LONDRA - Alex Schwazer, medaglia d’oro a Pechino nella 50 chilometri di marcia, non difenderà il suo titolo a Londra. Non andrà nemmeno nella capitale britannica. Il CONI ha deciso di fermarlo dopo che l’azzurro è risultato positivo all’Eritropoietina (Epo) a seguito di un test a sorpresa effettuato dalla World anti-Doping Agency (Wada, l’Agenzia indipendente che esegue i controlli antidoping per le federazioni sportive di tutto il mondo) il 30 luglio scorso a Oberstdorf in Germania, località dove risiede la sua fidanzata, la pattinatrice Carolina Kostner.
«Ho sbagliato io, volevo essere più forte, la mia carriera è finita», sono le parole con cui il campione altoatesino ha commentato a caldo la notizia esplosa ieri nei flash di tutte le Agenzie d’informazione. In effetti, in questa frase c’è la sintesi di tutta la vicenda, e poco altro da aggiungere.
Il momento più duro dell’ultima giornata da atleta di Schwazer è stato quando ha dovuto comunicare la sua squalifica al suo allenatore Michele Didoni, ex campione mondiale di marcia. «Siediti! Il fermato per il doping
sono io». Didoni parla di tradimento, di immaturità, di presa in giro, tra le lacrime. Petrucci, presidente del Coni, parla con rabbia di giornata amara, sconvolgente, e di decisioni irrevocabili che arriveranno «Una medaglia in meno e pulizia in più».
Oro a Pechino, polvere a Londra. La parabola del marciatore di Vipiteno ripercorre quelle drammatiche di altri campioni, altri beniamini della gente appassionata di sport. Il pensiero va innanzitutto a quel Ben Johnson che sembrava dominare la scena della corsa veloce alla fine degli anni ’80 avendo interrotto il dominio del figlio del vento Carl Lewis.
Dapprima ai mondiali di Roma nel 1987 e poi alle olimpiadi di Seul nel 1988, il canadese di origine giamaicana stabili record strepitosi e stravinse la medaglia d’oro. Ma tre giorni dopo la impressionante vittoria nei 100 metri piani con record del mondo 9’79 e braccio alzato negli ultimi metri quasi a irridere l’avversario, Johnson fu trovato positivo relativamente all’uso di steroidi anabolizzanti. Conseguentemente fu squalificato, i suoi record cancellati e le medaglie revocate.
Carl Lewis, al momento di ricevere la medaglia d’oro olimpica (la seconda dopo quella di Los Angeles) dichiarò che comunque niente avrebbe potuto restituirgli quella sensazione di vittoria che avrebbe provato senza la prestazione dopata di Johnson, e che quindi non avrebbe mai potuto riavere ciò di cui era stato veramente defraudato. Johnson dal canto suo, pur ammettendo la sua colpa, gli rispose di avere soltanto ecceduto in quello che facevano tutti, Lewis compreso: aiutarsi con sostanze proibite per restare al top delle prestazioni atletiche.
Olimpia quindi inquinata dal doping, di stato o privato. Lo si sa dal dopoguerra, quando le grandi potenze (anche sportive) cominciarono a farsi la guerra per primeggiare anche sotto la bandiera a cinque cerchi. Ma il
doping non aspettava e non aspetta quattro anni, da un’olimpiade all’altra. Ormai pervade l’attività sportiva a tutti i livelli, in tutte le discipline, ogni giorno.
La vicenda che torna alla mente (e al cuore) degli appassionati italiani più immediatamente e dolorosamente è quella del “Pirata”, Marco Pantani. Alla fine degli anni ’90, il corridore di Cesena si stava affermando come l’ultimo splendido erede di Coppi e Bartali, l’ultimo italiano a compiere l’impresa di vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno, il 1998.
L’anno dopo, mentre si apprestava a bissare il successo al Giro, fu fermato alla penultima tappa perché risultato positivo a un controllo del sangue. Il suo ematocrito aveva valori oltre il consentito, e così Marco fu una delle prime vittime accertate dell’abuso di Epo. Dalle stelle alla polvere nel giro di pochi giorni, il Pirata non si riprese più, cadde in depressione e concluse la sua carriera in una stanza d’albergo a Rimini, a seguito di un arresto cardiaco dovuto all’uso di sostanze stupefacenti.
La vicenda di Marco Pantani ha probabilmente permesso da un lato alle autorità sportive di mettere a fuoco il problema dell’Eritropoietina e delle altre sostanze dopanti negli sport di massa come il ciclismo (è emerso infatti che perfino ai livelli amatoriali si fa uso diffuso di queste sostanze per aumentare non si sa bene quali prestazioni) e a stabilire dei controlli più capillari ed efficaci, nell’ultimo dei quali pare essere incappato lo stesso Alex Schwazer. Ma ha forse consentito a tanti colleghi del Pirata di farsi più furbi, se è vero – per fare un esempio - che il suo successore, quel Lance Armstrong che ha vinto sette volte il Tour, è stato ampiamente e apertamente “chiacchierato”, ma a suo carico non è emerso mai nulla o quasi.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ha dichiarato ieri sera Stefano Tilli, che conosce l’ambiente delle gare in generale, e olimpico in particolare. Certo è che a Olimpia ormai certi peccati sembrano essere diventati la regola. Ma gli eroi, quando cadono, fanno sempre lo stesso rumore.
«Ho sbagliato io, volevo essere più forte, la mia carriera è finita», sono le parole con cui il campione altoatesino ha commentato a caldo la notizia esplosa ieri nei flash di tutte le Agenzie d’informazione. In effetti, in questa frase c’è la sintesi di tutta la vicenda, e poco altro da aggiungere.
Il momento più duro dell’ultima giornata da atleta di Schwazer è stato quando ha dovuto comunicare la sua squalifica al suo allenatore Michele Didoni, ex campione mondiale di marcia. «Siediti! Il fermato per il doping
sono io». Didoni parla di tradimento, di immaturità, di presa in giro, tra le lacrime. Petrucci, presidente del Coni, parla con rabbia di giornata amara, sconvolgente, e di decisioni irrevocabili che arriveranno «Una medaglia in meno e pulizia in più».
Oro a Pechino, polvere a Londra. La parabola del marciatore di Vipiteno ripercorre quelle drammatiche di altri campioni, altri beniamini della gente appassionata di sport. Il pensiero va innanzitutto a quel Ben Johnson che sembrava dominare la scena della corsa veloce alla fine degli anni ’80 avendo interrotto il dominio del figlio del vento Carl Lewis.
Dapprima ai mondiali di Roma nel 1987 e poi alle olimpiadi di Seul nel 1988, il canadese di origine giamaicana stabili record strepitosi e stravinse la medaglia d’oro. Ma tre giorni dopo la impressionante vittoria nei 100 metri piani con record del mondo 9’79 e braccio alzato negli ultimi metri quasi a irridere l’avversario, Johnson fu trovato positivo relativamente all’uso di steroidi anabolizzanti. Conseguentemente fu squalificato, i suoi record cancellati e le medaglie revocate.
Carl Lewis, al momento di ricevere la medaglia d’oro olimpica (la seconda dopo quella di Los Angeles) dichiarò che comunque niente avrebbe potuto restituirgli quella sensazione di vittoria che avrebbe provato senza la prestazione dopata di Johnson, e che quindi non avrebbe mai potuto riavere ciò di cui era stato veramente defraudato. Johnson dal canto suo, pur ammettendo la sua colpa, gli rispose di avere soltanto ecceduto in quello che facevano tutti, Lewis compreso: aiutarsi con sostanze proibite per restare al top delle prestazioni atletiche.
Olimpia quindi inquinata dal doping, di stato o privato. Lo si sa dal dopoguerra, quando le grandi potenze (anche sportive) cominciarono a farsi la guerra per primeggiare anche sotto la bandiera a cinque cerchi. Ma il
doping non aspettava e non aspetta quattro anni, da un’olimpiade all’altra. Ormai pervade l’attività sportiva a tutti i livelli, in tutte le discipline, ogni giorno.
La vicenda che torna alla mente (e al cuore) degli appassionati italiani più immediatamente e dolorosamente è quella del “Pirata”, Marco Pantani. Alla fine degli anni ’90, il corridore di Cesena si stava affermando come l’ultimo splendido erede di Coppi e Bartali, l’ultimo italiano a compiere l’impresa di vincere Giro d’Italia e Tour de France nello stesso anno, il 1998.
L’anno dopo, mentre si apprestava a bissare il successo al Giro, fu fermato alla penultima tappa perché risultato positivo a un controllo del sangue. Il suo ematocrito aveva valori oltre il consentito, e così Marco fu una delle prime vittime accertate dell’abuso di Epo. Dalle stelle alla polvere nel giro di pochi giorni, il Pirata non si riprese più, cadde in depressione e concluse la sua carriera in una stanza d’albergo a Rimini, a seguito di un arresto cardiaco dovuto all’uso di sostanze stupefacenti.
La vicenda di Marco Pantani ha probabilmente permesso da un lato alle autorità sportive di mettere a fuoco il problema dell’Eritropoietina e delle altre sostanze dopanti negli sport di massa come il ciclismo (è emerso infatti che perfino ai livelli amatoriali si fa uso diffuso di queste sostanze per aumentare non si sa bene quali prestazioni) e a stabilire dei controlli più capillari ed efficaci, nell’ultimo dei quali pare essere incappato lo stesso Alex Schwazer. Ma ha forse consentito a tanti colleghi del Pirata di farsi più furbi, se è vero – per fare un esempio - che il suo successore, quel Lance Armstrong che ha vinto sette volte il Tour, è stato ampiamente e apertamente “chiacchierato”, ma a suo carico non è emerso mai nulla o quasi.
Chi è senza peccato scagli la prima pietra, ha dichiarato ieri sera Stefano Tilli, che conosce l’ambiente delle gare in generale, e olimpico in particolare. Certo è che a Olimpia ormai certi peccati sembrano essere diventati la regola. Ma gli eroi, quando cadono, fanno sempre lo stesso rumore.
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