mercoledì 15 giugno 2016

Io non sono Orlando



Vorrei dire due parole sulla strage di Orlando. Tecnicamente questo dovrebbe essere un CONTROCORRENTE, ma in realtà spero che la corrente vada da una parte sola.
Spero inoltre che adesso che lo shock e l’emozione si sono attenuati, sia possibile fare una riflessione. Non solo sulla strage, ma anche su come l’abbiamo vissuta e la viviamo. Su come viviamo ogni evento tragico del genere.
Siamo tutti d’accordo che non si tratta dell’omicidio di cinquanta gay, ma di quello di cinquanta persone. Se mezzo secolo di battaglie per i diritti civili ha portato a casa qualche risultato importante, è proprio questo. Ormai, anche in un paese come il nostro a prevalenza cattolica (per quanto di pura facciata), nessuno – se minimamente dotato di quoziente di intelligenza normale e di attitudine al buon senso – fa più caso o questione delle tendenze sessuali di nessun altro. Così come del genere sessuale, del colore della pelle, della razza, della fede politica, e di un’infinità di “quant’altro”.
Ci siamo stancati di discriminazioni, e di orrori conseguenti a quelle discriminazioni. Siamo andati oltre. Magari continueremo a scannarci come abbiamo sempre fatto (perché è nella natura umana), ma non più per “quei motivi”.
A meno che. C’è sempre un “a meno che”. Secondo me c’è anche in questo caso, ed è connesso al discorso che voglio fare.
Sul tema dei diritti di ciascuno, stiamo forse sbagliando tutto. A cominciare dalle categorie che – una volta discriminate – adesso beneficiano giustamente dei risultati portati a casa. Ma invece di consolidarli e lavorare – a questo punto più tranquillamente – sui dettagli, su quello che è da affinare, su quello che ancora manca, è come se ci fosse una nostalgia della discriminazione, dei bei tempi del muro-contro-muro, delle stelle gialle e rosa sui camicioni a righe, dei Ku Klux Klan e dell'Inquisizione.
Siamo tutti d’accordo che in terra giacciono morte 50 persone. E basta. E allora spiegatemi un po’ perché, ogni cinque minuti, i gay – e chi crede di rendere loro un servizio e attestare loro solidarietà – ripetono come un mantra la parola gay. Espongono vessilli gay. Ribadiscono orgoglio…di essere cosa, gay? nero? donna? religioso? ateo? Ma sono cose di cui essere orgogliosi? O forse son cose da cominciare a vivere con un po’ più di serenità, visto che la società lo permette di più adesso, e semmai usarle per costruirci sopra gli step successivi, mediante il confronto non più sanguinoso ma dialettico con altre categorie di cittadini?
E invece no. Gay Pride. Come se ci fosse bisogno di sconvolgere le nostre città (sempre le nostre, poi, ce ne fosse una di queste manifestazioni che si svolge a Ryad, a Pechino, a Teheran) per futili motivi. Sì, cari signori, futili. Perché non c’è più bisogno di ostentazione, non è più tempo di suffragette o di bonzi che si danno fuoco in pubblico per protesta contro il Vietnam. E non sarà mai il tempo – né per gli omo né per gli etero – di atti sessuali in luogo pubblico. Perché la nostra società non funziona così. E quindi ostentare, provocare per il gusto di farlo non porta da nessuna parte. Semmai, porta ad una reazione (niente nella storia è garantito per sempre).
Siamo tutti gay. Ma nemmeno per sogno. E’ gay chi si sente di esserlo. E finché non fa nulla che contravviene al codice penale, ha diritto di essere lasciato in pace e rispettato, dovunque e comunque. Punto e basta. Ripetere ogni cinque minuti che siamo tutti Orlando e siamo tutti gay alla fine fa venire il nervoso anche al Dalai Lama o a Madre Teresa di Calcutta. Alla fine provoca reazioni controproducenti, ed in qualche caso perfino con un margine di giustificazione. Come quando molti si indignavano con le Boldrini e Cirinnà che hanno fatto di tutto per avvelenare una riforma del diritto di famiglia di cui c’era gran bisogno, ed il cui senso complessivo è stato comunque disatteso e fuorviato. Oltre a questo, c’è sempre in agguato qualcuno con il quoziente di intelligenza sotto la media e la disponibilità di qualche arma.
Ci sono 50 persone in terra? E allora parliamo di quelle 50 persone. E basta. Siamo tutti una cosa sola: stanchi di questo sangue, che scorre a fiumi per un motivo o per l’altro. Dalla Siria agli Stati Uniti. Parliamo di Orlando. A quanto è dato di capire, ennesimo episodio di un giorno di ordinaria follia. Quattro anni fa scrivevo di Newtown, della tragedia nella scuola che fece piangere perfino Obama. Siamo sempre lì. Negli Stati Uniti, la follia di certi individui trova a sua disposizione un arsenale in vendita, come noi troviamo il giornale al supermercato.
Uno store americano con armi in vendita
Lo squilibrato omofobo è in agguato, come quello che ce l’ha con i bambini, con le mamme, con i neri, con i vecchi, e così via. Un Uzi lo compri sotto casa. Certo, se spari agli omosessuali e agli ebrei è molto facile che la sedicente Isis rivendichi il tuo gesto. Ma siamo sempre lì, di fatto è l’ennesima manifestazione del Bowling a Columbine di cui parlava Michael Moore nel suo film documentario.
Prima che qualcuno mi dica, “ecco, bravo, gli Stati Uniti!” alzo la mano. Noi siamo peggio. Noi stiamo aspettando la legge che legalizza la vendita di armi anche qui, e facciamo gli ipocriti fingendo di stare a sentire i presunti maestri della nostra coscienza, dal Papa al segretario del partito di maggioranza. Noi legalizziamo la possibilità di girare armati in casa degli altri ad ogni autunno, si chiama caccia. Noi legalizziamo la possibilità di qualunque delinquente di entrare in casa altrui, sotto tutela legale, sia che venga morso dal cane sia che il padrone tenti di difendersi. Noi dobbiamo stare soltanto zitti.
Sono partito dai gay, e da chi pretende di essere solidale con loro, e con i gay concludo. Non ce l’ho con loro, figurarsi. Piango i morti di Orlando come tutti. Ma non perdono loro di avermi fatto trovare anche solo per una volta sola d’accordo con Dario Nardella. Non glielo perdono. Questo non me lo dovevano fare.

Nessun commento:

Posta un commento