Nel 1978 Camilla Cederna sancì la frattura tra il paese ed il Presidente della Repubblica in carica con il suo magistrale libro Giovanni Leone: la carriera di un presidente. Il libro, per chi ebbe la fortuna di leggerlo, poiché fu dichiarato fuorilegge dal tribunale su istanza della parte lesa, il presidente Giovanni Leone appunto, raccontava fatti e misfatti della più alta carica dello Stato.
Era l’anno in cui la Repubblica
visse la sua prima crisi profonda, delitto Moro, scandali. Se non fosse stato
per il successore di Leone, Sandro Pertini, le istituzioni repubblicane avrebbero
imboccato una china probabilmente infausta e irreversibile. La Repubblica si
riprese, almeno fino a Mani Pulite. La Cederna alla fine ebbe ragione delle azioni
legali intentate da Leone, anche perché l’avvocato napoletano alla fine fu
travolto dalla marea montante degli scandali a lui ascritti e dovette lasciare
il Quirinale, unico caso di dimissioni anticipate della storia d’Italia (a
parte quelle di Cossiga nel 1992 motivate dalla necessità di evitare una
impasse costituzionale, data la coincidenza tra elezione presidenziale e scelta
del nuovo governo).
Non c’è una Camilla Cederna a
cantare le gesta di Giorgio Napolitano adesso. La giornalista milanese è
scomparsa nel 1997. Dei suoi successori, sparita la generazione dei Montanelli,
dei Bocca, dei Biagi e delle Fallaci, son davvero pochi quelli che hanno voglia
di rischiare onori e glorie per dire le cose come stanno. Sono pochi, come
Travaglio e la Gabanelli, e hanno troppi fronti da sorvegliare. Cosicché,
l’attuale inquilino del Quirinale ha vita facile, nella sua prassi
costituzionale creativa.
Da due anni a questa parte,
Giorgio Napolitano ha superato qualsiasi dei suoi predecessori nelle
interpretazioni più disinvolte della Costituzione. A confronto, gli esperimenti
abnormi dei tempi della Democrazia Cristiana impallidiscono, tentativi animati
da buone intenzioni di assicurare un governo al paese nonostante che a
quell’epoca ed in quel contesto circa un terzo degli elettori italiani fossero
di fatto esclusi dall’elettorato attivo dalla conventio ad excludendum che
voleva il Partito Comunista Italiano fuori dai giochi.
Giorgio Napolitano era un
esponente di quel partito. Talmente solidale al sistema da essere stato nel
1956 uno dei più convinti assertori della buona ragione dell’intervento dei
carri armati sovietici in Ungheria. La logica dei blocchi gli apparteneva a tal
punto da farne un acceso sostenitore. Il Patto di Varsavia era fuori
discussione. Per estensione, lo era anche la Nato, sotto il cui ombrello
atomico fu uno dei primi a riparare, quando Berlinguer nel 1973 dichiarò la
cosa ammissibile anche per i comunisti.
Da quel momento, Napolitano e la
corrente dei Miglioristi che da lui ebbe origine furono oggetto di un
sentimento ambivalente da parte dei “compagni” di partito. Apostrofati dei
peggiori epiteti (qui ovviamente irriferibili) in quanto propugnatori del
compromesso con la DC e la destra, in realtà erano tenuti in gran conto perché
rappresentavano il canale privilegiato attraverso cui poteva passare qualsiasi
trattativa più o meno sottobanco con la odiata ma irrinunciabile controparte
capitalista.
Forte del suo nuovo aplomb e
della sua nuova immagine di comunista british, Giorgio Napolitano accreditò di
sé con gli anni uno status ed un cursus honorum di personalità
politica essenziale e di spicco nel crepuscolo della Prima Repubblica e nel
fulgore della Seconda, un comunista presentabile, un teorico delle
istituzioni, candidabile ed eleggibile addirittura alla più alta carica dello
Stato quando Carlo Azeglio Ciampi concluse il suo mandato. Per i primi cinque
anni, Napolitano ripetè la parabola di Francesco Cossiga: incolore, inodore,
insapore. Salvo svegliarsi negli ultimi due, e con la disinvoltura ideologica e
comportamentale che l’ha sempre contraddistinto scoprirsi e sentirsi il
salvatore della patria.
Peccato non avere avuto nessuno
dei grandi giornalisti del passato a raccontare le sue gesta quando introdusse
nella Costituzione della Repubblica Italiana l’articolo relativo a “L’Europa lo
vuole”. L’escamotage di chiamare Monti in Parlamento nominandolo senatore
a vita (per meriti di cui non sapremo mai) al fine di investirlo subito dopo dell’incarico
di presidente del consiglio per il quale neanche uno degli elettori italiani
l’aveva mai votato avrebbe fatto invidia a generazioni di politici e di
costituzionalisti dai tempi dello Statuto Albertino ad oggi. Il compianto Aldo
Moro avrebbe applaudito a una manovra che superava in creatività e bizantinismo
qualunque cosa lo statista di Maglie avesse mai Escogitato E nessuno che avesse
mai per un solo istante richiamato all’attenzione l’art. 88 della Costituzione,
secondo cui il Presidente, se per un qualunque motivo (tra quelli individuati
dalla prassi costituzionale, che poi si riassumono in uno: la mancanza di una
maggioranza in Parlamento) non può individuare in una delle due Camere un
soggetto politico a cui conferire l’incarico di formare un governo, ha una sola
via da percorrere: lo scioglimento delle Camere. A meno che non si trovi nel
semestre bianco, gli ultimi sei mesi del suo mandato in cui non può farlo. In
tal caso, come fece Francesco Cossiga, se proprio si vuol passare per salvatore
della patria si può fare una cosa sola: dimettersi, e lasciare il campo a chi può
agire per il meglio.
L’ultima perla della carriera di
Giorgio Napolitano è stata aggiunta oggi. Fedele ad un kamikaze giapponese
dell’ultima guerra, il presidente ha detto: non mi arrendo. O per meglio dire:
non mi dimetto. Vado avanti, e decido io, fino all’ultimo. In un parlamento
spaccato in tre forze equivalenti e non dialoganti (almeno alla luce del sole),
questo vuol dire una cosa sola. O sciolgo le camere (ma non voglio farlo perché
non lo vuole né il mio ex partito, il PCI-PD, né l’altro con cui da vent’anni
esso dialoga di preferenza, Forza Italia-PDL), oppure mi invento qualcosa. E
pazienza se di questo qualcosa nella Costituzione non ce n’è traccia.
La decisione di nominare due
gruppi di lavoro costituiti da dieci esperti (sic!) che affiancheranno il
presidente stesso nella affannosa ricerca del Graal, cioè il governo che
verrà, appartiene alla prassi costituzionale creativa. Avevamo avuto di tutto,
governi tecnici, governi balneari, governi di unità nazionale, ma il comitato
dei dieci saggi no, mai. Lasciamo perdere l’identità di questi saggi, dal
Violante che rivendicava in parlamento la primogenitura dell’avvento di
Berlusconi (di colui che adesso vorrebbe dichiarare inelegggibile con 20
anni di ritardo e una buona dose di trasformismo) al Quagliarello che dette di
assassino al povero padre di Eluana Englaro. Gaetano Quagliarello è uno dei probiviri
che dovrebbero portarci fuori dalla palude in cui ci siamo cacciati,
votando per la fine di una Seconda Repubblica che ha riempito le istituzioni di
gente come quella (maschi e femmine, non è questione di sesso) che Battiato ha
definito con il celebre epiteto già passato alla storia. No comment.
Giorgio Napolitano tra pochi
giorni, a Dio piacendo, conclude il suo mandato presidenziale. Ma soprattutto
conclude una carriera politica in cui, quanto e più di una certa parte della
sua generazione e della sua estrazione culturale, ha fatto di tutto perché la
Costituzione della Repubblica Italiana fosse tutto fuorché ciò che la gente per
cui era stata disegnata dai Padri Costituenti avrebbe voluto che fosse.
To be continued… non è
finita qui.
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