Scriveva tempo fa Giovanni
Sartori, il più illustre, saggio e longevo dei nostri politologi, che se si
vuole fare davvero una modifica della forma di governo c’è poco da studiare, o
per meglio dire da tergiversare. Si prende quella di uno dei maggiori paesi occidentali,
U.S.A., Francia, Germania, che può essere più congeniale alla nostra storia ed
alle nostre necessità e la si adotta pari pari.
E funzionerà, come funziona
nel paese da cui l’abbiamo presa a prestito. Se invece non si vuole – ed è il
caso dei nostri politici – si nomina una Bicamerale e le si dà un tempo indeterminato
per studiare, per andare alla ricerca della Pietra Filosofale, del sistema
perfetto sulla carta e che a Dio piacendo sulla carta rimarrà.
Dopo la storica Bicamerale
di Prodi e D’Alema, che quindici anni fa si accampò in Parlamento come Annibale
agli Ozi di Capua e finì per partorire quel disastro epocale che è stata la
riforma del Titolo V della Costituzione e (per fortuna) poco altro, le nostre
forze politiche ci riprovano. Come se non fossero bastati i predecessori di
ulivista memoria e nemmeno i Dieci Saggi del Presidente Napolitano, adesso
arrivano i Quaranta, che dovranno discutere di un cambiamento della Carta costituzionale
che nessuno di loro in realtà vuole. L’analogia numerica con gli avversari di
Alì Babà è puramente casuale, ovviamente.
Battute a parte, più tempo
ci mettono (anche se non lo ammetterà mai nessuno) meglio è per il Governo
Letta, che agganciandosi a questo escamotage ha
cominciato a sperare di potersi riciclare da governo d’emergenza a governo di legislatura.
E meglio è per loro, perché se non bastasse il lauto stipendio da parlamentare già
percepito verrà loro corrisposto anche un gettone di presenza per ogni giorno
speso a discutere di angeli che non sanno nemmeno loro se vogliono cambiare
sesso. Doppio stipendio per fare ciò che sarebbe già loro dovere fare, si
chiama, per chi non se lo ricordasse, spending review.
Era il 15 giugno del 1215
quando i Baroni del Regno d’Inghilterra imposero a Re Giovanni Senzaterra la
prima carta costituzionale della storia, la Magna Charta. Ciò avvenne al termine di un lungo periodo oscuro e sanguinoso di
lotte interne. Più o meno come quello che il popolo italiano ha davanti se vuole
e spera di convincere i propri politici a comportarsi in modo più conforme al
proprio mandato politico, nonché a fare qualcosa di utile a tirare fuori il
paese dalla crisi che attraversa.
Il crollo di partecipazione
elettorale registrato ai ballottaggi delle ultime amministrative è un segnale inequivocabile
e assai infausto. Il popolo italiano non crede più alla rappresentanza
democratica espressa attraverso il voto, soprattutto non crede più ad una
politica che non c’è verso di piegare al proprio volere, almeno con mezzi
legali. Da qui il 48,5% di votanti domenica scorsa, il minimo storico. Si
eleggeva il sindaco in 16 comuni capoluogo e in 76 comuni cosiddetti maggiori.
Il centrosinistra ha fatto l’en plein e
ovviamente ha cantato subito vittoria. Inutile chiedere ai suoi leaders se qualcuno di loro ha qualche ricordo scolastico su
chi fosse Pirro, quel Re dell’Epiro che pagò a così caro prezzo una sua
vittoria sui Romani da dare il proprio nome da allora in poi alle vittorie
inutili, se non addirittura a sconfitte mascherate da trionfi.
Ma torniamo al Sindaco di
Firenze Matteo Renzi, uno dei competitor alla
leadership di quello che sarà il Partito Democratico superstite,
come lo era quell’Ignazio Marino nel frattempo diventato da outsider Sindaco di Roma o come avrebbe voluto essere anni fa
anche Beppe Grillo. "L’uomo che sussurrava prima a Bersani e poi a
Epifani" ha improvvisamente deciso di rompere gli indugi e riscendere in campo,
a ottobre sarà di nuovo il lizza per le Primarie bis. Qualcuno deve avergli finalmente
fatto capire che la "politica dei due forni" andava bene al tempo dei
suoi archetipi democristiani, ora invece è il sistema migliore per perdere un
treno che potrebbe non ripassare più. Qualcuno deve avergli fatto capire che
vestirsi da Fonzie sarà anche divertente, almeno per una parte dell’audience, ma che i cittadini vorrebbero vederlo vestirsi più
che altro da leader, e soprattutto comportarsi come tale.
Da circa un anno a questa
parte Matteo Renzi "non campa e non crepa", come si dice con termine
assai colorito nella sua città. Non governa più il suo Comune, infatti è stato
rilevato come sia in lizza per il titolo di Sindaco più assenteista d’Italia, 8
sedute del Consiglio Comunale su 45
in tutto il 2012, se la gioca con Alemanno (che abbiamo
visto che fine ha fatto). A parte farsi vedere allo stadio quando la Fiorentina
gioca e vince, chi si aspettava che Renzi facesse "qualcosa di
fiorentino", per parafrasare Nanni Moretti, è rimasto assai deluso. E’
notizia dell’ultim’ora l’addio sostanziale dato dall’Amministrazione Comunale
alle linee 2 e 3 della Tramvia. Le motivazioni addotte sono quelle che vogliono
l’azienda appaltatrice Impresa S.p.A. (già subentrata alla precedente
aggiudicataria, il Consorzio Etruria andato in fallimento) in grave crisi di
liquidità.
In realtà, nessuno in città
si nasconde quale sia la realtà dei fatti: il Sindaco, ad un anno dalle
elezioni che dovrebbero confermarlo, non vuole cantieri aperti in mezza città.
Anziché porre il mantenimento di vecchie promesse non solo elettorali come
vanto e punto cardine del nuovo programma di governo cittadino, Renzi in questo
appare più vecchio del vecchio che vuole o diceva di volere rottamare, trattando
l’opera pubblica più importante degli ultimi 30 anni a Firenze come una fonte di
mugugno popolare e basta. E disinteressandosi completamente della ricaduta
negativa disastrosa in termini economici ed occupazionali, per tutte quelle piccole
e medie imprese che facevano affidamento su lavori che a questo punto non partiranno
fino a dopo il 2014. O anche mai, perché nel frattempo andranno a scadenza i tempi
concessi dall’Unione Europea per l’utilizzo del finanziamento di 36 milioni accordato
a Firenze: o si finisce nel 2015 o addio fondi comunitari. Una dèbacle, insomma.
Con un futuro poco luminoso
come amministratore comunale, il buon Renzi deve aver riconsiderato più
attentamente quella parte del suo futuro che lo spinge verso Roma. Facile dire “con
grosso sollievo dei fiorentini”, più difficile dire con quale appeal all’interno di un Partito Democratico devastato dagli
ultimi mesi di scelte scellerate e assai poco rivitalizzato dalla cura
Gerovital di Enrico Letta, soprannominato nel frattempo "l’uomo del
governo senza fretta".
Tempi duri insomma e scelte
difficili si impongono al giovane Renzi, che non conosce forse le citazioni di
Craxi e nemmeno quelle di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che faceva dire al suo
Gattopardo: “perché
nulla cambi, tutto deve cambiare”. Il
problema è che ormai è tardi anche per il trasformismo tradizionale della
politica italiana, o questo sistema cambia davvero o non esplode soltanto lui,
ma tutto il paese.
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