La notizia è passata
completamente sotto silenzio. E c’è da credere anche che siano in pochi i
cittadini di questa Italia distratta da vacanze che non conoscono crisi (ed
ormai in connessione con se stessa soltanto tramite i rotocalchi del
ventunesimo secolo, social network sempre più approssimativi se non deleteri
come Facebook o Whatsapp) che ricordino o addirittura sappiano chi è Sergio De Caprio.
Eppure, se c’è qualcuno che ha
meritato nella storia di questa disgraziata Repubblica il nome di “salvatore
della patria”, o per lo meno della sua dignità – della sua “immagine”, come si
dice adesso -, è stato proprio questo carabiniere che un giorno d’inverno di
tanti anni fa fece quello che non si era mai ritenuto possibile. Catturò, nel
paese che ha inventato la Mafia ed alla testa soltanto di un pugno di
coraggiosi come lui, addirittura il Capo dei Capi.
Allora era più giovane, eravamo
tutti più giovani. Ed anche speranzosi, dopo la “lunga notte della Repubblica”,
come è stata chiamata da qualcuno. Era l’inizio di un anno nuovo dopo quello “horribilis”
che aveva visto crollare la Prima Repubblica sotto i colpi di Mani Pulite e
della propria corruzione (niente comunque a confronto di quello che sarebbe
venuto dopo con la Seconda e la Terza) ed aveva visto crollare addirittura lo
Stato sotto i colpi delle bombe di Capaci e Via d’Amelio. Nel 1992 l’Italia era
ridotta ad una Colombia, ad un Libano qualsiasi, con rispetto parlando. Nel
1992, secondo la celebre frase di Tomasi di Lampedusa, tutto stava cambiando
affinché niente veramente cambiasse.
Dopo aver sepolto anche il
giudice paolo Borsellino, una parte di questo Stato ridotto ad un relitto alla
deriva chiamò a raccolta le sue residue energie migliori. Il colonnello dei
Carabinieri Mario Mori incaricò un giovane ufficiale dell’Arma di mettersi alla
testa di una unità appena costituita appositamente (dal nome fortemente
evocativo, CRIMOR) di dare la caccia e catturare il capo supremo di quella
banda di Corleonesi che incredibilmente – ma neanche tanto – aveva messo in
ginocchio una nazione.
La CRIMOR doveva combattere il
crimine organizzato in silenzio, con pochi mezzi. E doveva ottenere risultati
presto e bene, altrimenti il Belpaese quella volta non ce l’avrebbe fatta, dopo
essere sopravvissuto ad altre crisi epocali come l’8 settembre e Via Fani – Via
Caetani. Il giovane ufficiale, un militare (allora l’Arma faceva parte dell’Esercito
e i suoi quadri uscivano dall’Accademia Militare di Modena) completamente fuori
dagli schemi che tuttavia si era già distinto per coraggio e capacità, divenne
famoso dopo quel fatidico 15 gennaio 1993 con il suo soprannome parimenti
fortemente evocativo di Capitano Ultimo.
Come ha raccontato magistralmente
Maurizio di Torrealta nel suo celeberrimo e ormai quasi dimenticato “L’uomo che
arrestò Totò Riina”, De Caprio era un ammiratore degli Indiani d’America. La
sua CRIMOR fu organizzata come una banda di apaches supertecnologici che
compivano incursioni in un territorio in grandissima parte controllato da un
esercito nemico, quello dei Corleonesi. Scelse di chiamarsi Ultimo perché fosse
chiaro che non si considerava un eroe o un privilegiato, ma piuttosto l’ultimo
dei servitori di questo Stato. L’ultimo e – aggiungiamo noi – il più bravo ed
il più meritatamente fortunato.
Dall’estate 1992 al 15 gennaio
1993, la squadra di Ultimo scoprì due cose: che il Capo dei Capi aveva sempre
vissuto indisturbato nel centro di Palermo (da cui faceva la spola senza
problemi verso i suoi possedimenti corleonesi); e che il suo punto di forza – il
mischiarsi senza problemi alla gente di Sicilia – era anche il suo punto
debole. Lo catturarono in città a due passi dall’abitazione in cui soggiornava,
come un clandestino qualsiasi. Un’operazione incredibile nella sua semplicità,
per la quale tuttavia c’erano voluti una determinazione ed un coraggio senza
precedenti nella storia repubblicana.
Per qualche anno dopo la cattura
di Riina la storia di Ultimo, per quanto la sua identità fosse
comprensibilmente secretata (la Mafia l’aveva condannato a morte al pari di
quei Falcone e Borsellino a cui lui aveva reso giustizia), fu alla ribalta
delle cronache. Il capo apache prestato all’Arma dei carabinieri affrontò Cosa
Nostra sul terreno più e più volte. Poi, con l’attenuarsi delle luci della
ribalta, arrivarono anche i “corvi” che avevano tradizionalmente rappresentato i
temibilissimi avversari interni di chiunque aveva cercato di combattere
seriamente il crimine organizzato.
Mario Mori |
Mentre assieme al Colonnello Mori
doveva discolparsi delle accuse infamanti del pentito Massimo Ciancimino, figlio
di quel Vito che ormai tutti sanno essere stato uno dei principali referenti
politici di Cosa Nostra in Sicilia, il Capitano Ultimo nel frattempo divenuto
maggiore capiva che il suo tempo nell’isola era scaduto. Non per la condanna
decretatagli dalle Cosche, ma per quella più subdola maturata contro di lui all’interno
del suo stesso apparato, della sua stessa gente: la squadra che doveva
difendere e ristabilire la giustizia.
Nel 2000, De Caprio chiese ed
ottenne il trasferimento al NOE, Nucleo Operativo Ecologico. Di questa
struttura era divenuto vicecomandante, con il grado di colonnello. Tanto per
non smentirsi, per dirne solo una nel 2013 aveva partecipato all’arresto di
Giuseppe Orsi presidente di Finmeccanica accusato di corruzione internazionale,
concussione e peculato. La vicenda è quella della vendita di elicotteri al
governo indiano. Il quadro, molti sostengono, è quello di un altro contenzioso con
il paese asiatico che da tre anni tiene con il fiato sospeso quel che resta
dell’opinione pubblica italiana. Interessi enormi, innominabili ed
incontrollabili.
Probabilmente fu allora che, come
il commissario Corrado Cattani della Piovra o come il Raul Bova che l’aveva
così brillantemente interpretato sul piccolo schermo, il Comandante Ultimo fece
un passo di troppo, quello oltre il quale non gli sarebbe stato consentito di
andare.
Ecco quindi datata 4 agosto 2015
la lettera a firma del generale comandante dell’arma dei Carabinieri Tullio
Sette con il quale viene disposta la sua rimozione da qualsiasi incarico
operativo presso il NOE, pur mantenendogli l’incarico (puramente formale) di
vicecomandante. “Normale avvicendamento strategico”, è stata definita questa
disposizione dallo stesso Comando dell’Arma. Come dire, hai in squadra Leo Messi
ed a partita (durissima e delicatissima) in corso lo sostituisci con un
medianaccio da “palla o gamba”. E questo lo definisci un normale cambio
tattico.
La notizia è trapelata soltanto
il giorno 21, secondo lo stile di un paese dove le cose più strane, chiamiamole
così, si fanno sempre mentre la gente è al mare (non che quando è in città stia
più attenta a quello che succede e che la riguarda). Tutto cambia perché niente
cambi davvero, come diceva il Principe di Salina nel Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa.
«Come soldati, come carabinieri,
dobbiamo eseguire gli ordini anche quando a volte non si capiscono e non si
condividono (….) Da Ultimo – si legge nella sua lettera di commiato al suo
reparto – vi saluto nella certezza che senza mai abbassare la testa, senza mai
abbassare lo sguardo e senza mai chiedere nulla per voi stessi, continuerete la
lotta contro quella stessa criminalità, le lobby e i poteri forti che la
sostengono e contro quei servi sciocchi che, abusando delle attribuzioni che
gli sono state conferite, prevaricano e calpestano le persone che avrebbero il
dovere di aiutare e sostenere».
Arrivederci Comandante Ultimo, e
buona fortuna. C’è ancora una parte di questo sciagurato paese che si ricorda
di dovere soltanto a lei ed a pochi altri il fatto di potersi ancora chiamare italiani
senza vergognarsi. O almeno senza vergognarsi troppo.
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