La foto in bianco e nero di
quel bambino sorridente con la canottierina a righe apparve all’improvviso in televisione
verso l’ora di pranzo dell’11 giugno 1981. A partire dai telegiornali delle 13:00 di
quel giorno, sarebbe rimasta sullo sfondo di tutte le trasmissioni in tutte le
reti televisive per tre giorni. Sarebbe rimasta soprattutto sullo sfondo della nostra
vita e della nostra coscienza per lungo tempo a venire, come l’emblema di una tragedia
con cui non si può venire a patti, né in questa vita né in nessun’altra.
Alfredino Rampi |
Era ancora la televisione
in bianco e nero che da poco era stata sottratta al monopolio di stato. La RAI
aveva tre canali, che a mezzanotte interrompevano le trasmissioni, Canale 5 (la
nuova emittente del tycoon Berlusconi) muoveva non
troppo timidamente i primi passi. In quei giorni drammatici in cui un intero
paese si strinse intorno
all’imboccatura del pozzo
di Vermicino tentando, con la generosità e la disorganizzazione che gli sono
propri da sempre, di salvare la vita del piccolo Alfredo Rampi, nacque la
televisione moderna. Ed anche la vita moderna, con i suoi drammi vissuti in
diretta TV e rapidamente consumati come in un rotocalco.
La notte tra l’11 ed il 12
giugno 1981 nessuno andò a dormire, sperando nel miracolo di veder recuperare
Alfredino dal pozzo artesiano nella frazione di Vermicino, tra Frascati e Roma,
in cui era precipitato la sera prima, mentre tornava a casa da solo. Raramente
la televisione di stato aveva prolungato i suoi programmi oltre la mezzanotte:
quando l’uomo era andato sulla Luna, quando si disputavano Mondiali di Calcio,
Olimpiadi o qualche incontro di boxe. Quella volta si trattò di assistere ad un
salvataggio come fino a quel momento si era visto solo nei film americani
(quelli a lieto fine, che nella vita reale invece non c’è mai), alla morte di
un bambino malgrado gli sforzi più o meno estemporanei di tanta gente tra professionisti
e volontari, alla nascita di una coscienza civile in cittadini-spettatori che
col tempo l’avrebbero smarrita di nuovo (dispersa nei mille futili rivoli dei talk show), alla nascita di una Protezione Civile che dopo
questa tragedia e dopo quell’altra immane del terremoto in Irpinia del novembre
precedente avrebbe portato un po’ di organizzazione tra chi coraggiosamente e
generosamente prestava soccorso dove c’era bisogno e dove spesso si arrivava
male e tardi.
Alfredino Rampi cadde nel
pozzo di Vermicino verso le 19:00 del 10 giugno. Il pozzo era stato addirittura
richiuso dal proprietario che non si era accorto della sua caduta, e solo verso
mezzanotte i poliziotti allertati dai coniugi Rampi udirono i suoi richiami
dalle profondità della terra. Da quel momento partì la cosiddetta macchina dei soccorsi,
coordinata dall’allora Comandante dei Vigili del Fuoco della Capitale Ing. Elveno
Pastorelli, che si trovò a combattere principalmente con un destino che sembrò accanirsi
diabolicamente contro Alfredino e chi cercava di salvarlo, ma anche con una disorganizzazione
ed un pressappochismo di cui ci si rese esattamente conto soltanto in seguito,
dopo che il pathos
del salvataggio si era fatalmente
spento.
Il presidente Sandro Pertini con l'ing. Elveno Pastorelli |
I primi tentativi furono
approssimativi. Una tavoletta legata a corde calata affinché il bambino vi si
aggrappasse si incastrò nel pozzo e finì per ostruirlo quasi completamente.
Alfredino a quel punto era a 36
metri di profondità. Provarono gli speleologi del
Soccorso Alpino a calarsi giù per toglierla, ma non riuscirono neanche a raggiungerla
perché il pozzo si restringeva troppo. A quel punto Pastorelli congedò gli
speleologi e decise di puntare sulla trivellazione di un pozzo parallelo che
avrebbe permesso ai soccorritori di ricongiungersi a quello in cui era
imprigionato Alfredino, attraverso un collegamento che sarebbe sbucato al di
sotto del suo livello. A nulla valsero le obiezioni dei geologi presenti, i
quali fecero notare che la durezza dei substrati del terreno avrebbe protratto
i lavori troppo a lungo, e nello stesso tempo a causa delle vibrazioni
rischiato di far sprofondare il bambino ancora più in profondità.
Gli scavi iniziarono alle 8
di mattina dell’11 e si protrassero fino ai TG di mezza giornata, che alla fine
non restituirono la linea, ma organizzarono una diretta ad oltranza facendo
affidamento sulle previsioni ottimistiche dell’Ingegner Pastorelli e confidando
quindi di poter trasmettere in diretta il salvataggio del bambino. Sarebbe
stata una delle dirette più lunghe e drammatiche della storia della televisione
italiana. Per tutto il pomeriggio, si assisté al succedersi di tentativi che smentirono
previsioni e aspettative del Comandante dei Vigili del Fuoco di Roma e dettero
drammaticamente ragione a chi gli aveva obiettato la pericolosità della
trivellazione. Poiché la trivella non procedeva sufficientemente veloce, fu
sostituita con una più potente, che comunque fu stimato non avrebbe potuto
raggiungere Alfredino prima di 12 ore circa. Mentre il bambino veniva
rifocillato con acqua e zucchero attraverso una sonda, la zona della disgrazia
intanto era diventata un punto di attrazione turistica, come purtroppo avremmo visto
succedere molte volte negli anni a venire. Si calcolava che fossero presenti sull’orlo
del pozzo (assolutamente privo di transenne) oltre agli addetti ai lavori circa
10.000 persone senz’altro da fare che assistere allo spettacolo. Insieme a
loro, apparvero gli immancabili venditori di generi alimentari ambulanti, con
tanto di furgone.
Angelo Licheri, lo speleologo che si calò nel pozzo |
In mezzo a questa kermesse, e sempre in diretta TV, lo scavo proseguì per tutta
la notte tra l’11 ed il 12. Dopo 24 ore di trivellazione, alle 8 della mattina
seguente si calcolava che il tunnel parallelo scendesse fino ad una profondità
di 25 metri,
almeno 10 sopra il livello a cui era stato rilevato Alfredino nell’altro pozzo.
Si decise di accelerare i lavori approfittando di uno strato di terreno più
morbido, mentre i medici cominciavano a far presente che essendo il bimbo
cardiopatico congenito, a 40 ore dalla caduta le sue condizioni presunte non
permettevano di ipotizzare una sua resistenza molto prolungata. All’ora di
pranzo, Pastorelli decise di far scavare il tunnel orizzontale, che si
calcolava sarebbe sbucato un metro sopra la testa di Alfredino. Un vigile del
fuoco si calò nel pozzo artificiale per scavarlo, e gli ci volle tutto il
pomeriggio fino all’ora di cena.
Nel frattempo, era arrivato
al pozzo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che da lì in poi
avrebbe seguito personalmente tutti gli eventi informandosi di ogni aspetto
tecnico e stringendosi alla gente, che percepì quella sua presenza come uno dei
momenti topici della sua presidenza.
Alle 19,00, il tunnel
orizzontale sbucò nel pozzo artesiano a quota -35, solo per scoprire che i
geologi avevano avuto ragione e che le vibrazioni avevano fatto scivolare
Alfredino 30 metri
più giù. Mentre la disperazione si impadroniva di tutti, addetti ai lavori,
giornalisti e spettatori, Pastorelli tentò di nuovo la carta degli speleologi,
che tornarono a calarsi a turno nel pozzo artesiano attraverso il nuovo tunnel
per raggiungere Alfredino e tentare in qualche modo di imbracarlo per farlo tirare
su. Un paio di loro, Angelo Licheri e Donato Caruso, riuscirono a raggiungerlo
e a infilargli una specie di imbracatura, che scivolò via beffardamente al
primo strattone. Date le condizioni precarie, non poterono ripetere il
tentativo per non mettere a repentaglio la propria stessa incolumità. Il loro
tentativo consumatosi tra le 4:00 e le 7:00 della notte tra il 12 ed il 13,
mise fine di fatto alla tragedia. Angelo Licheri, sceso per primo, fu l’ultimo
probabilmente a vedere vivo Alfredino, ormai allo stremo delle forze. Donato
Caruso, quando risalì, aveva sul volto la disperazione non solo per il
fallimento ma anche per dover comunicare ai genitori e a tutto il mondo che,
per quanto aveva potuto constatare durante la sua permanenza nel pozzo,
Alfredino ormai era apparentemente morto.
Franca Rampi, la madre di Alfredino |
Alle ore 7:00 del 13 giugno
1981, l’Ingegner Pastorelli dichiarò ufficialmente chiusa l’operazione di
soccorso e aprì quella di recupero della salma del piccolo Alfredo Rampi.
Mentre il Presidente Pertini tentava di consolare i genitori Franca e Ferdinando,
fu fatta venire sul posto una squadra di minatori da Gavorrano in provincia di
Grosseto, che dovette lavorare per ben 28 giorni per estrarre il corpo dello
sfortunato bambino dal pozzo maledetto. Il commiato dei minatori da Alfredino fu
probabilmente uno degli ultimi contributi di umanità dato da una televisione
che stava tutto d'un colpo diventando fin troppo moderna. Rimesse a posto le
macchine, con gli occhi lucidi per una emozione difficilmente controllabile i
minatori ripartirono rifiutando, allora e in seguito, qualsiasi intervista o
partecipazione televisiva.
Toccò a Giancarlo
Santalmassi, allora conduttore del TG2, sintetizzare con domande che dopo 30
anni non hanno avuto risposta esauriente ma che andrebbero riproposte adesso
con eguale forza di fronte a certe “Vite in diretta” che la TV ci propina quotidianamente,
lo stato d’animo di cittadini e operatori TV straziati dalla diretta appena conclusasi:
“Volevamo vedere
un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo
continuato fino all'ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è
servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo
ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la
registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo
Rampi.”
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