba partigiana avrebbe riecheggiato ancora più forte.
Vittime designate, un battaglione di altoatesini, il Polizei-Regiment Bozen, che transitava da quella via
quotidianamente di ritorno dalle esercitazioni. La mattina del 23 marzo 1944 le
Brigate Garibaldi, ricevuto l’ordine esecutivo del Comitato di Liberazione
Nazionale presieduto in quel momento tra gli altri da Sandro Pertini e Giorgio
Amendola, passarono all’azione. La data non era stata scelta a caso, si
trattava del 25° anniversario della fondazione del primo Fascio di Combattimentoda parte di Mussolini a Milano. La guerra si faceva e si fa ancora anche - e a
volte soprattutto - con i simboli, per quanto sanguinosi.
Il
Battaglione Bozen fu spazzato via dalla bomba dei GAP, che appostati in zona
finirono i superstiti con bombe a mano e pistole. Subito dopo, partì
l’inevitabile rappresaglia delle SS, il cui morale – lungi dall’essere stato
fiaccato – si rivelò quanto mai rafforzato nella propria crudele determinazione
ad andare fino in fondo in quella guerra dove ormai si reggevano soltanto sul
proprio estremo fanatismo. Herbert Kappler applicò il codice militare tedesco,
che prevedeva una rappresaglia ai danni di dieci civili locali per ogni soldato
tedesco caduto. Il rastrellamento, l’organizzazione e l’esecuzione furono affidate
come detto al capitano Priebke, al quale né allora né in seguito fino al suo
ultimo istante di vita balenò nel cervello la possibilità di non ottemperare
agli atroci ordini ricevuti. Nessun tedesco in quegli anni lo avrebbe fatto,
avrebbe dichiarato in seguito.
Per
buona misura, i 33 morti del Battaglione Bozen furono vendicati con il massacro
di 335 civili rastrellati a caso per le vie di Roma e integrati con detenuti
“politici” di Regina Coeli, il carcere di Roma. Cinque in più del necessario,
perché lo zelo di Priebke non tollerava eventuali mancanze, meglio abbondare.
Le vittime furono portate alle Fosse Ardeatine, antiche cave di materiale
ghiaioso lungo la Via Ardeatina fuori Roma. L’esecuzione ebbe luogo neanche 24
ore dopo l’attentato di Via Rasella. I corpi dei giustiziati rimasero nascosti
nelle cave fino a dopo la Liberazione. I tedeschi si erano preparati –
moralmente parlando, secondo loro – una via di fuga occultando le tracce del
massacro. Come per lo sterminio degli ebrei, un giorno se le cose fossero
andate male e si fosse dovuto render conto delle proprie azioni si sarebbe sempre potuto affidarsi al
Negazionismo. Tanto le tracce degli eccidi erano state cancellate, o sottoterra
o nei forni dei campi di concentramento.
Le
cose andarono male, alla fine, per la Germania nazista. Kappler venne catturato
al pari del Feldmaresciallo Kesselring – comandante della Wehrmacht nell’Italia
occupata e governata tramite il regime fantoccio di Salò – e inizialmente
condannato a morte, sentenza poi commutata nell’ergastolo che si concluse
anzitempo con la clamorosa fuga dall’ospedale militare del Celio nel 1977.
Priebke invece riuscì ad evadere nel 1945 dal campo di prigionia dov’era
detenuto e grazie ai buoni uffici della famigerata Organizzazione Odessa ricevette documenti falsi con i quali poté
imbarcarsi per il Sudamerica. Trovò rifugio nell’Argentina governata dal
dittatore Juan Peron, filotedesco da sempre e ben disposto ad accogliere gli ex
nazisti in fuga. A San Carlos de
Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, Erich Priebke visse i successivi
cinquant’anni sotto la protezione della comunità tedesca e delle organizzazioni
neonaziste.
Era
uno dei bersagli principali del Centro di
Documentazione Ebraica di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti che
era già riuscito ad assicurare alla giustizia postbellica belve come Adolf
Eichmann. Ma riuscì a farla franca fino al 1994, quando finalmente il mutato
clima internazionale post guerra fredda e la fine delle dittature fasciste in
Sudamerica permisero agli investigatori ed ai giornalisti di penetrare la
spessa cortina alzata sui reduci del Terzo
Reich da organizzazioni come l’Odessa e dai loro simpatizzanti nel mondo
politico e finanziario internazionale. Priebke fu arrestato ed estradato in
Italia nel 1995, cinquant’anni dopo i fatti che l’avevano reso tristemente
famoso. Nel 1996 si presentò di fronte al tribunale Militare di Roma,
dichiarato competente a giudicare essendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine un
crimine di guerra. In prima istanza, il Tribunale non trovò di meglio che
giudicare Priebke non perseguibile, in quanto il reato era prescritto dato il
lungo tempo trascorso. La clamorosa sollevazione del pubblico già nell’aula del
Tribunale indusse il governo italiano a farsi promotore di un nuovo procedimento
giudiziario. Stavolta, malgrado il tentativo grottesco della difesa di Priebke
di farlo passare per un mero esecutore di ordini (e semmai di chiederne la
persecuzione soltanto per quei cinque morti in più rispetto alla proporzione di
10 ad 1!), per l’ex capitano delle Schutzstaffel non ci fu scampo.
Erich
Priebke fu condannato all’ergastolo, da scontare agli arresti domiciliari in
considerazione dell’età avanzata, con sentenza definitiva del 1998. Nel 2007,
dopo che per anni l’opinione pubblica italiana si era divisa tra fautori della
severità e partigiani della clemenza per ragioni umanitarie (siamo sempre
pronti a provare simili moti dell’anima per chi non ne ha mai provati in vita
sua), a Priebke venne concesso il permesso di uscita da casa a determinate ore
del giorno, per recarsi “al lavoro” nello studio del suo avvocato. Negli ultimi
anni della sua vita aveva fatto discutere il regime di semilibertà sempre più
lasco di cui aveva beneficiato (pur sotto stretta sorveglianza della polizia
più che altro per la sua incolumità personale). Quest’anno, infine, in
occasione del suo centesimo compleanno aveva potuto festeggiare con una
passeggiata da cittadino praticamente libero per le strade di quella Roma in
cui aveva seminato il terrore a piene mani settant’anni prima.
E’
morto senza una parola o un pensiero di pentimento Erich Priebke, a giudicare
dal testamento che si è lasciato dietro e dall’atteggiamento fermo fino
all’ultimo istante con cui si è rifiutato di rinnegare anche una sola singola
azione del suo passato. “Negli anni 40,
gli ordini si eseguivano e basta”. E’ la sintesi della sua vita, la
perfetta rappresentazione di quella “banalità del male” di cui parlava Hannah
Arendt fin dai tempi del processo Eichmann. Un male tra l’altro che in tempi
divenuti nuovamente difficili quasi come all’epoca in cui la civile Berlino si
affidò ad Adolf Hitler può reincarnarsi di nuovo con banale facilità.
Forse
è per questo che, a chiudere l’ultimo tormentone lasciato in eredità da questo
impiegato della morte a quell’opinione pubblica italiana che ha così a lungo
torturato, è opportuno che si decida di disperderne le ceneri al vento. Perché
non possano tornare a riunirsi come le vestigia di un mostro mitologico, in un nuovo orrore che già da più parti viene
invocato a gran voce.
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