venerdì 2 gennaio 2015

Il discorso del Presidente

L’ultimo omaggio di Giorgio Napolitano al partito che l’ha allevato e cresciuto fino a portarlo alla massima carica dello Stato è contenuto nel suo discorso di fine anno. A reti unificate, il presidente conferma le voci che si rincorrevano da settimane, ed annunzia le sue prossime dimissioni.
E’ un discorso controverso quello rivolto – pare – per l’ultima volta dal Capo dello Stato al popolo italiano. Già sui dati di ascolto non c’è accordo tra gli addetti ai lavori. Le “reti unificate”, da RAI 1 a La 7, parlano di boom di share, “e non poteva essere altrimenti”. La stampa ufficiale si schiera con Re Giorgio, come da tre anni a questa parte. Diversa è la valutazione fatta dalle testate non allineate, dal web, da quanti sono legati in diverso modo e a diverso titolo a quelle opposizioni reali che si sono delineate nella società civile a questa monarchia costituzionale che è stato in sostanza l’ultimo settennato (più bis) al Quirinale.
Secondo i dati, a seguire il discorso di fine anno del Presidente sono stati quasi il 20% dei cittadini, il 60% circa di quanti di questi cittadini si trovavano di fronte ad un apparecchio televisivo, il cosiddetto share appunto. Stessa cifra rispetto al 2013, il gradimento del Presidente-Monarca è stazionario, e comunque – sempre dati alla mano – non raggiunge i livelli dei suoi predecessori, che facevano mediamente l’80%. Se da questo 60% si estrapolano poi i bambini e quanti semplicemente aspettavano l’inizio del conto alla rovescia per il brindisi di mezzanotte (la cui gestione quest’anno significativamente era affidata al conduttore del programma dal nome sintomatico AFFARI TUOI) si può capire quanto appeal abbiano avuto quelle che con ogni probabilità resteranno come le ultime parole di Giorgio Napolitano dal Colle.
“Ho toccato con mano i limiti dell’età”. Il discorso del Presidente a ben vedere contiene una sintesi di quello che è stato il suo spirito, e di conseguenza la sua azione politica durante tutta la sua vita. Comunista sempre e comunque anomalo (Kissinger lo definì il suo “comunista preferito”), uomo negli ultimi decenni teso ad accreditarsi come paladino di istituzioni che la sua parte politica ha combattuto a lungo, retore d’altri tempi ed aspirante salvatore della Patria (per esserne padre arrivò tardi, nel 1946 per la Costituente non aveva ancora l’età), Giorgio Napolitano sceglie per l’ultima notte dell’ultimo suo anno da Presidente le parole di un Cincinnato che aspira a ritornare quanto prima ad una vita privata che in realtà non ha mai vissuto, insieme a quelle dell’eroe risorgimentale che in realtà non è mai stato. Non erano più questi i tempi e non era lui il personaggio.
La retorica peraltro non gli ha mai fatto difetto. Così il suo lungo discorso si risolve ad essere quasi un memoriale depositato alle cronache in attesa di passare alla Storia, più che un saluto rivolto al popolo che non lo ha eletto (come del resto nessuno dei suoi predecessori) ma che lo ha avuto come Capo dello Stato per ben nove anni, un record probabilmente imbattibile nel futuro prevedibile. Le sue parole cercano continuo conforto in una Costituzione di cui molti gli obbiettano di essere stato un interprete non sempre corretto e super partes,  piuttosto che il fedele guardiano che doveva essere. E cercano continua giustificazione in quello che la crisi imponeva al paese, e l’Europa gli chiedeva. Sono le parole di un commissario liquidatore imposto da un consiglio d’amministrazione che siede all’estero. Non toccano nessuna delle corde profonde di quei cittadini e di quelle famiglie a cui pur si rivolgono e a cui, più o meno tra le righe, continuano a prefigurare gli stessi sacrifici chiesti nel passato.
E’ stato un periodo cupo, a tratti livido, quello degli ultimi anni di regno di questo monarca statutario. Chi lo ha criticato pubblicamente si è visto insorgere contro i primi sinistri strali di una censura che dopo i primi anni del dopoguerra e l’avvio della Repubblica nessuno in questo paese aveva più conosciuto. Il reato di vilipendio del Capo dello Stato o di altre Istituzioni era ormai morto e sepolto, nei fatti, da quando De Gasperi aveva mancato al suo stesso stile infierendo contro Giovanni Guareschi. E’ stato riesumato per Giorgio Napolitano. Re Giorgio ha fatto scelte che sarebbero state discutibili perfino in vigenza dello Statuto Albertino, figuriamoci della Costituzione del 1948. Eppure l’establishment politico, coadiuvato da una stampa ufficiale che è andata ben al di là di ogni più fosca previsione nel sotterrare la propria libertà in questo paese, gli si è stretto a fianco a coorte. Parlare di “casta” poteva sembrare esagerato fino al 2010, dopo decisamente non lo è stato più.
Re Giorgio rivendica le scelte dei suoi ministri, da quel sinistro ed economicamente sanguinario Richelieu tirato fuori dal cilindro tre anni fa a nome Mario Monti, a quel democristiano giunto troppo tardi anche rispetto al proprio DNA e da lui incaricato dopo la sua stessa rielezione controversa, Enrico Letta. Fino a colui che incarna – a suo dire – finalmente quel bisogno di riforme di cui il Paese ha bisogno e di cui lui per primo, re di questo Paese per grazia dell’Europa, ha riconosciuto la necessità: Matteo Renzi.
L’ex sindaco di Firenze sta indubbiamente “riformando”, dove porteranno le sue riforme e se mai saranno quelle richieste (e votate) dal popolo italiano non è dato sapere. Una cosa è certa, Renzi cambierà per sempre il partito che ha dato i natali e la maturità civile e politica allo stesso Napolitano. Probabilmente cancellandolo dalla geografia politica d questo paese. Probabilmente risolvendo infine la dicotomia nell’animo dello stesso Presidente, dato che non si può essere al contempo comunisti e liberali. Inneggiare ai carri armati sovietici a Budapest e ritrovarsi poi ad attuare la politica economica del club Bildenberg.
E’ tempo dunque che il ventesimo secolo lasci definitivamente spazio al ventunesimo (sperando che questo sappia alla fine essere migliore). Il “secolo breve” di Hobsbawm è stato fin troppo lungo, gli ultimi monarchi abbandonano esausti la scena. Re Giorgio anticipa, dicono, la stessa Regina Elisabetta d’Inghilterra, che a quanto pare sta decidendo di porre fine ad un regno lungo e intristito al termine da un crepuscolo con poca luce e molte ombre. Juan Carlos di Sagna si è già ritirato a vivere i suoi ultimi giorni in privacy. Le nere nubi addensatesi sull’Europa non accennano a diradarsi, nessuno può dire che esito avrà una crisi che da economica ormai è diventata politica. Ma non è più tempo di ottuagenari, soprattutto di quelli che cercano conforto con le parole ad una vita politica controversa, difficile da giudicare anche per i più avveduti tra i posteri. Mentre con i fatti ormai hanno condizionato scelte sulla cui legittimità forse non conviene troppo indagare. Per carità di Patria e anche di Presidente.
Dicevamo dell’omaggio al partito democratico. O perlomeno a colui che lo sta tenendo in vita oltre le più rosee aspettative. Le dimissioni di Napolitano arriveranno nel bel mezzo della vacatio dei consigli regionali, costringendoli alla prorogatio per la designazione degli elettori presidenziali da spedire al Parlamento in seduta comune. A quel punto, per il Renzi che sogna di sparigliare giochi fin troppo fossilizzati mandando tutto al monte di un’unica tornata elettorale nella quale dopo il Presidente della Repubblica vengano eletti le nuove Camere ed i nuovi Consigli Regionali (con l’auspicio che i sondaggi che gli accreditano ancora la benevolenza di una forte maggioranza elettorale siano fondati) il gioco sarà probabilmente fatto.
E’ un 2015 estremamente complicato quello che ha già dimenticato le ultime parole del Presidente Napolitano, passandole ad una Storia che se vorrà potrà farne l’uso che ritiene più opportuno. La cronaca incombe, ed è la solita cronaca di cittadini e famiglie che non arrivano ormai alla settimana dopo il pagamento dello stipendio, o addirittura non hanno più stipendio. Che erano alla televisione ad ascoltare Napolitano perché di andare a festeggiare fuori casa non possono permetterselo più. Che aspettano i saldi così come aspettano le prossime scadenze esattoriali. Che forse si chiedono se questo 2015 passerà in fretta e senza danni, e quasi non vedono l’ora che sia 2016.
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà, io mi sto preparando, è questa la novità. Così cantava il compianto Lucio Dalla, in un’epoca in cui tra l’altro il peggio aveva da venire.
Buon anno italiani.

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