E’ morto a Napoli, la città di
cui tutti gli argentini si innamorano, prima o dopo Maradona. A Napoli aveva
raggiunto il secondo posto da allenatore, il miglior risultato assoluto prima
dell’avvento di Diego Armando. Da Napoli era poi arrivato a Firenze, nell’estate
in cui Nello Baglini puntò tutto sulla ruota dell’imprevedibilità e del genio
imprenditoriale. E vinse.
Per diversi anni la Fiorentina
ye-ye di Giuseppe Chiappella aveva entusiasmato tifosi e addetti ai lavori,
sembrando in grado addirittura di ripetere la favolosa epopea dei tempi di
Befani. Poi, nel 1967-68 qualcosa si era inceppato nella linea verde e nel
rapporto tra il soldatino di Rogoredo e l’imprenditore pisano dei colori. Beppe
Chiappella aveva dato le dimissioni a metà di un campionato nato male e
continuato peggio. Baglini aveva affidato la squadra a Luigi Ferrero,
allenatore del Grande Torino che si era salvato dalla tragedia di Superga solo
perché nel 1947 era venuto a Firenze ad allenare la squadra del Marchese
Ridolfi. Assieme a lui, in panchina andò il compianto Andrea Bassi, allenatore
emergente e gentleman per chi ha avuto l’onore di conoscerlo. Bassi e Ferrero
fecero il miracolo di issare quella Fiorentina al quarto posto.
Poi in estate una nuova tempesta.
L’anno prima Kurt Hamrin era andato al Milan in cambio di Amarildo. “Uccellino”
a quell’epoca era il più grande centravanti del mondo, una specie di Batistuta
dell’epoca (non a caso Omar Gabriel è stato l’unico a sopravanzare Kurt nella
classifica dei marcatori viola di tutti i tempi). Nel 1968 anche l portiere
della nazionale Enrico Albertosi ed il promettente attaccante Mario Brugnera
partirono, destinazione Cagliari. Vox populi a Firenze dava la nostra squadra
del cuore candidata sicura alla B, pazienza che fossero nel frattempo arrivati
un certo Amarildo dal Milan (campione del mondo 1962 al posto di Pelé) ed un
certo Luciano Chiarugi dalla Primavera.
Per rincuorare la piazza, o
almeno provarci, Nello Baglini si tirò fuori dal cilindro il “Petisso”, il
Piccoletto. Bruno Pesaola era uno di quegli argentini che si immaginano
accompagnati dalla colonna sonora di un tango alla Astor Piazzolla. Sempre con
la sigaretta in bocca, precursore del “Flaco” Cesar Luis Menoti, agli antipodi
del fanatico connazionale Helenio Herrera (un Arrigo Sacchi sudamericano che
allora andava per la maggiore grazie alla Grande Inter di Moratti padre). O del
paron Nereo Rocco, il teorico di “o palla o gamba, meglio se palla”, che
comunque era venuto a patti con il talento di Rivera e aveva vinto le prime due
Coppe dei Campioni italiane.
Ai fiorentini, questo argentino
con l’espressione da viveur di notti brave platensi non piacque per niente,
manco a dirlo. Ed il mantra “quest’anno è la volta buona che si va in B” proseguì
imperterrito fino alla quinta giornata del campionato 1968-69. In quella
occasione la Fiorentina perse in casa 3-1 dal Bologna. La torcida viola
cominciò a mugugnare talmente forte che ci volle tutto il carattere di Baglini
per tenere duro. Il mago dei colori ebbe ragione. Quella fu l’unica sconfitta
della sua Fiorentina in tutto il campionato, che andò a finire come tutti
sanno: “Qui Torino, la Fiorentina è campione d’Italia”. Quell’11 maggio 1969,
all’annuncio della vittoria viola decisiva per 2-0 in casa nientemeno della
Juventus, migliaia di radioline volarono in aria a giro per Firenze.
Il Petisso entrò nella storia
della Fiorentina, ma non nel cuore di Firenze. L’anno dopo non bastarono una
difesa onorevole del titolo contro il Cagliari di Gigi Riva ed il Milan di
Gianni Rivera. Non bastarono i quarti di finale di Coppa dei Campioni,
risultato mai più eguagliato e secondo solo alla finale del 1957 persa contro
il Real Madrid immeritatamente. L’anno dopo ancora, quando di nuovo la squadra
viola conobbe le sabbie mobili della zona retrocessione, il malcontento di
Firenze esplose. Dopo quel Dante Alighieri di cui ricorre in questi giorni il
settecentocinquantesimo anniversario della nascita, Firenze esiliò anche Bruno Pesaola,
l’ultimo “conducador” che le ha dato un trofeo di quelli da caroselli in auto
per tutta la notte.
Come Dante Alighieri, non è morto
a Firenze Bruno Pesaola, ma in quella Napoli che l’aveva accolto e – come molti
altri argentini prima e dopo – mai rinnegato. Adiòs Petisso, a Firenze hanno
contestato anche te. Ti sia lieve la terra, sulla tua bara c’è quel secondo ed
ultimo scudetto vinto per una città che dopo di te ha celebrato quasi soltanto
una montagna di discorsi.