Era il nostro Figlio del
Vento. Il penultimo bianco capace di vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi
nella corsa veloce, recordman del mondo dei 200 metri per 17 anni e
tutt’ora recordman europeo imbattuto. Pietro Mennea era nato a Barletta il 28
giugno 1952, e si è spento stamani in una clinica di Roma, dove aveva
combattuto la vana battaglia finale contro un male di quelli che non perdonano.
Nel mezzo a queste date, una vita di quelle da leggenda.
La prima medaglia assoluta
agli Europei del 1971, con la staffetta italiana 4x100, la prima medaglia
olimpica a Monaco nel 1972, un bronzo alle spalle del suo idolo e maestro, il
sovietico Valery Borzov. Due anni dopo a Roma, toccò a Pietro il gradino più
alto, oro finalmente nei 200
metri, la distanza a lui più congeniale, quella in cui
poteva dispiegare tutta la sua potenza e velocità progressiva, mentre nei 100
fu ancora secondo dietro al “mostro” Borzov.
A Città del Messico con Primo Nebiolo e Gianni Minà |
Pietro era la speranza
bianca, il campione predestinato, l’atleta destinato a ridare orgoglio all’Italia
dopo gli anni opachi seguiti alla fine della carriera di Livio Berruti, il
campione di Roma 1960. Ma il ragazzo venuto dal sud, pur avendo fatto tanta
strada, ne doveva fare ancora altrettanta prima di raggiungere le terre del Mito.
A Roma 1974 seguirono anni di crisi, psicologica prima ancora che tecnica.
Pietro aveva medaglie e record nelle gambe, ma stentava a sentirli nella testa
e nel cuore. Alle Olimpiadi di Montreal nel 1976 chiuse senza vittorie, l’oro
andò al giamaicano Don Quarrie e lui fu quarto nei 200 e nella staffetta 4x100.
La sua rinascita avvenne a
Praga nel 1978, ai campionati Europei. Pietro aveva raggiunto una maturità e
uno stato di forma tali da far suoi oltre ai 200 metri che gli
appartenevano da sempre anche i 100, distanza in cui fino ad allora non era
riuscito a dispiegare il suo ritmo di gara migliore, data la brevità. Fu a
Praga che maturò l’idea del record del mondo. Lo studente di Scienze Politiche
Pietro Mennea aveva diritto a partecipare alle Universiadi che l’anno
successivo si sarebbero tenute a Città del Messico, città la cui altezza sul
livello del mare favoriva i record sportivi da sempre. Lì nel 1968 alle
Olimpiadi Tommie Smith aveva stabilito il precedente primato, 19’83’’ e aveva
sollevato sul podio il pugno sinistro guantato di nero, facendo conoscere al
mondo il Black
Power.
Toccò a Pietro succedergli,
con quel tempo di 19’72’’ che resistette come record mondiale fino al 1996,
quando fu superato da Michael Johnson ai trials per le
Olimpiadi di Atlanta. A livello europeo nessuno ancora è mai riuscito a
batterlo, ed è un record che ormai Pietro si è portato con sé, chiudendo gli
occhi per l’ultima volta stamattina.
L'arrivo dei 200 a Mosca |
Dopo il record, era il
favorito d’obbligo per le Olimpiadi che si tenevano a Mosca l’anno successivo,
quelle del boicottaggio degli americani a causa dell’invasione sovietica dell’Afghanistan.
A contendergli la medaglia d’oro, oltre al campione uscente Don Quarrie c’era
lo scozzese
volante Alan Wells, che gli aveva già
dato un dispiacere sulla distanza dei 100 metri. Anche nella finale dei 200 Wells
sembrò dapprima involarsi verso un clamoroso bis, ma Pietro aveva il tempo per rimontare
e lo fece con una progressione che abbiamo ancora tutti negli occhi, bruciando
il britannico al foto-finish. Nella 4x400 poi dette
poi il suo contributo fondamentale alla medaglia di bronzo italiana.
L’anno dopo annunciò il suo
ritiro, forse consapevole di aver dato e raggiunto il massimo. Ma il richiamo
della pista era forte, e Pietro tornò due volte, in occasione delle olimpiadi di
Los Angeles 1984 (dove cedette il testimone ad un altro Figlio del Vento, Carl
Lewis) e di quelle di Seoul 1988, dove fu portabandiera azzurro. In totale
cinque partecipazioni olimpiche, altro record eguagliato da pochi al mondo.
Pietro Mennea aveva quattro
lauree, Scienze Politiche, Giurisprudenza, Lettere e Scienze Motorie. Era
avvocato, docente universitario, cofondatore assieme alla moglie della Fondazione Onlus intitolata a suo nome che intendeva diffondere i valori dello
sport e contribuire alla lotta al doping. La città
di Londra, nell’ambito delle iniziative connesse alle Olimpiadi del 2012, gli
aveva addirittura dedicato la stazione della metropolitana di High Street
Kensington.
Come ha detto Livio
Berruti, Pietro «era un inno alla resistenza, alla tenacia e alla sofferenza».
Tutte qualità che gli italiani, non solo nello sport, non possiedono più.
Adesso è lassù, con Jesse
Owens e tanti altri, a raccontarsi i loro giorni di gloria per l’eternità.
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