Esce in
versione restaurata e rimasterizzata uno dei capolavori assoluti del cinema
mondiale. Lawrence d’Arabia è uno dei masterpiece di un regista che ha
prodotto soltanto masterpieces, quel David Lean che aveva già girato il Ponte sul Fiume Kwai e che avrebbe
proseguito con il Dottor Zivago, La figlia di Ryan e Passaggio in India.
Nel 1962,
il kolossal interpretato da Peter O’Toole, Alec Guinness, Anthony Quinn,
Anthony Quayle, Omar Sharif, e scusate se
ho dimenticato qualcuno, vinse sette Premi Oscar, tra cui quello per il miglior
film e quello per la miglior regia, seguiti l’anno dopo da cinque Golden Globe
e da un Grammy Award a Maurice Jarre per quella splendida colonna sonora che a distanza
di cinquant’anni ancora oggi commuove l’immaginario di chi lascia volare la
propria fantasia verso il Medio Oriente.
Il film
che Steven Spielberg ha definito «un miracolo, lo riguardo sempre prima di
cominciare delle riprese», e che è stato inserito sia dal British che
dall’American Film Institute ai primissimi posti della classifica dei migliori
film del XX secolo, è tratto da quello che all’epoca fu un best seller di
successo, I sette pilastri della
saggezza, libro di memorie autobiografiche di uno dei personaggi più
straordinari della storia moderna, il tenente colonnello dell’esercito inglese
al tempo della Prima Guerra Mondiale Thomas Edward Lawrence, altrimenti
conosciuto come – appunto – Lawrence d’Arabia.
Il
colonnello Lawrence, in origine semplice ufficiale dell’esercito britannico
impegnato in Palestina inviato in missione presso le tribù arabe per spingerle
a sollevarsi contro i loro dominatori di allora, i Turchi Ottomani alleati di
Germania ed Austria, grazie alle sue imprese che andarono ben al di là del
mandato ricevuto dal generale Allenby diventò ben presto l’eroe della rivolta
araba, riuscendo a compattare dietro di sé un intero popolo che non aveva
goduto di nessuna libertà, dopo i secoli d’oro. Ma soprattutto eccitò la
fantasia dell’opinione pubblica mondiale a tal punto da diventare l’unico vero
eroe romantico di una guerra che di eroi e di romanticismo ne ebbe ben pochi.
Lawrence,
negli anni in cui si moriva nelle trincee sulla Somme, sul Carso, sulle
Ardenne, e si veniva più che altro sterminati dal gas nervino in posti come
Yprés, si rivelò un condottiero degno di altri tempi, un Garibaldi della
penisola araba. E, stando alla fedele rappresentazione sullo schermo operata
dal maestro David Lean, addirittura forse un archetipo dell’uomo occidentale,
imbevuto sì di cultura classica e quindi di ammirazione anche per quella araba
del periodo aureo (prima che soldato e condottiero era stato archeologo e
grecista, avendo curato una traduzione in proprio dell’Odissea di Omero)
ma permeato di valori tipici di quell’individuo che, da quell’Ulisse che lui
conosceva così bene in poi, avevano fatto progredire la civiltà inglese ed occidentale
oltre ogni limite, se non quello che l’uomo stesso accetta di porsi.
Riassumere
la trama di un film come Lawrence d’Arabia è impossibile, come lo è riassumere
la vita avventurosa di un uomo che ha fatto la storia dell’occidente e
dell’oriente, dalla conquista del forte di Aqaba (decisivo per il controllo del
Mar Rosso) fino al suo esautoramento a Damasco, quando la realpolitik che
voleva l’Arabia Saudita nelle mani della dinastia di re Faisal in cambio dei
Protettorati francese e Britannico su Siria e Palestina si scontrò
irrimediabilmente con il suo sogno di autodeterminazione per le tribù arabe che
non capivano nemmeno il significato di questa parola. Lawrence, sconfitto ma
pago di quanto aveva fatto, fu rimpatriato in Inghilterra dove cercò nuove
imprese, in un mondo che cambiava diventando più moderno, ma non
necessariamente più gradevole.
Nel 1935
trovò il suo destino mentre alla guida della sua moto assecondava l’ultima
delle sue passioni cercando di superare un nuovo limite, quello di velocità. E’
la scena con cui si apre il film, che ripercorre la sua vita nel ricordo dei
presenti alla sua cerimonia funebre. Ma la scena chiave, per chi ha colto
l’essenza del personaggio, è quella in cui viene decisa l’impresa di Aqaba, che
prevede l’attraversamento della parte più tremenda del deserto del Sinai, il
Nefud. Un preoccupatissimo Omar Sharif, sceicco musulmano osservante ancorché
già affascinato da quel bianco fuori del comune per cui avverte già un
sentimento di ammirazione ed amicizia, gli dice: “Non puoi farlo, è scritto! Il
Nefud non può essere passato!”
E
Lawrence, dall’alto dei suoi tremila anni di storia cominciati quel giorno in
cui Ulisse si presentò di fronte alle Colonne d’Ercole, e non si fermò,
risponde: «Io lo farò. Perché è scritto qui». E indica la sua testa.
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