Abbiamo trascorso vent’anni a
discutere, e in certi momenti a scannarci, su quale fosse il sistema elettorale
migliore per un sistema politico ed un paese perennemente alla ricerca della
propria identità e di una migliore funzionalità. Meglio il maggioritario secco
anglosassone oppure i correttivi alla spagnola o alla tedesca corredati di
sbarramenti vari, o meglio ancora il doppio turno alla francese. Sapevamo
soprattutto cosa non volevamo più: la vecchia legge elettorale presentata nel
1946 da quel galantuomo di Ferruccio Parri, ultimo Presidente laico del
Consiglio prima del quarantennio democristiano, che con il proporzionale aveva
inteso permettere che tutte le forze politiche democratiche vissute in
clandestinità nella lunga notte fascista e nei pericolosi anni della Resistenza
potessero avere la loro esatta rappresentanza in Parlamento.
Quel sistema aveva consentito la
nascita della Prima Repubblica, ma ne aveva alla fine provocato anche la morte.
Il sistema dei partiti, la cosiddetta Partitocrazia, aveva sguazzato nella
palude proporzionalista, dove liste che non raggiungevano neanche l’1% dei
seggi a disposizione risultavano a volte essere l’ago della bilancia, con
conseguente ingovernabilità e incentivo massimo alla corruzione. Il referendum
del 1993, tenutosi sull’onda di Mani Pulite e della fine della maggior parte
dei vecchi partiti usciti dalla Resistenza partigiana, disse chiaramente che
gli italiani quel sistema non lo volevano più.
Toccò al senatore Sergio
Mattarella, uno degli ultimi notabili di quella Democrazia Cristiana che di lì
a poco avrebbe esalato l’ultimo respiro e attuale membro di quella Corte
Costituzionale che di recente ha di nuovo mandato a monte le regole del gioco
elettorale, presentare la legge che Giovanni Sartori gli avrebbe intitolato,
come si usava nell’antichità con gli Eponimi,
i funzionari pubblici che essendosi particolarmente distinti finivano a dare il
nome ad una legge o ad un particolare periodo in cui erano stati in carica. Il Mattarellum si inchinò alla volontà
maggioritaria del popolo italiano, fino al 75% dei seggi. Il restante 25% il
vecchio democristiano non resistette a dirottarlo su una quota proporzionale
superstite, che nelle intenzioni sue e dei suoi colleghi di tutto l’arco
costituzionale di allora doveva assicurare la sopravvivenza – o almeno un
pronto ritorno in auge – della vecchia nomenklatura della prima Repubblica.
La Seconda Repubblica ne risultò
ingovernabile quasi quanto la Prima. Tanto che l’uomo politico più carismatico
di quegli anni, Silvio Berlusconi, poté affermare alla fine del suo lungo
periodo di leadership di “non aver avuto i numeri” per attuare molte delle
riforme da lui e dalla sua parte politica auspicate, anche quando aveva
maggioranze apparentemente di tutto rispetto. E’ un fatto che nel Parlamento
sia di centrodestra che di centrosinistra erano rappresentate più forze
politiche di quante ce ne fossero mai state ai tempi dei governi di
Pentapartito a guida D.C., il record massimo fu di quattordici, alla faccia del
Maggioritario. Il primo governo Prodi si reggeva su un voto di maggioranza in
senato, che rendeva fondamentale la presenza in aula di prestigiosi quanto
attempati senatori a vita di dichiarata ispirazione di centrosinistra.
Nel 2005, dopo vari tentativi
infruttuosi bicamerali e bipartisan
di riforma della carta costituzionale e di leggi fondamentali quale quella
appunto elettorale, la maggioranza di centrodestra decise di agire per conto
proprio, anche nella prospettiva di una probabile affermazione dell’opposizione
alle elezioni successive, intendendo così consegnarle nelle mani uno strumento
governativo difficilmente agibile. In sostituzione del Mattarellum venne quindi
approvata la legge 270/2005, presentata dal senatore leghista Calderoli, non
proprio un costituzionalista. Dovendo nobilitarla con un latinismo come ormai
consuetudine, non si trovò di meglio che rifarsi alla stessa definizione con
cui Calderoli aveva battezzato la sua creatura appena nata: “E’ una porcata”,
disse il novello papà. E da allora la legge fu il Porcellum.
Liste bloccate redatte dalle
segreterie di partito, premi di maggioranza assegnati su base regionale senza
alcun criterio di insieme e senza logica né politica né tantomeno democratica, insieme
ad altre amenità per farla breve hanno prodotto un sistema elettorale dove chi
vince alla Camera difficilmente vince anche al Senato (se non per la solita
manciata di voti risicata dio solo sa come nello scrutinio delle ultime schede,
quelle dei residenti all’estero o quelle dei soliti seggi ritardatari – manco a
farlo apposta – di Roma e dintorni).
Il gioco, per quanto difficile,
ha retto bene o male un paio di soffertissime (per gli italiani, non certo per
i loro rappresentanti) legislature. Per saltare definitivamente nel 2013
allorché è entrata in un Parlamento fino allora bipartisan - anche se a livello di coalizioni - la proverbiale
terza forza incomoda, quel Movimento 5 Stelle che ha costretto la classe
politica più riottosa e neghittosa della storia europea recente a fare i conti
con una nuova marea popolare montante, di quelle che in Italia con alterne
fortune si affacciano a scadenza più o meno ventennale.
Ecco dunque il gioco delle parti.
Il Presidente della Repubblica incarica un governo di coalizione, di “larghe
intese” tra destra e sinistra, di insediarsi a Palazzo Chigi a condizione di
fare riforme che nessuno in realtà ha voglia di fare, e non consente di fatto
alternative a quel governo minacciando di dimettersi (il che, come si è visto
nei giorni delle votazioni per la sua successione, sarebbe esiziale per almeno
due dei tre partiti rappresentati in Parlamento). E’ un’impasse che fa rischiare l’osso del collo al Paese, alla sua
economia ed in ultima analisi alla sua stessa democrazia.
Finché a fine 2013 succedono due
cose. Dapprima viene fatto accomodare fuori dal Parlamento il leader del
centrodestra, perché ci si accorge dopo vent’anni che era incompatibile con la
rappresentanza politica. Poi viene fatto accomodare alla segreteria del maggior
partito di centrosinistra il sindaco di Firenze, dopo averlo osteggiato in ogni
modo negli anni precedenti ed essersi poi resi conto che si è trattata – ci si
perdoni il termine fantozziano – una boiata pazzesca.
Il vecchio e il nuovo leader,
ambedue a vario titolo desiderosi di riprendere o rafforzare una leadership su
un sistema in cui peraltro restano ormai come le uniche due figure politiche
che hanno un appeal sulla gran massa
dell’elettorato (se si esclude quel Beppe Grillo che ha rinunciato in partenza
alla rappresentanza e ad altre cose che ne farebbero un capo politico di ben
altro spessore), ci hanno messo poco più di un mese a spazzare via rispettivi
tabù che duravano dalla notte dei tempi e a trovare un accordo politico
fondante, l’unico peraltro possibile.
Secondo le parole di Renzi, che
Berlusconi ha pubblicamente sottoscritto, avremo dunque l’Italicum. Maggioritario con premio al partito o alla coalizione che
superano il 35%, la cui entità non può superare il 20% fino ad un complessivo
55%. Ballottaggio alla francese se nessuno supera quel 35%. Soglia di sbarramento dal 5 all’8% (in caso
di partito singolo o di coalizione) e liste ancora bloccate, ma a detta di Renzi
non più decise dai vertici di partito ma da apposite primarie.
La reazione del Resto del Mondo,
come possiamo chiamarlo con termine calcistico, è stata quella prevedibile. Much ado about nothing, come diceva
Shakespeare, molto rumore per nulla. Dopo gli strepiti di Alfano e Lupi e le
dimissioni di Cuperlo che doppiano quelle di Fassina, sta rapidamente arrivando
il tempo dei “più miti consigli”. Quei due, il vecchio e il giovane, andranno a
dritto, forti di un consenso popolare che al momento non è contrastabile.
Metteranno con le spalle al muro i rispettivi e infidi apparati di partito e
quel Movimento 5 Stelle che ha sprecato l’occasione storica di guidare il
cambiamento.
Non moriremo Porcellum. Avremo l’Italicum, e forse chissà, non moriremo
neanche. Di sicuro questa è l’ultima chance
per la nostra Repubblica, qualunque numero essa avrà.
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