sabato 4 giugno 2016

Il più grande

Stanotte il suo cuore si è fermato per sempre, dopo una battaglia durata trent’anni. L’ultimo match della nostra vita siamo destinati a perderlo tutti, campioni o non campioni. L’importante, almeno in questo caso, non è il risultato – scontato – ma come si è combattuto.
Cassius Marcellus Clay Muhammad Alì ha combattuto per tutta la sua di vite, contro tutto e contro tutti, con un solo alleato: la sua razza, alla quale sentiva di dover devolvere tutti i doni che gli erano stati offerti dalla sorte. Il razzismo, i più forti campioni della boxe alla fine avevano dovuto chinare la testa davanti a lui, peso massimo atipico che volava come una farfalla e pungeva come un’ape. Cittadino americano atipico, capace di dichiarare pubblicamente in piena guerra del Vietnam che i vietcong non gli avevano fatto nulla, nessuno di loro lo aveva mai chiamato negro, i bianchi del suo paese sì.
La mia generazione l’ha idolatrato più che amato. Non era un personaggio facile, Muhammad Alì. Non si rendeva simpatico alla gente. Ma lui non voleva essere simpatico. Lui voleva essere il più grande. E per noi lo era, esempio più unico che raro di fuoriclasse sportivo che era riuscito a farsi rispettare ancora di più come uomo, per le sue prese di posizione e per il coraggio con cui le aveva difese.
L’ultimo avversario della sua vita era di quelli che, almeno per ora, non possono essere sconfitti da essere umano. Nemmeno dal più grande. Il morbo di Parkinson è uno dei mali del secolo. Affligge tante persone, per cause ancora ignote. Per quanto leggera a volare, anche una farfalla si prende pugni in testa. Alì ne aveva presi, e avevano aperto la strada al morbo.
Dai Giochi Olimpici di Atlanta 1996, in occasione dei quali avevamo potuto verificare l’insorgere del morbo e i danni che gli stava producendo, a quelli di Londra 2012, non si era mai tirato indietro continuando a mostrare il suo coraggio e la sua faccia in pubblico, con la fiaccola olimpica saldamente in mano. Proprio a Londra, l’immagine più toccante della cerimonia di apertura l’aveva fornita lui. Come tante altre volte. Insieme a Paul McCartney, ci aveva ricordato da dove veniamo veramente, più di ogni pur suggestiva scenografia.
La medaglia d'oro di Roma 1960 Cassius Marcellus Clay
Una volta di più, l’ex ragazzo di Louisville, profondo sud americano, che cambiò nome per rifiutare quello cristiano impostogli da schiavo abbracciando così la dottrina dei Musulmani Neri di Malcom X, aveva offerto a tutto il mondo la consueta immagine di forza e di coraggio. Non c’è più dubbio ormai, anche per le generazioni più giovani. Lui era veramente il più grande.
Il ragazzo che vinse l’Oro Olimpico a Roma nel 1960 non aveva mai accettato di integrarsi nel sistema, a costo di diventarne una delle star strapagate e senza coscienza. Se doveva essere un testimonial, scelse di esserlo per il suo popolo, i neri di tutto il mondo, in lotta per la parità dei diritti e la fine della segregazione razziale.
Non appena acquistò coscienza di sé e del suo posto nel mondo, il giovane Cassius Clay gettò nel torrente vicino casa sua la medaglia d’oro insieme al nome datogli dai suoi genitori. E più o meno all’epoca in cui diventò campione del mondo battendo Sonny Liston, nero anche lui ma completamente diverso e in quel sistema perfettamente integrato, scelse di chiamarsi Mohamed Ali e di mettersi contro il suo paese, gli Stati Uniti d’America.
Erano gli anni in cui i Governatori negli Stati del Sud non si facevano scrupolo di ordinare alla Guardia Nazionale di aprire il fuoco sulle marce per i diritti civili. Alì avrebbe potuto godersi tranquillamente la sua carriera di campione del mondo, come tanti prima e dopo di lui, e invece sfruttò ogni apparizione pubblica per battersi per la causa dei suoi fratelli colored. E alla fine il sistema decise di vendicarsi.
1964: Sonny Liston K.O. Cassius Clay campione del mondo dei massimi
Tra l’omicidio di Malcom X e quello di Martin Luther King, Alì ricevette la cartolina di chiamata alle armi. Era il momento in cui la Guerra del Vietnam entrava nella sua fase calda. Gli U.S.A. passarono dalla coscrizione volontaria a quella obbligatoria. Ci si presentava ad una commissione di leva che sorteggiava gli arruolati tra tutti quelli che venivano visitati e giudicati abili.
Facile pensare che ad un campione di boxe qualche riguardo sarebbe stato usato, che il sistema si sarebbe accontentato di fotografare il ribelle Ali in divisa dell’esercito americano, a fare atto di sottomissione alla legge del suo paese, rispedendolo poi a casa ridimensionato ma assolutamente in grado di godersi la sua esistenza dorata. Ali invece capì che quello era un punto di non ritorno, che il suo messaggio poteva essere fortificato solo da un gesto: il rifiuto della divisa.
Non essendo il paese in mobilitazione generale come nella Guerra Mondiale, non ci furono conseguenze penali se non simboliche. Ma al campione fu tolto il suo titolo, e per circa quattro anni gli fu negata la possibilità di riconquistarlo contro i suoi successori. Ali poté continuare ad essere attivista dei diritti del suoi popolo, anche perché il clima in America stava cambiando in senso favorevole ai pacifisti e contro i razzisti. Ma perse gli anni migliori della sua carriera sportiva. E tornare in cima fu durissimo.
1967, renitente alla leva
Nel 1971 perse da Joe Frazier, poi da Ken Norton. Li batté entrambi nelle rivincite, ma intanto la corona dei massimi era andata a George Foreman. Soltanto nel 1974, sette anni dopo aver perso il titolo a tavolino, a Mohamed Ali fu data la chance di riconquistarlo.
Il 30 ottobre di quell’anno, a Kinshasa, nel cuore dell’Africa Nera, in un match epico Ali tornò campione del mondo. Il pubblico, non solo sul posto e non solo di pelle nera, era in buona parte per lui, mentre abbatteva Foreman. I neri congolesi gli gridavano Ali boumayeAli uccidilo, perché per loro lui era il vero campione. L’altro, come Frazier, come Norton, come tutti gli altri, era solo un burattino dei bianchi.
Nei quattro anni successivi, sostenne combattimenti durissimi con gli avversari del momento, per ribadire che il più grande era ancora lui. In particolare, fu tremendo lo scontro con Shavers ed alle sue conseguenze in termini di danni cerebrali molti fanno risalire la malattia di cui Ali avrebbe sofferto in seguito.
Si ritirò definitivamente nel 1980, quando ormai l’America era profondamente cambiata e nessuno aveva più problemi a celebrare la sua leggenda. Adesso i neri d’America non sono più segregati, e nemmeno quelli africani.
Dopo la morte di Malcom X e Martin Luther King, Ali è stato il loro rappresentante più famoso, insieme a Nelson Mandela. Lo si capì quando ad Atlanta 1996 fu chiamato a inaugurare le Olimpiadi a furor di popolo. Purtroppo, era già evidente che il Morbo di Parkinson non gli avrebbe lasciato vivere una vecchiaia felice. Come non era stata felice, per altri motivi, la sua giovinezza.
Come Mandela a Johannesburg nel 2010 in occasione dei primi mondiali di calcio africani, a Londra Alì era apparso come un vecchio signore che ormai combatteva a fatica una condizione fisica estrema. Eppure aveva voluto essere lì, un’altra volta, affrontando quello che il destino gli metteva davanti, senza paura.
2012, a Londra con la fiaccola olimpica
Ai tempi d’oro, la sua mente era addirittura più veloce delle sue stesse braccia appesantite dai guantoni. Il suo corpo se l’era portato via a poco a poco il Parkinson, fino all’ultima crisi che stanotte gli ha tolto l’ultimo respiro. Ma la sua mente c’è da giurare che c’è stata, eccome, fino all’ultimo. Perché il Parkinson fa così. Ti lascia vivere i tuoi ultimi anni di vita dolorosamente, ma appieno. Alì ha fatto in tempo a vedere il primo Presidente di colore della storia degli Stati Uniti. Ma soprattutto ha visto la folla variopinta di atleti e ragazzi di tutti i colori stringersi insieme l’uno all’altro per festeggiare una nuova festa di sport e di vita. Ha mancato Rio de Janeiro per pochi mesi, ma non ne aveva bisogno. Sapeva da tempo di aver vinto la sua battaglia, lui, Muhammad Alì, il più grande.

Boumaye, Ali. Addio campione. Sarai sempre il più grande, per il tempo a venire.


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