lunedì 20 giugno 2016

Non moriremo PD



Il ballottaggio delle Amministrative 2016 ci riconsegna un’Italia dove perché tutto cambi stavolta qualcosa deve cambiare davvero, per parafrasare il celebre adagio di Tomasi di Lampedusa. Qualcosa sta già cambiando.
Alle una di notte del 20 giugno, quando escono le prime proiezioni attendibili (che confermano exit poll già affidabili) ed il Movimento 5 Stelle sa con certezza di aver sfondato a Roma, Torino e in altri 17 ballottaggi sui 18 in cui erano impegnati, Beppe Grillo si affaccia alla finestra della stanza all’Hotel Forum di Roma, dove ha stabilito il quartier generale di se stesso. Senza parole – come ormai è consuetudine da quando è scomparso il suo partner Casaleggio ed è partita questa lunga campagna elettorale – brandendo in mano un appendiabiti che è più eloquente di ogni dichiarazione.
Nello stesso momento, al quartier generale del Movimento, un tifo da stadio accoglie Virginia Raggi, la prima donna sindaco della Capitale. Sin-da-co, Sin-da-co, Sin-da-co di Roma, Virginia Raggi Sin-da-co di Roma! I 5Stelle hanno appena vinto uno storico derby contro il PD di Giachetti. Al triplice fischio della chiusura dei seggi divampa la festa tanto attesa.
Virginia Raggi prima donna sindaco di Roma
Più in la, Luigi Di Maio cerca di essere istituzionale, nel momento in cui il popolo delle Cinque Stelle potrebbe fare salti di gioia come quelli che a Napoli un De Magistris in formato Masaniello sta facendo sull’onda dell’unico risultato che in termini numerici può reggere il confronto con quello della Raggi. Roma e Napoli sono le due facce stravolte di un disagio urbano che ormai tracima dai confini istituzionali. Un rabbioso voto di protesta di segno diverso, un certificato di morte per la politica così come l’abbiamo conosciuta finora.
Hanno un bel dire i PD che si tratta solo di un voto amministrativo. Lo diceva Casaleggio, lo ripete Di Maio ai microfoni post-elettorali: se il Movimento vince a Roma, è l’anticamera di Palazzo Chigi. Il Movimento versione 2.0 da stanotte ha l’onore e l’onere di rimettere in piedi la capitale dopo anni di dissesto bipartisan. Sapendo che se ci riesce subito dopo avrà l’onore e l’onere di fare altrettanto con il paese.
L’appendino di Grillo allude al risultato di Torino. L’omonima candidata grillina ha rimontato e surclassato il democratico storico Fassino, che adesso vaga per microfoni senza capacitarsi, dando tutta la misura della scollatura ormai insanabile tra il suo partito e il paese. Se Roma era quasi scontata (ma non nelle proporzioni con cui la Raggi ha conquistato il Campidoglio), Torino è la sorpresa vera. Il risultato che impedisce al PD di uscirsene con la solita formula di rito, abbiamo tenuto, e lo costringe ad ammettere una sconfitta senza se e senza ma.
Chiara Appendino neo-sindaco di Torino
La vecchia capitale operaia del paese, la città dove l’antico Partito Comunista misurava più che altrove tenute e avanzamenti, si scopre esausta del post-comunismo soprattutto in quei quartieri dove la classe operaia ancora sopravvive. Non basta la borghesia radical chic ancora osservante della liturgia (pur a collo torto verso la vulgata renziana) a ripetere il risultato di Milano, dove Sala sfrutta una onda lunga dell’Expo su cui bisognerebbe interrogarsi, per salvare la nottata dei democratici.
Sala sopravanza Parisi di una incollatura, ma è quanto basta. La metà più uno dei milanesi che vanno a votare si dicono in qualche modo soddisfatti di cinque anni di gestione Pisapia. Agli altri, soprattutto – come rimarca Salvini – a quel mezzo milione circa di elettori meneghini di centrodestra che non sono andati a votare rispetto al primo turno, i prossimi cinque anni serviranno per capire se l’astensione è bene o male.
Nel paese, complessivamente, un italiano su due è rimasto fuori dai seggi. E’ il partito che vince realmente questa consultazione elettorale, ed è un mandato politico di difficilissima gestione.
Per parte sua, il partito democratico deve aver mobilitato come suo costume tutti coloro che erano in grado di reggersi su due gambe e di rispondere al richiamo delle sirene del Nazareno. A Trieste, il candidato della sinistra nostrana ed etnica Cosolini (la regione è a statuto speciale e le guarentigie alla minoranza slovena superano addirittura quelle dei sudtirolesi in Alto Adige) dimezza lo svantaggio iniziale rispetto al candidato unico del centrodestra Di Piazza. Memori della elezione della governatrice Serracchiani nel 2013, è da immaginarsi che ci sia stato addirittura un bel traffico di pullman tra la Venezia Giulia e la ex Jugoslavia.
Tiene Bologna, roccaforte assieme ad una Firenze che stavolta non votava di un partito che nel resto d’Italia rischia l’estinzione e abbisogna forse di essere dichiarato specie protetta dal W.W.F. Il sindaco felsineo uscente, riconfermato al 54%, si chiama Merola. In realtà la sceneggiata va in onda in quel di Napoli, dove De Magistris si conferma fenomeno indecifrabile. L’ex magistrato governa come Masaniello e si comporta come tale, rivendicando una vittoria contro tutto e contro tutti. Anche qui, ai prossimi cinque anni l’ardua sentenza.
Adesso viene il momento più difficile, per tutti. Sia per chi è uscito dalla rabbia e dalla protesta, sia per chi è sopravvissuto sull’onda di un vero o presunto buongoverno. E’ il momento, appunto, di governare. Perché le nostre città grandi e piccole ne hanno bisogno. E perché il prossimo appuntamento è politico. Ad ottobre il referendum pro o contro l’attuale esecutivo, ed en passant pro o contro la riforma della Costituzione che questo ha imposto al paese. Poi le elezioni. Le prime che dovrebbero partorire bene o male un esecutivo rappresentativo dal 2008 a questa parte.
Ci sarà ancora Matteo Renzi a tweettare, pardon, a governare su tutto ciò? Il premier si è ricordato stanotte di essere segretario del partito che ha perso e ha convocato il direttivo per il prossimo 24 giugno. Non ha l’aria di essere un Gran Consiglio, come quello che si riunì il 24 luglio di qualche anno fa. Ma insomma al Nazareno confluiranno diversi personaggi che hanno voglia – e da tempo – di presentare il conto all’ex ragazzo prodigio di Rignano sull’Arno. E zanne affilate come tigri dai denti di sciabola. Forse potrebbero trovare l’occasione per presentare quel conto.
Il 24 giugno è San Giovanni. L’ex sindaco di Firenze dovrebbe ricordare che da queste parti si usa dire che San Giovanni non vuole inganni. Non più, almeno.

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