Gli occhi di Corrado
Barazzutti tradiscono sul suo volto dolorosamente invecchiato una vita
di passione sportiva condensata negli interminabili e drammatici scambi di
questo Argentina – Italia, diventato improvvisamente un crocevia
del destino per un movimento sportivo che insegue una rinascita, un ritorno di
fiamma sempre più lontani, malgrado questa vittoria per vari motivi alla fine
insperata.
L'abbraccio finale tra Barazzutti e Fognini |
In campo, Fabio Fognini
detto Psycho fa una volta di più tutto quello che un tennista non
dovrebbe fare, e va a finire che forse vince proprio per quello, dopo aver
constatato l’impossibilità, la propria idiosincrasia a giocare un match normale,
a rispettare comunque un pronostico. La maratona finale nella gazzarra del Parque
Sarmiento consegna l’Italia ai quarti di finale di Coppa Davis,
un traguardo che una volta – tanti anni fa, all’epoca gloriosa di quell’uomo
segnato dal tempo che ora siede in panchina come capitano non giocatore – era
il minimo sindacale per il nostro tennis, e che ora invece va salutato come
un’impresa prodigiosa. Tanto più perché compiuta nella tana del nemico,
a Buenos Aires, in casa dell’avversario più nazionalista, orgoglioso,
irriducibile e casinista che esista al mondo. E perché compiuta da protagonisti
che una volta di più si erano dimostrati non all’altezza, vanificando i doni
che la sorte aveva elargito stavolta.
L’Argentina che avevamo di fronte era la
squadra C, malgrado fosse campione in carica, detentrice dell’Insalatiera
che faceva infatti bella mostra di sé al Parque. Fuori Del
Potro e Delbonis, gli eroi di Zagabria. Fuori anche
le seconde linee Monaco, Zeballos e Schwartzman,
l’Albiceleste messa in campo da Daniel Orsanic era
composta di terze scelte come Leonardo Mayer e Diego
Pella e di un quasi ex giocatore come l’incredibile Carlos
Berlocq, che a 34 anni ha avuto la forza di riproporsi come salvatore
della patria nonché il coraggio di riprendere pubblicamente un tifoso
d’eccezione come Diego Armando Maradona, presente al Parque
come ad ogni manifestazione in cui la sua nazionale gioca contro quella
italiana, a mantenere viva – nel modo più scomposto possibile – una rivalità
che risale a Italia 90.
Assai poco consono al tennis, il tifo di Dieguito
ha finito per disturbare lo stesso Berlocq prima ancora che gli avversari
azzurri. La Hinchada porteña invece è stata ben accetta e ha sostenuto
la quasi rimonta argentina per tutti e quattro i giorni della maratona conclusa
da Fognini al quinto ed ultimo set dell’ultimo incontro. Per chi si lamenta
della scarsa sportività dei sudamericani – considerato che l’epoca dei gesti
bianchi in questo sport è trascorsa da un pezzo -, ricordarsi di cosa
succedeva qualche anno fa, sempre all’epoca dell’uomo che ora siede in
panchina, per capirsi, in luoghi come il Foro Italico di Roma.
Corrado Barazzutti accanto alla Coppa che vinse nel 1976 |
E' un mestiere difficile quello del capitano
non giocatore. Corrado ormai parla con gli occhi, nei quali si alternano
la mestizia per le condizioni attuali del nostro tennis, la stanchezza per una
vita trascorsa in campo e a bordo campo ad inseguire sogni che si sono avverati
una volta sola, a Santiago del Cile nel 1976, e solo occasionalmente qualcuno
di quei lampi che gli si accendevano all’epoca in cui tutti lo conoscevano come
il Soldatino, e nessun avversario si augurava mai di incontrarlo.
Quei lampi che adesso si accendono soltanto, c’è da credergli, allorché come
tutti noi vorrebbe strozzare qualcuno dei suoi e nostri beniamini
quando maltrattano il tennis e sprecano le occasioni come in questi giorni.
L’Italia dei pallettari e dei
talenti incostanti va sul due a zero venerdi, sfruttando la sufficiente
consistenza di Lorenzi contro un Pella preso
a freddo e poi la solidità di Seppi contro un Berlocq che
ancora non è ridiventato Berlocq e più frastornato che sostenuto dagli urlacci
di Maradona & compagni. Nel doppio, Bolelli ha il tocco di
palla di un tagliaboschi e Fognini la saldezza di nervi di un neuropatico, così
Berlocq diventa il Maradona del tennis e Mayer gli va dietro
anche su una gamba sola. Sul 7-6 al tie break finale, Fognini commette
l’ultimo di una serie di errori allucinanti e spreca l’unico match ball,
consegnando agli argentini il primo punto di una rimonta in cui non credevano
nemmeno loro.
Domenica, la pioggia aiuta l’uomo che ha
giocato di più, Berlocq, tirandolo fuori da un paio di sovraffaticamenti al
momento giusto. Lorenzi ha carattere pari alla classe, cioè poco, e va in crisi
puntualmente durante il crescendo parossistico dell’avversario. Gli occhi del
romano naturalizzato senese – come quelli del ligure marito di Flavia
Pennetta il giorno prima – sono quelli dello sconfitto ben prima che
si arrivi alle strette finali del rispettivo incontro.
Lunedi, Barazzutti vorrebbe tanto
selezionare se stesso. Non potendo, deve scegliere dall’alto della sua lunga
esperienza di fighter, di match winner, di coach di
lungo corso, tra Andreas Seppi poco genio ma nessuna
sregolatezza e Fabio Fognini detto Psycho. Capitano coraggioso, manda
in campo il meno affidabile e, occasionalmente, il più talentuoso.
Per i primi due set viene voglia di
chiedersi da quando il Soldatino si sia convertito all’estro, e subito
dopo di maledire quel momento. Il nostro portacolori in campo ne combina di
tutti i colori sbagliando lo sbagliabile e finendo travolto da un Pella che
sembra Andre Agassi. Neuro Fognini ricorda tanto il
peggior Paolo Cané, che litigava con tutto il mondo pur di non
prendersela con se stesso, una specie di manuale del tennis a rovescio. E
finiva a perdere match che gridavano vendetta. Questo, poi, a perderlo ci attirerebbe
lo scherno argentino per i secoli a venire, battuti dalle riserve delle
riserve.
In panchina, parlano gli occhi in quel
volto segnato dal tempo e dalle battaglie, reso epico da quella barba bianca
che ricopre una mascella che quando si induriva – ai suoi tempi – intimoriva
qualsiasi avversario. Gli argentini di quei tempi si chiamavano Guillermo
Vilas e José Luis Clerc, immaginate Del Potro e
Delbonis con il doppio, il triplo del talento. Gli occhi del Soldatino
forse sovrappongono quelle antiche battaglie a quella che sta avendo luogo
adesso sulla terra rossa di Buenos Aires. Per questo si illuminano come lampi
di un uragano, di tanto in tanto. O forse perché vorrebbe serrare le mani al
collo di quel Fognini a cui ha dato fiducia, e che lo sta ripagando con così
tanta inettitudine?
Fabio Fognini in azione |
Sta di fatto che il signor Pennetta
risorge nel modo più anticonvenzionale. Litigando con arbitro e pubblico, di
solito ci si perde definitivamente. E’ una fuga psicologica da se stessi, una
resa anticipata con tanto di abbandono a pretesti esterni che consentono di non
guardarsi dentro, non dare la colpa all’unico vero responsabile. Ma Fognini, è
anche vero, di questa squadra è l’unico che sa giocare a tennis. Pella comincia
a tirare il fiato, trovandosi un po’ meno dentro il campo e con il controllo
del gioco. Maradona perde il tempo della claque ed il Parque
Sarmiento formato Hinchada si rende conto che il momento magico è
finito, il sogno pure. La realtà incombe, e l’unico vero giocatore di tennis
azzurro, ancorché psicolabile, si è ricordato come si fa. Per il ragazzo di
casa non c’è più speranza.
Finisce 6-2 al quinto, con la squadra
italiana che si abbraccia in mezzo al campo sotto gli occhi stralunati degli
ammutoliti argentini. Sembra di essere tornati a Santiago, e quel Soldatino
affranto cessa di colpo di assomigliare al Vecchio di Hemingway
e ritorna quello che faceva paura a Vilas.
Si va a Bruxelles, non all’Unione Europea
ma a giocarsi i quarti di Coppa Davis. Con una squadra capace di tutto,
dall’impresa più clamorosa alla debacle più mortificante.
Il tifo "calcistico" di Diego Maradona |
Caro Soldatino, non rivedremo
più una squadra come quella dove giocavi tu, ormai lo sappiamo. Ce lo sentiamo
addosso. Lo sport è una metafora della vita di un paese, ed il nostro di paesi
è da tanto che sta ammainando bandiera. Gli argentini, per quanto sconfitti, ci
suscitano invidia per quel loro indomabile orgoglio, per quel loro
inestinguibile nazionalismo, loro che hanno cominciato ad essere una nazione
circa tremila anni dopo di noi.
Di questo sport che simboleggia il
declino del nostro paese il tennis è stato l’apripista. Siamo spariti dagli
Albi d’Oro da decenni, dimenticarsi di Barazzutti, di Panatta,
di Bertolucci, Zugarelli, Ocleppo.
Dimenticarsi anche di Gaudenzi, Furlan, Camporese,
che almeno sul piano della consistenza erano arrivati a farci illudere di una
seconda primavera.
Siamo un paese che non ha più movimenti
sportivi. Dove i ragazzi partono battuti rispetto ai loro coetanei stranieri in
tanti campi, non solo in quelli agonistici. Un paese dove la televisione e la
radio di stato non si sentono in dovere di dedicare un minuto alla cronaca di
un evento che bene o male segna la rimessa della testa fuori dall’acqua, in uno
sport che una volta fermava l’Italia quasi quanto il calcio. Adesso, la maggior
parte non sapeva nemmeno che si giocava, con chi e perché.
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