mercoledì 14 gennaio 2015

Il cittadino Giorgio Napolitano



«Certo che sono contento di tornare a casa, qui si sta bene, è tutto molto bello ma si sta troppo chiusi, non dico come in una prigione perché non è così, ma ci sono troppi condizionamenti, si esce poco. A casa starò bene e passeggerò».
All’ultimo giorno della sua presidenza, Giorgio Napolitano trova finalmente le parole giuste. Senza la retorica che l’ha sempre contraddistinto, soprattutto da quando è inquilino del Quirinale (il più longevo della storia repubblicana), è così che risponde alla bambina che gli ha chiesto, con l’innocenza tipica della tenera età, se è contento appunto di lasciare questo palazzone e di fare ritorno a casa sua.
E’ l’atto conclusivo del suo settennato, diventato due anni fa un novennato per l’impossibilità conclamata delle forze politiche di trovargli un successore. La manifestazione, “Una vita da social”, che promuove nel cortile del palazzo presidenziale la campagna di sensibilizzazione sull’uso distorto del web e raduna insieme agenti della polizia di stato e studenti delle scuole, lo coglie finalmente con la guardia abbassata. Oggi sarà di nuovo tempo di dichiarazioni ufficiali, allorché le dimissioni promesse da tempo verranno formalizzate e avrà termine quella che resterà sicuramente nella storia d’Italia come una delle Presidenze della Repubblica più controverse.
Non è un caso che ad attendere il prossimo senatore a vita e Presidente Emerito Giorgio Napolitano sia lo stesso studio – a Palazzo Giustiniani – che fu di Oscar Luigi Scalfaro, un altro che lasciò dietro di sé un paese sicuramente spaccato in due almeno per quanto riguarda il giudizio da dare al suo operato. Anche se allora fu indubbiamente più facile individuare e interpretare i due schieramenti. Erano gli anni della fine della Prima Repubblica e della discesa in campo di Silvio Berlusconi, due eventi ai quali Scalfaro si oppose fieramente, rendendo immediatamente identificabili amici e nemici. Con Napolitano è stato tutto diverso.
L’ex rampollo di un partito che alle origini e per lungo tempo si professò rivoluzionario ha chiuso la sua carriera (almeno da un punto di vista istituzionale, gli auguriamo ovviamente ancora lunga vita e prosperità) da paladino dell’establishment come pochi altri. E proprio quell’establishment, dai politici agli addetti all’informazione di alto bordo a quella parte della società civile meno toccata dalla crisi economica (che ha quindi ancora “qualcosa da perdere”) lo ha sostenuto e difeso a spada tratta in ogni sua azione, anche la più discutibile e discussa.
In testa a questo gruppo, ovviamente, l’ultimo dei suoi Presidenti del Consiglio incaricati – staremmo per dire “inventati” – gli rende omaggio con i consueti toni enfatici (anche per lui) da Strasburgo dove si trova a chiudere il semestre italiano di presidenza della UE. «Un grande Presidente, un grande parlamentare europeo, che continuerà a far sentire la sua voce. Sarà un grande servitore del Paese anche come senatore a vita», dice Matteo Renzi che di sicuro si aspetta da lui qualche servizio immediato – absit iniuria verbis – già da domani allorché comincerà in aula del Senato la votazione sull’Italicum, la legge di riforma del sistema elettorale, o quello che ne resta.
E’ assai folto anche il gruppo di quelli che invece salutano questo 14 gennaio 2015 come il giorno in cui sarà forse possibile aprire un “nuovo corso”, avendo sofferto la Presidenza Napolitano come un lungo periodo di stallo delle Istituzioni e della società civile. Tra le varie articolazioni di cui si compone la Destra e in quell’universo frastagliato che fa capo al Movimento Cinque Stelle sono ben pochi coloro che brinderanno al Presidente uscente, se non per augurargli la miglior sorte in ordine a quella vita privata alla quale ritorna.
Da quando nell’autunno 2011 Giorgio Napolitano decise di prendere in mano personalmente le sorti della Repubblica (quasi un novello Cossiga ma di segno diametralmente opposto, in quanto il presidente sardo non si rivelò un fautore dell’establishment ma bensì un fattore di cambiamento anche brusco, un “picconatore” di esso)  accogliendo l’accorato “appello dell’Europa”, il paese si è oggettivamente diviso in due fazioni, quella che lo vedeva come un salvatore della patria e quella che invece si chiedeva se questa patria da lui non fosse stata in ultima analisi tradita, insieme alla Costituzione.
Nel 2011, il governo eletto dal popolo di Silvio Berlusconi fu dimissionato dal Presidente Napolitano su richiesta di una serie di soggetti politici nessuno dei quali era passato dal vaglio delle urne italiane – da Sarkozy alla Merkel ai maggiorenti della B.C.E., per limitarsi a quelli “pubblici” – e con la complicità di un Parlamento in cui il Partito Democratico voleva tornare a vincere possibilmente anche senza giocare (il perché si sarebbe poi visto nel 2013) e il Polo delle Libertà aveva inteso l’assenza di vincolo di mandato per i parlamentari in modo del tutto originale. Mezza Europa era sconquassata dalla crisi politica spacciata per economica scatenata dall’asse franco-tedesco e dalle lobby finanziarie, ma quasi tutta ritornò a votare. Meno l’Italia, dove la riforma costituzionale non era peraltro stata mai condotta a buon fine e dove quindi il Presidente ebbe buon gioco ad interpretare a rovescio l’art. 88 della Carta stessa, che prevedeva lo scioglimento delle Camere qualora fosse stato impossibile addivenire alla formazione di una maggioranza.
La maggioranza, per quanto sciagurata come la Monaca di Monza del Manzoni, c’era e rispose. Peccato che non fosse quella votata dagli elettori, e che a nessuno dei costituzionalisti accorsi a frotte al desco del Presidente venisse in mente di trarre la conclusione più immediata: il ritorno al voto. Per certe cose, la Prima Repubblica esisteva ancora, viva e vegeta. Se del caso, si poteva addirittura operare un downgrade fino allo Statuto Albertino.
Per molti, il Presidente Napolitano diventò Re Giorgio il giorno stesso in cui si cavò dal cilindro come un prestigiatore la figura di Mario Monti, promosso da travet d’alto bordo a salvatore della patria attaccata dallo spread. Qualcuno addirittura procedette verso le conseguenze estreme andando a rispolverare il lavoro teatrale di Alan Bennett, quella Pazzia di Re Giorgio che narrava le vicende del terzo sovrano di quel nome della casa reale inglese Hannover, uno dei più disastrosi della storia britannica, colui che provocò di fatto la Rivoluzione Americana. Ecco quindi che per miracolo qualcun altro (i giuristi non sono mai mancati a Palazzo) andò a rispolverare il vecchio reato di vilipendio al Capo dello Stato, un istituto alquanto demodé che non si applicava più da tempo immemorabile, dopo che peraltro alcuni Capi dello Stato avevano fatto del loro meglio per vilipendere se stessi.
Dopo Monti, anche Letta e Renzi hanno allungato la schiera dei Presidenti del Consiglio non eletti dal popolo, con beneficio pressoché immutato per il popolo stesso. Non è più tempo di spread, ma ancora l’Italia è una Repubblica a sovranità più limitata che mai. Non c’è stato discorso in cui il Presidente, con la sua consueta retorica di stampo risorgimentale, non abbia rimesso l’accento su questa Europa che chiede, chiede, chiede. E sulla Costituzione che a suo dire avrebbe ispirato ogni suo atto, anche il più insignificante. Nel 2013, una Costituzione già in seria difficoltà permise la sua rielezione a furor di popolo, nel senso che la “Casta” non trovò di meglio che chiedergli una proroga mentre fuori del Palazzo il popolo – provato da due anni di cura Monti-Fornero - rumoreggiava assai.
Ai posteri l’ardua sentenza. Mentre la Costituzione per molti motivi appare ormai una anziana genitrice in fin di vita al cui capezzale si accaniscono presunti medici che non avrebbero sfigurato nel Pinocchio di Collodi, il suo ultimo difensore sta consegnando in queste ore le sue dimissioni, e come un novello Cincinnato aspira a tornare alle sue passeggiate da privato cittadino.
Il toto-successione è già avviato da tempo, i nomi che si fanno assai poco rassicuranti. Come successe all’anziana plebea romana che benedisse Nerone al suo passaggio causando l’incredulità dello stesso imperatore, il sollievo per la fine di un regno vissuto da tanti come oscuro, incerto, disagevole ed a tratti anche opprimente è di gran lunga mitigato dal timore che se ne possa aprire uno ancor più infausto.
Ci associamo agli auguri affinché il cittadino Giorgio Napolitano, Presidente Emerito, possa ritrovare quella privacy a cui agognava da tempo, a suo dire, e godersela il più a lungo possibile. Al Paese che si lascia dietro abbiamo smesso da tempo di fare auguri. Forse non se li merita nemmeno più.

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