martedì 31 dicembre 2013

Frozen Il Regno del Ghiaccio, dove giace sepolta la magia Disney

Feste di Natale, tempo di cinema a cartoni animati. L'umanità si riscopre divisa in due categorie: chi ha un bambino e chi è rimasto bambino. Per entrambe, da 90 anni esatti a questa parte (il compleanno aziendale cadeva lo scorso 13 ottobre) il miglior amico si chiama Walt Disney. La fabbrica dei sogni creata dal grande cartoonist americano raramente ha mancato l'appuntamento natalizio per alimentare la fantasia di grandi e piccini con qualche nuovo capolavoro dell'arte fumettistica applicata al cinema.
Anche quest'anno, la Company che per lungo tempo è stata la più importante (oltre che la prima in assoluto) nel settore dell'animazione ha voluto essere presente nel periodo natalizio con una sua produzione. Stavolta la scelta è caduta di nuovo su una delle fiabe classiche della cultura nordica. Da quando esiste la Walt Disney, del resto, i Fratelli Grimm ed Hans Christian Andersen sono stati la principale fonte di ispirazione dei suoi disegnatori, che hanno trasferito sul grande schermo l'immaginario di più generazioni venute su con le favole della buona notte scritte dai maestri del nord Europa.
Frozen Il Regno di Ghiaccio, 53° lungometraggio distribuito dai Walt Disney Animation Studios, è ispirato alla fiaba di Andersen La Regina delle Nevi. La storia della principessa che non riesce a dominare il suo potere di creare e manipolare ghiaccio e neve e che rischia di condannare il suo paese ad una tragica fine sotto il gelo perenne dell'inverno sembra fatta apposta per rispolverare temi ed archetipi cari alla factory di Burbank, California.
La magia che si rivela insieme dono prezioso e dannazione mortale per chi la possiede e per chi la subisce, l'infanzia abbandonata da genitori troppo presto scomparsi (loro malgrado) e che si trova a dover crescere troppo in fretta e a caro prezzo, il bene ed il male che si incarnano negli amici per la pelle incontrati lungo la strada e nei nemici di cui solo alla fine si riesce ad aver ragione e solo quando tutto sembra ormai perduto, le atmosfere da saga nordica arricchite da una grafica immaginifica e di grande effetto e da una colonna sonora che diventa un tutt'uno inscindibile con il disegno animato, tutti gli ingredienti di questa fiaba del gelo che alla fine viene sciolto – come nelle migliori tradizioni da Biancaneve e i Sette Nani in poi – soltanto da uno slancio supremo del cuore ("l'unico organo con cui non si può ragionare", come spiegano i Troll alla Principessa di Ghiaccio) attingono direttamente alla "poetica" disneyana e sembrano riportare ai fasti del periodo aureo, quello antecedente alla scomparsa del fondatore avvenuta nel dicembre 1966, o a quelli della rinascita avvenuta negli anni 90 sotto la direzione del nipote Roy e del manager Eisner.
Insomma, la leggenda continua, verrebbe da dire, malgrado anche Roy Disney ormai sia andato a raggiungere il padre Walt sulla sua nuvoletta nel paradiso degli artisti. Proprio nell'anno in cui questo accadeva, il 2009, la Disney diventata ormai una holding a tutti gli effetti compiva il primo passo della sua nuova politica di realizzazione di un destino imperiale acquistando la Marvel. La Pixar era già sua da cinque anni, e tre anni dopo sarebbe arrivato il colpaccio, con l'acquisizione della LucasFilm. Sull'Impero Disney ormai non tramonta più il sole, malgrado la concorrenza di altre aziende agguerrite come la Dreamworks.
Un futuro roseo, favorito dall'avvento della nuova tecnologia veicolata dai computers. Non resta che mettersi comodi in attesa dell'uscita del prossimo Supereroe, del nuovo capitolo della Saga dei Cavalieri Jedi di Star Wars o dell'ennesimo prodotto della mente fervida degli animatori californiani. Eppure, a ben vedere, come in ogni epopea fantasy che si rispetti, alla fine la magia sta lasciando – probabilmente per sempre – le terre dell'Impero.
Non solo la tecnologia, ma anche la fantasia dei bambini di oggi (piccoli o grandi) è profondamente cambiata. Dai tempi in cui Topolino fece la sua prima comparsa nel 1928 (in quello Steambot Willie i cui fotogrammi sono stati rispolverati di recente nel logo della factory), e anche dai tempi in cui Semola estraeva la Spada nella Roccia, Mowgli cercava di sfuggire alle grinfie di Shere-Khan o Romeo aiutava gli Aristogatti a ritornare a casa loro evitando il malvagio Edgar, ne è passata di acqua sotto ai ponti. E sembrano lontanissimi anche i tempi in cui Simba reclamava il posto del padre sulla Roccia dei Re, o Pocahontas incontrava nel Nuovo Mondo il suo amore venuto dal Vecchio, John Smith.
Da dieci anni ormai i personaggi dei cartoon Disney non escono più dalla matita dei disegnatori ma piuttosto dai programmi di animazione grafica dei computers. Per disegnare Biancaneve e portarla sullo schermo ci vollero tre anni del lavoro di una squadra di circa dieci disegnatori. Per Il regno del Ghiaccio c'è voluto molto meno, un anno scarso ma del lavoro di un esercito di informatici. Il risultato è come sempre un prodotto di fattura eccellente, realizzato alla perfezione nei minimi dettagli. Ma al quale purtroppo ormai manca la cosa principale. Proprio quella che i Troll indicano alla principessa come l'unico rimedio salvifico: il cuore.
I bambini ameranno sicuramente la renna Sven ed il pupazzo di neve Olaf allo stesso modo di come hanno amato i loro predecessori, dal granchio rosso che accompagnava la Sirenetta Ariel, a Timon e Pumba fedeli compagni del leoncino Simba al piccolo drago Muchu inseparabile scudiero di Mulan. Ma difficilmente la storia del paese dei ghiacci resterà nel cuore degli spettatori grandi o piccoli. La Walt Disney sembra seguire il destino di un cinema in cui dominano ormai gli effetti speciali, nel momento in cui forse l'anima ne esce irrimediabilmente.

"Se puoi sognarlo, puoi farlo", era il motto di Walt Disney. I suoi eredi ormai hanno mezzi per fare veramente tutto. Ma i sogni e l'anima del loro predecessore, forse, non li posseggono più.

domenica 15 dicembre 2013

Addio Peter O'Toole, Lawrence d'Arabia

Era irlandese di Connemara, nella Contea di Galway nell’Irlanda occidentale. E’ stato uno degli attori più british della storia del cinema, e insieme uno dei più universali e versatili. Ha dato il proprio volto e il proprio spirito a uno dei personaggi più mitici della storia, della letteratura, dell’immaginario collettivo dell’Occidente, quel Thomas Edward Lawrence con cui 50 anni fa sotto la regia del grande David Lean arrivò ad immedesimarsi così bene da entrare insieme a lui a braccetto nella leggenda.


Lawrence d’Arabia era morto il 19 maggio 1935 a causa di un incidente di moto, quando ormai il mondo si stava dimenticando di colui che era stato l’eroe della rivolta araba contro l’Impero Ottomano, che aveva dato un contributo non secondario alla vittoria del suo paese e della Triplice Intesa nella Prima Guerra Mondiale ed in ultima analisi alla dissoluzione di un mondo ormai troppo vecchio ed alla nascita del mondo moderno. Peter O’Toole, colui che ha saputo raccontare la storia di quell’eroe meglio di chiunque altro alla sensibilità di quel mondo moderno, è morto ieri a Londra al Wellington Hospital dove era ricoverato, all’età di 81 anni.
Lawrence era stato il capolavoro suo e di David Lean, ma se il regista era stato premiato subito con l’Oscar l’attore invece aveva dovuto aspettare il 2003 per riceverne uno alla carriera dapprima rifiutato sdegnosamente (“non sono ancora morto”) e poi accettato su pressioni della famiglia. Almeno 8 volte aveva ricevuto la nomination, ma mai era stato premiato per una delle sue tante interpretazioni magistrali. Aveva prestato la sua faccia e la sua inquietante follia espressiva a personaggi come l’eroe negativo o quantomeno controverso di Joseph Conrad, Lord Jim, o il perverso generale nazista della Notte dei Generali, dove aveva ritrovato il grande Omar Sharif. Lo struggente professore di scuola di Goodbye Mr. Chips e il grande re d’Inghilterra e conquistatore di Francia Enrico II nel teatrale Leone d’Inverno, dove si era rubato la scena con Katharine Hepburn. Imperatore Tiberio nel Caligola di Tinto Brass e precettore dell’Ultimo Imperatore della Cina, Pu Yi, nell’omonimo film di Bernardo Bertolucci, un altro che fece incetta di premi Oscar per tutti meno che per lui.
Al suo bel volto britannico si era ispirato nientemeno che Roberto Raviola, in arte Magnus, per disegnare le fattezze del personaggio dei fumetti più famoso partorito dalla mente di Luciano Secchi, in arte Max Bunker: quell’Alan Ford che ha accompagnato le letture di tanti adolescenti italiani nell’epoca d’oro in cui Peter O’Toole era un’icona di quel cinema d’autore che ha perso ieri uno dei suoi ultimi pezzi.

Sei fortunato che quando Dio ti fece pazzo ti dette anche una faccia da pazzo”, dice lo sceriffo Alì Ibn Al Kharish (interpretato da Omar Sharif) a Lawrence, a commento di una delle sue mirabolanti imprese in Arabia. Il modello si adattava al personaggio come all’attore, ed è forse è il premio alla carriera più gradito tra quanti se ne porta via con sé Peter O’Toole, che da oggi ha raggiunto il colonnello inglese in qualche oasi lassù nel cielo, dove realtà e fiction non hanno più distinzione.

martedì 10 dicembre 2013

RENZIADE: Il Nuovo è avanzato. E' l'ultima speranza?


Una valanga. E l'ultima speranza di un paese ridotto alla disperazione. Un anno dopo la sconfitta subita da parte di Pierluigi Bersani e dell'establishment, Matteo Renzi diventa segretario del Partito Democratico vincendo le primarie-bis con il 68% dei voti. I suoi avversari si fermano rispettivamente a 17,9% (Cuperlo) e 14% (Civati). Le percentuali sono relative ad un numero di elettori assolutamente insperato e inaspettato alla vigilia: tre milioni circa di elettori che nella giornata di ieri si sono presentati ai seggi-gazebo affinché la vittoria del Sindaco di Firenze fosse la più significativa, la più clamorosa possibile.
In Toscana, terra di origine del vincitore ma fino a ieri anche baluardo e roccaforte di quell'establishment stesso prima comunista, poi diessino e ora democratico che esce sconfitto da queste primarie, la percentuale di consensi espressi in favore del rottamatore sale addirittura al 78%.
Anche per il Partito Democratico, dopo il Popolo delle Libertà e la Lega Nord, finisce dunque una stagione politica durata oltre vent'anni. Ad andare in pensione, per decreto della base, non è però in questo caso un singolo leader (per quanto carismatico) ma un'intera classe dirigente, come ha commentato a botta calda il Sindaco di Torino Piero Fassino, che di quella classe dirigente ha fatto parte.
«E' ora di cambiare - ha commentato Renzi da parte sua -. Basta con gli alibi, c'è un sistema da scardinare» è il grido di guerra del Sindaco-segretario, che stamattina ha lasciato Palazzo Vecchio a Firenze diretto a Piazza sant'Anastasia a Roma, dove alle 15,30 si insedierà formalmente al comando delle truppe del Centrosinistra, nominando tra l'altro la sua squadra, con cui intende guidare il partito da ora fino alle future elezioni politiche. E qui comincerà – da subito - il difficile.
Come lo stesso Renzi non ha mancato di sottolineare, la sua vittoria ha mandato di traverso a "qualche politico di lungo corso" il brindisi iniziato la sera in cui la Corte Costituzionale ha annunciato la propria decisione circa l'incostituzionalità della legge elettorale, il Porcellum di Calderoli. La sottolineatura è corretta, e tuttavia implica chiaramente tutte le principali difficoltà che il neosegretario dovrà affrontare, all'interno del proprio partito prima ancora che nei confronti dell'intero paese.
I commentatori più attenti non hanno mancato di rilevare infatti che la bocciatura della legge elettorale è – per quanto legittima e condivisibile nella misura in cui ratifica quella che fu in sostanza la relazione di accompagnamento della legge 270/2005, secondo le parole del suo stesso presentatore Calderoli una porcata – di fatto è stato un assist oggettivo al sistema politico attuale ed al governo in carica. Imponendo al Parlamento di legiferare di nuovo in sostituzione della legge Calderoli (non potendosi in alternativa votare con il sistema attuale che è tornato di fatto al metodo proporzionale), la Corte ha volente o nolente messo in mano alla maggioranza delle larghe intese lo strumento per perpetuarsi all'infinito.
Il governo Letta ha la miglior garanzia di durata proprio nell'accertata mancanza di volontà di questo Parlamento (giuridicamente illegittimo per sentenza della Corte ma legittimato dal "principio di conservazione" sotteso a tutti gli atti legislativi ed amministrativi adottati nel nostro ordinamento, nonché agli organi che li adottano) di compiere qualsiasi tipo di riforma, men che meno quella elettorale che significherebbe a questo punto la sua stessa morte.
Di questa maggioranza, il PD che da oggi passa nelle mani di Renzi è un elemento cardine. Gli avversari da combattere per scardinare il sistema vigente sono principalmente al suo interno, e questo sarà un banco di prova non da poco. L'altra prova del fuoco la darà l'economia, o quello che ne rimane. Nell'Italia che sta scoprendo la protesta dei Forconi, le prime serrate e i primi scioperi selvaggi come non si vedevano più forse dai tempi dell'Autunno Caldo del 1969, la protesta più significativa contro lo stesso candidato segretario democratico l'hanno messa in atto gli addetti al servizio di trasporto pubblico della sua città di origine, che hanno enfatizzato in modo particolare una agitazione comunque di portata nazionale proprio a causa del malcontento che serpeggia tra loro nei confronti del Sindaco che ancora non ha rottamato niente, ma intanto ha già posto in liquidazione l'ATAF.
Comunque vada, il sistema politico è costretto a rimettersi in moto, per stare dietro ad un paese che gli sta trasmettendo gli ultimi segnali di disperazione ancora espressi con il linguaggio della legalità. Il consenso che si sta raccogliendo dietro a Matteo Renzi, dal mondo del lavoro a quello imprenditoriale, è enorme e significativo. Ed ha veramente pochi precedenti nella storia d'Italia. Qualcuno satiricamente ha definito le primarie del 2013 le prime della rinata Democrazia Cristiana. Qualcuno invece rispolvera, per sancirne lo scarso fondamento storico, lo slogan di Luigi Pintor del Manifesto: «non moriremo DC», con cui fu salutata a suo tempo la fine dell'esistenza terrena della cosiddetta Balena Bianca.
Sono aspetti che interessano forse più agli analisti politici, gli storici ed i giornalisti che non ai cittadini di questo paese, preoccupati più che mai semplicemente di non morire, senza alcun connotato. E che sperano di aver trovato ieri, forse, una nuova speranza. Probabilmente l'ultima.

venerdì 6 dicembre 2013

Addio Madiba


JOHANNESBURG (SUD AFRICA) - Stavolta è vero. L'uomo che era diventato il simbolo della lotta all'Apartheid in Sudafrica ed in generale all'oppressione nel mondo intero, uno degli uomini che avevano dato il loro volto al ventesimo secolo, non c'é più. Il grande cuore di Nelson Rolihlahla Mandela detto Madiba, il cuore dell'Africa nera ha cessato di battere ieri sera a Johannesburg, nella sua casa dove era ritornato a combattere la sua ultima battaglia su questa terra dopo l'ultimo ricovero in ospedale a Pretoria nei giorni del suo novantacinquesimo compleanno, quando già si era diffusa la voce prematura della sua dipartita.
A dare l'annuncio ieri sera, colui che gli era successo nella carica di Presidente del Sudafrica, Jacob Zuma, il quale – visibilmente commosso - ha sinteticamente espresso il sentimento del suo intero popolo con le parole “profonda gratitudine” e ha ordinato un lutto nazionale che prevedibilmente oggi si estenderà ben al di là dei confini del Sudafrica. Difficile dire oggi a che punto sarebbe la causa della gente di colore nel Continente Nero e non solo senza quei 27 anni trascorsi esemplarmente da Madiba nel carcere di Robben Island, durante i quali rifiutò sempre qualsiasi compromesso con la minoranza bianca segregazionista che guidava il paese e che l'aveva incarcerato in quanto leader dell'ala militare Umkhonto we Sizwe (Lancia della Nazione) dell'African National Congress, il partito che sosteneva la causa della libertà dei neri.
Non era stato gandhiano Mandela, aveva creduto anche nella lotta armata come via per il raggiungimento della libertà. Ma una volta liberato dal carcere, l'11 febbraio 1990 allorché Frederick Willem De Klerk – l'ultimo presidente bianco del Sudafrica – cedette alle pressioni internazionali restituendo la libertà al leader nero e di fatto ponendo fine all'Apartheid, la sua azione fu soltanto pacificatrice, riuscendo nel miracolo di guidare il suo paese nella transizione verso l'emancipazione della razza nera e verso l'integrazione delle componenti razziali senza praticamente sconvolgimenti né spargimento di sangue.
E al pari di quel Gandhi che era diventato a suo tempo l'icona della via non violenta alla libertà dei popoli oppressi, l'ex guerrigliero a cui il nonno aveva messo profeticamente il soprannome Rolihlahla (“colui che provoca guai”) era diventato uno dei volti positivi e leggendari del secolo in cui era vissuto, e uno dei modelli per gli anni a venire per chi avrà ancora da lottare contro l'oppressione.

Il Sudafrica osserverà adesso 12 giorni di lutto nazionale, prima dei funerali di Stato a cui è facile prevedere che parteciperà il mondo intero, non solo rappresentato dai capi di governo.

venerdì 22 novembre 2013

A mio figlio Giacomo

La notte che Giacomo nacque, eravamo andati in ospedale alle prime doglie. A quell’epoca la Maternità di Careggi non era tanto all’avanguardia (nemmeno adesso per la verità) e non mi fecero rimanere. Fui rispedito a casa, ad aspettare. Alle 4 di notte mi telefonarono che la mamma di Giacomo entrava in sala parto. Allora abitavamo in Viale Guidoni a Novoli, davanti al mercato della frutta per chi conosce Firenze. Alle 4,10 ero fuori della sala parto, credo sia tutt’ora il “record della pista”. Siccome era un cesareo, non potei assistere.
Restai un’ora e più su una sedia nel corridoio fuori della Maternità. Vidi scorrere tutta la mia vita passata davanti agli occhi, e cercai di immaginarmi tutta la mia vita futura. Giacomo non era ancora nato e già arrivava la paura. Di cosa ci avrebbe riservato la vita, di cosa GLI avrebbe riservato la vita. Se sarei stato all’altezza o no, se avrei saputo dargli quello che era stato dato a me. La notte nelle ultime ore prima dell’alba sa essere più buia e tenebrosa che mai, specialmente se stai aspettando che nasca tuo figlio.
Finalmente, alle 5,30, un’infermiera uscì a dirmi che era nato. Dopo un’altra mezz’ora me lo fecero vedere. Poi, dopo appena il tempo di veder tornare la madre dalla sala, fui rispedito via, subito dopo aver dichiarato il nome di mio figlio all’ufficiale del Comune. A mezzogiorno potei finalmente riunirmi alla mia famiglia. Quando arrivò insieme ad altri 20 bambini depositati in un carrellone urlante, mi si strinse il cuore. Lui era buonissimo, a malapena si sentiva. Si attaccò subito, e quello fu il suo esordio al mondo.
Sono passati 20 anni. Chissà se sono stato il padre che lui desiderava. Di sicuro lui è stato il figlio che sognavo. E non cambierei un istante di quelli trascorsi con lui e per lui in questi 20 anni.
Tanti auguri, figlio mio. Ti voglio bene. Quanto te ne voglio lo potrai capire soltanto quando sarai tu al posto mio.
Il tuo babbo


JFK


Immagini in bianco e nero impresse nella memoria visiva e in quella collettiva di tutti coloro che c’erano, e anche di che è venuto dopo. Il filmato in superotto probabilmente più famoso nella storia dell’umanità intera. Il suo autore, il sarto cinquantottenne Abraham Zapruder, non immaginava certo la fama che il suo documentario era destinato ad acquisire quella mattina del 22 novembre 1963 quando scese in strada nella Dealey Plaza di Dallas per assistere al passaggio della limousine scoperta del presidente John Fitzgerald Kennedy, in visita al capoluogo texano assieme alla consorte Jacqueline Bouvier.
Vendidue secondi durò il filmato, dal momento in cui la vettura presidenziale sbucò da Elm Street nella piazza a quello in cui risuonarono gli spari che misero fine alla vita del suo illustre passeggero. La cinepresa catturò anche gli istanti in cui la First Lady, in preda al panico, istintivamente cercò di scendere dall’auto in corsa mentre il marito giaceva già riverso sul sedile imbrattato del suo sangue e della sua materia cerebrale. Poi Zapruder, sconvolto dal tragico sviluppo che aveva avuto quella che avrebbe dovuto essere una festa, spense la macchina e tornò al suo laboratorio. Salvo poi mettere il filmato a disposizione prima della stampa e poi delle autorità inquirenti. Una delle testimonianze più celebri, nell’ambito di una delle inchieste più famose e dall’esito più discutibile e discusso della storia.
Sono passati esattamente cinquant’anni, e sull’omicidio del Presidente della Nuova Frontiera, sul drammatico epilogo della vita di JFK, come lo chiamavano tutti affettuosamente non solo in America, sappiamo con certezza solo quello che c’è nel film di Zapruder e poco più. Sappiamo che un uomo di cittadinanza americana ma di fede marxista, reduce dall’URSS e con un passato di ex-marine prima e di sbandato poi, aveva ordinato per posta un fucile italiano risalente al tempo della guerra mondiale, un Manlicher-Carcano. Era un residuato bellico (e perciò vendibile senza tanti controlli e restrizioni) ma perfettamente funzionante, e con esso Oswald accarezzava l’idea di compiere un gesto eclatante contro un personaggio simbolo del mondo “capitalista”. La scelta era caduta sul simbolo più forte che il mondo avesse in quel momento: il giovane presidente degli Stati Uniti, l’uomo che aveva mandato in pensione la generazione politica della Seconda Guerra Mondiale e che aveva aperto (almeno nell’immaginario collettivo) le porte del futuro alla generazione che aveva di fronte la Nuova Frontiera: un nuovo idealismo che desse significato al secolo americano, la conquista dello spazio, i diritti civili per tutte le razze in America, la fine della Guerra Fredda e la distensione.
Ich bihn ein berliner.....
Secondo la ricostruzione fatta dagli investigatori e poi avallata dalla Commissione del Congresso presieduta dal presidente della Corte Suprema Earl Warren, Lee Harvey Oswald aveva agito da solo, portando il suo fucile all’ultimo piano del Texas School Book Depository e aspettando il passaggio del corteo presidenziale. Da lassù, lui che era un ex tiratore scelto del corpo dei Marines, aveva freddato il presidente riuscendo poi ad allontanarsi nella confusione che seguì, e venendo poi arrestato quasi per caso dalla polizia di Dallas.
Quello che era successo dopo era altrettanto clamoroso. Oswald non arrivò mai ad essere interrogato da nessuno, due giorni dopo l’attentato fu ucciso a sangue freddo (malgrado fosse scortato dai poliziotti) durante un trasferimento da un cittadino a suo dire indignato per il suo gesto: il losco Jack Ruby, personaggio quanto mai equivoco legato a quella malavita che era da tempo accreditata quale acerrima nemica del presidente e del suo fratello Bobby, Ministro della Giustizia che aveva dichiarato guerra alle cosche.
La "vendetta" di Jack Ruby su Lee Harvey Oswald
Warren e gli altri inquirenti non trovarono nulla di strano nella ricostruzione ufficiale di tutta questa strana catena di eventi, e dopo tre anni di indagini archiviarono il caso come il tragico gesto di uno squilibrato. A tenere viva la fiaccola del dubbio provò il procuratore di New Orleans (città alla quale conducevano diverse piste connesse alle persone che a vario titolo erano entrate nell’indagine ufficiale), Jim Garrison, che dovette cedere le armi alla fine nel 1967 dopo essere rimasto isolato da un establishment che ormai aveva voltato pagina, e che dell’affaire Kennedy non ne voleva più sentire parlare. Quale che fosse stata la verità, i tempi stavano cambiando e i venti del 68 e della contestazione alla Guerra del Vietnam (che Kennedy aveva cercato di scongiurare, o almeno limitare) imponevano nuovi temi all’opinione pubblica americana.
Il lavoro di Garrison fu ripreso dal regista Oliver Stone, che nel 1991 riassunse la storia delle indagini nel suo “JFK un caso ancora aperto”. La confutazione del rapporto Warren era totale, Oswald non poteva aver agito da solo, forse aveva fatto soltanto da specchietto per le allodole. La dinamica degli spari (che indicava un tiro incrociato) escludeva la tesi dell’assassino isolato. I risultati dell’autopsia erano stati secretati o inquinati, molti testimoni oculari di quella mattina alla Dealey Plaza sparirono misteriosamente negli anni successivi. Kennedy era amato dal popolo americano come pochi altri presidenti, ma in soli tre anni si era fatto nemici potenti. Non solo le cosche mafiose dei Marcello, Giancana e Trafficante, ma anche la potente lobby militare-affaristica che premeva per un maggiore impegno nel Vietnam e per l’abbandono della distensione con l’URSS, e persino l’ambiente degli esuli cubani scottati dal fiasco alla Baia dei Porci.
Il figlio dell’emigrato irlandese diventato uno degli americani più ricchi e potenti aveva suscitato grandi sogni. “Non chiederti cosa può fare per te il tuo paese, ma cosa puoi fare tu per il tuo paese”. Se fosse vissuto, Kennedy avrebbe forse incanalato quella che pochi anni dopo sarebbe diventata la contestazione giovanile in un nuovo idealismo americano (e forse mondiale). E chissà se sarebbe riuscito davvero a scongiurare tragedie come quella del sud-est asiatico (58.000 morti americani e non si sa quanti vietnamiti) e come la ripresa della Guerra Fredda. JFK divenne il nemico di chi aveva bisogno di mantenere il mondo in uno stato conflittuale. Mentre era a Berlino nell’estate del 1963 a sfidare il muro dei comunisti, “Ich bihn ein berliner”, qualcuno di molto più potente di Oswald si stava armando per porre fine alla sua Nuova Frontiera.
Questa è la storia che tutti conoscono, almeno nel suo epilogo. Il dramma di Dallas impressionò  profondamente l’anima del mondo e costituì una svolta nella sua storia con pochi altri precedenti nel passato. Cento anni prima era toccato ad Abraham Lincoln, il presidente della abolizione della schiavitù, cadere sotto i colpi di un fanatico sudista quando già la sua battaglia era vinta. John Wilkes Booth, come Lee Harvey Oswald un secolo dopo, divenne il capro espiatorio per l’eliminazione di un presidente troppo amato dalla gente e troppo odiato da chi non voleva che la Costituzione americana fosse presa troppo alla lettera dal popolo.

Gli spari di Dallas risuonarono in tutto il mondo, e risuonano ancora. Un anno dopo la morte di Kennedy scoppiarono a Berkeley in California le prime rivolte studentesche, due anni dopo i primi disordini per motivi razziali. Quando nel 1968 toccò a Bobby cadere sotto i colpi di un altro improbabile “fanatico isolato”, il palestinese Shiran Shiran, a Los Angeles durante la campagna elettorale per succedere al fratello alla Casa Bianca, l’America era impantanata nel Vietnam fino al collo. E soprattutto aveva perso per sempre la sua ingenuità e la sua fiducia nelle istituzioni progressiste, nel sogno americano che fino a Dallas non aveva conosciuto interruzioni o ostacoli. E la storia degli ultimi 50 anni è stata tutta diversa da quella che avrebbe potuto essere.

giovedì 21 novembre 2013

RENZIADE: Renzi Vs. D'Alema: in gioco il futuro dell'Italia


Ha vinto Renzi con il 46,7% dei voti, ma anche Cuperlo con il 38%, e Pippo Civati con il 9%. E soprattutto ha vinto Massimo D’Alema, l’uomo che nessuno ha mai votato ma che da più di vent’anni ha in mano quel partito che ha cambiato nome almeno quattro volte, ma le cui scelte politiche passano sempre attraverso le Case del Popolo. L’unico posto dove il politico meno simpatico della storia d’Italia conserva ancora intatto il suo sex appeal.
Le Primarie a doppio turno del PD hanno candidato il Sindaco di Firenze, il suo antagonista costruito nel laboratorio delle Case del Popolo e quell’altro, il “ragazzo terribile” e indisciplinato emerso dalla nuova generazione, forse l’ultima su cui il PD stesso eserciterà una qualche forma di richiamo.
L’8 dicembre prossimo la parola definitiva passerà a tutti coloro che saranno disposti a versare l’obolo di due euro. Basta questo infatti per scegliere il nuovo segretario del Partito Democratico, nonché candidato alla presidenza del consiglio nelle elezioni che prima o poi si terranno anche in questo paese il cui sistema politico è regredito ad una Monarchia semi-costituzionale. Del resto, per scegliere i candidati a questo ballottaggio si poteva essere anche sbarcati da poco da qualche gommone e tesserati con procedura d’urgenza da qualche solerte funzionario di partito. Molto più difficile e complicato avere un appuntamento medico tramite CUP, soprattutto se si è cittadini italiani.
Matteo Renzi sente già la vittoria in tasca, parla da segretario in pectore e da nuovo leader della sinistra. Ha già fatto ampiamente quello che gli riesce meglio: parlare in lungo e in largo, raccontando a tutti cosa sarà e cosa farà il nuovo PD. Per esempio, non sosterrà più ministri screditati come quella Cancellieri che ieri ha riaffermato arrogantemente il proprio buon diritto a farsi gli affari propri e dei propri amici di famiglia utilizzando apparecchiature di proprietà dello Stato. Con la benedizione e l’imprimatur del Presidente Letta, che ha legato il suo destino a quello della ministra telefonista, affermando un “la Cancellieri sono io” che come frase storica è seconda solo a quella celeberrima del re Sole Luigi XIV.
Renzi aveva speso molto del proprio prestigio presente e futuro nella sfiducia pubblica alla Cancellieri. Peccato che il nuovo PD è ancora di là da venire. In vigore c’è ancora quello vecchio, e quello vecchio è in mano a D’Alema & C. Dove “C” sta per la vecchia guardia che non molla, che vede il sindaco fiorentino come il fumo negli occhi e che si è organizzata dapprima mettendogli contro metà del partito (Cuperlo e Civati, se la matematica non è un opinione, hanno raccolto – lasciamo perdere come e da chi – consensi che ammontano insieme a quelli di Renzi, se non a qualcosa di più) e poi costringendo l’intero centrosinistra a votare compatto per la fiducia al Letta-Cancellieri. Passata ieri in tromba a Montecitorio con 405 voti a favore e 154 contrari. Tanti saluti a Matteo, rientrato nei ranghi come un Civati qualsiasi e lasciato a sproloquiare del nuovo partito che verrà.
Da un’altra parte sproloquiava anche D’Alema, parlando del partito che c’è, del fatto che questo continuerà a sostenere un governo che gli italiani non vogliono e non hanno mai scelto, ma che è voluto dalla Casta, che ha tutte le intenzioni di arrivare in fondo alla Legislatura così come stiamo messi adesso. Cioè male, visto che siamo ridotti al punto che mentre Letta annuncia che mancano 900 milioni di euro da trovare (sic!) entro oggi a pena di reintroduzione della seconda rata dell’IMU, in un’altra stanza Saccomanni dice che non è vero nulla, che i conti sono a posto così.
Ma di questo nel D’Alema-pensiero non si trova traccia. Ciò che conta è che il sistema vuole resistere a tutti i costi, e ha ufficialmente dichiarato guerra al rottamatore per antonomasia, Matteo Renzi. Il quale a questo punto avrebbe bisogno di qualche successo concreto da poter mostrare, oltre alle consuete parole. E non può certo bastare il millantato nuovo stadio a Firenze, che ieri pare essere tornato in auge.
Se Renzi vincerà l’8 dicembre, governerà su mezzo partito soltanto. In compenso Letta rischia di governare l’Italia per altri 4 anni. E “baffino” D’Alema non sarà “baffone” Stalin, ma in mano a lui il partito è veramente quella gioiosa macchina da guerra che Occhetto sognava. Un osso ben più duro da rodere di colui che smacchiava i giaguari.

Buona fortuna, Matteo. Ne avrai bisogno. Ne avrebbe bisogno anche l’Italia, ma non crediamo sia più neanche il caso di augurarglielo.

mercoledì 20 novembre 2013

Corso Salani torna a Firenze

20 novembre 2013


La 50 Giorni di Cinema Internazionale a Firenze, la manifestazione che con il patrocinio di Mediateca Regionale e Comune di Firenze è stata creata per raccordare tra loro tutti i festival cinematografici internazionali che si svolgono in autunno in riva all’Arno, ha proposto quest’anno l’evento “Per-Corso, tra i nostri autori”. La giornata di ieri 19 novembre è stata dedicata alla rievocazione di Corso Salani, il regista fiorentino prematuramente scomparso più di tre anni fa.
E’ la seconda volta che succede, dopo la retrospettiva dedicatagli “a caldo” nel 2010. Stavolta si è scelto di celebrarlo attraverso quella che possiamo definire la sua eredità, raccolta e curata in primis dall’Associazione che porta il suo nome e formalizzata nel Premio cinematografico parimenti a lui intitolato e che viene da quattro anni a questa parte assegnato alla migliore tra le opere cinematografiche indipendenti e low budget, che si avvicinano appunto alla sua visione del mondo e del cinema.
Il Premio viene attribuito nella manifestazione che da 25 anni a questa parte è assurta al rango di vero e proprio festival del cinema indipendente italiano, una sorta di Sundance nostrano, il Trieste Film Festival, che nella prossima edizione avrà luogo nel capoluogo giuliano dal 17 al 22 gennaio 2014. L’antipasto di ieri del festival fiorentino ha fornito intanto un significativo “dietro le quinte”, attraverso l’incontro con i membri della giuria che ha valutato le opere in concorso nel Premio ed i loro autori, con visione in sequenza di alcuni di questi film. Interessantissima in particolare l’anteprima assoluta italiana de Il seminarista, film realizzato grazie al sostegno del Fondo Cinema della Regione Toscana che il regista Gabriele Cecconi ha dedicato all’amico Salani.

Anche chi scrive ha avuto la fortuna e il privilegio di avere avuto Corso Salani come amico fin dagli anni della adolescenza. Corso era un po’ come Firenze, la città dov’era nato nel 1961 (oggi avrebbe avuto 52 anni). Un mix originalissimo di talento artistico e di umanità capace di rinnovarsi ogni giorno e capace di mostrare sempre nuovi aspetti di sé nei momenti più impensati anche a chi ci aveva fatta l’abitudine per la lunga consuetudine.
Corso Salani poteva essere estroverso e timido nello stesso tempo, con un universo di cose da esprimere dentro di sé e la capacità di esprimerle in mille modi diversi, e tuttavia mai soddisfatto di quelli più comuni, tradizionali, sempre alla ricerca di forme espressive sue, particolari, che prendevano di sorpresa anche chi le aveva viste nascere fin dai primi scherzi tra amici.
Di quegli amici di vecchia data, nessuno si era sorpreso quando Corso aveva comunicato la sua intenzione di intraprendere la carriera artistica nella Decima Arte, il Cinema. Quello era il suo mondo e il suo destino, lo sapevamo tutti. Neppure sorprese la sua scelta di dedicarsi al cinema indipendente, dopo alcune prove d’attore non indifferenti come quel Rocco Ferrante che costituisce lo splendido alter ego del giornalista Andrea Purgatori nel Muro di Gomma di Marco Risi, 1991. Alzi la mano chi non si è commosso dal profondo del cuore quando nelle scene finali Corso-Rocco-Andrea detta il suo pezzo dal telefono fuori del tribunale dove il muro di gomma è stato per la prima volta sfondato.
Il cinema che interessava a Corso, che era nelle sue corde, era tuttavia un altro. Era il cinema indipendente, estremamente personalizzato, intravisto già nella sua opera prima Voci d’Europa, del 1989. Era quella commistione tra documentario e fiction, tra osservazione della realtà e sua rappresentazione poetica che avrebbe pervaso la sua opera fino ai suoi ultimi giorni, trovando la consacrazione nei Confini d’Europa, quei corto-mediometraggi in cui aveva riversato la sua celebrazione delle land’s end del nostro continente come luoghi limite dello stesso spirito umano, di incontro delle diverse incomunicabilità e del proprio sentirsi comunque fuori posto, spaesati. O nel poetico road movie Mirna, riproiettato ieri sera in streaming da Mymovies in collaborazione con la 50 giorni.
Non c’è mai differenza tra l’amore che si legge in un fotogramma e quello che si sente nel cuore”, diceva lui. “Non credo che ci sia molta differenza tra quello che filmo e quello che vivo”. Era vero. Aveva davvero un gran cuore Corso Salani, anche se fu proprio il cuore a tradirlo, lasciandolo a terra quella sera di metà giugno sul lungomare di Ostia. Per chi l’ha conosciuto come uomo ci sono i ricordi di una vita terminata per lui troppo presto. Per chi vuole ricordarlo come regista e ha perso l’appuntamento di ieri, c’è la Fondazione che porta il suo nome e per tutti appuntamento a Trieste a gennaio prossimo.




martedì 12 novembre 2013

Nasiriyya



Come si fa a dimenticare Nasiriyya? Da ogni parte si legge: PER NON DIMENTICARE. Come se fosse possibile scordarsi di quella tragedia, di quell’attentato sanguinoso che sconvolse un paese e lo proiettò di colpo nel mondo moderno, in quel ventunesimo secolo in cui non è più possibile ripudiare la guerra, per nessun motivo. Perché la guerra ci ha raggiunti in casa nostra.
Come se fosse possibile dimenticare le mani del Presidente Ciampi, appoggiate su ognuna delle diciannove bare sbarcate a Ciampino avvolte nella bandiera tricolore. Quelle mani appoggiate per lunghi, interminabili istanti, a rappresentare come poche altre volte un sentimento condiviso da tutti gli italiani. In quel caso lo strazio, il dolore per quei ragazzi partiti con lo scudo verso l’Antica Babilonia e tornati sullo scudo, come guerrieri antichi in un mondo moderno che stentava ancora a capirli. A capire il perché c’era e c’è bisogno ancora che dei ragazzi nel fiore degli anni imbraccino le armi, anziché le fidanzate, e vadano da qualche parte a difenderci. A difendere chi resta a casa a continuare la vita di tutti i giorni, che tuttavia può continuare solo grazie a quei ragazzi lì, lontani, sotto il fuoco.
Sono passati dieci anni. Dieci anni fa soldati italiani erano in Iraq inquadrati sotto comando Alleato per far rispettare una risoluzione dell’ONU, la 1843, che con il linguaggio tipico della politica internazionale moderna parlava d “riportare la democrazia” nel paese in cui era stato appena deposto il dittatore Saddam Hussein. Il nuovo Hitler, si diceva allora, quello contro cui erano state combattute le due guerre del Golfo: la prima, quella del 1990, per liberare il Kuwait invaso dal più grande  e prepotente vicino, che finì per lasciare le cose come stavano e rinviare i problemi; la seconda, quella del 2003, sull’onda dell’illusione più o meno consapevole, più o meno fondata o ben diretta, della caccia a Bin Laden, ad Al Qaeda e a tutti i suoi alleati, prima nell’Afghanistan dei Talebani e poi nell’Iraq. L’antica Mesopotamia, la terra tra il Tigri e l’Eufrate che avevamo studiato a scuola e poi opportunamente dimenticato, come tutto ciò che riguarda quel Medio oriente che pure ha condizionato anche da lontano la vita di più generazioni di europei.
L’Italia era un paese che, con la Costituzione del 1948, aveva ripudiato la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. L’esercito italiano esisteva soltanto per difesa dei confini nazionali e dell’Alleanza Atlantica, in cui era inquadrato dal 1949. La scelta era sembrata doverosa e conseguente dopo la débacle – catastrofe della guerra mondiale combattuta per di più dalla parte sbagliata. Poi, a metà degli anni 80, durante una delle crisi ricorrenti nel “paese dei cedri”, il Libano – quella successiva alla famigerata strage di Sabra ed El Shatila, per capirsi – la situazione in Medio Oriente era parsa talmente compromessa, sull’orlo di una catastrofe suscettibile di tirarsi dietro il mondo intero, che l’Onu aveva deliberato l’invio di un contingente internazionale: americano, inglese, francese e – per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale – italiano.
L’invio del contingente agli ordini del generale Franco Angioni non era avvenuto senza polemiche laceranti. Per la prima volta da tempo immemorabile il paese era tornato a spaccarsi tra interventisti e pacifisti. Stavolta a dividere era il diverso approccio alla cosiddetta “sporca guerra” del petrolio. Il Medio Oriente era ed è il benzinaio del mondo, nessuno se lo nascondeva allora e se lo nasconde adesso. Diverso semmai è il sentimento di chi ha sempre preferito liquidare il coinvolgimento italiano nella politica internazionale come un sostegno indebito all’imperialismo americano, rispetto a chi invece – magari lentamente e faticosamente – ha finito per tornare a convincersi che quel coinvolgimento, magari a sostegno soltanto del nostro modello di vita a cui nessuno, nemmeno gli antiimperialisti, sa rinunciare volontariamente, richiede di tornare anche noi italiani ad imbracciare le armi e fare la nostra parte.
Gli uomini di Angioni partirono nel 1983. La missione fu un successo, magari retoricamente ammantato del mito degli “italiani brava gente” contrapposti ai “cattivi” anglosassoni e francesi.  Da allora, sempre più spesso uomini in divisa dell’esercito italiano presero ad essere inviati fuori dai confini nazionali in missioni internazionali. Una volta infranto il tabù, dalla Somalia, all’Iraq, alla Jugoslavia, all’Afghanistan e di nuovo all’Iraq, l’esercito italiano ebbe il suo carico di lavoro in misura sempre crescente, il suo battesimo del fuoco e presto purtroppo anche il suo tributo di sangue.
Si chiamava peacekeeping, missione di pace, secondo l’ipocrisia del “politicamente corretto” tanto in voga nel mondo post Guerra Fredda. Anche la missione deliberata dal Parlamento italiano nel maggio 2003 e denominata in codice “Antica Babilonia” in attuazione della risoluzione ONU 1843 venne rubricata come missione di pace. I nostri soldati furono inviati a Nasiriyya sotto comando inglese, a controllare una zona chiave nel distretto petrolifero iracheno. Giravano in assetto di guerra, subivano il fuoco nemico (a volte con le cosiddette “regole di ingaggio”, altra invenzione della moderna ipocrisia politica, che neanche permettevano loro di difendersi), venivano feriti e a volte morivano, ma guai a dire che non erano lì altro che a “mantenere la pace”
L’ipocrisia finì esattamente dieci anni fa, la sera del 12 novembre 2003, quando la notizia di apertura di tutti i telegiornali fu che la base italiana nel capoluogo iracheno aveva subito un gravissimo attentato, ad opera di un carro-bomba, che aveva fatto una strage tra gli italiani. 19 vittime, il tributo di sangue più alto dalla fine della seconda guerra mondiale. Quella sera, mentre a tutti si chiudeva la gola per il dolore, a tutti o quasi fu anche chiaro che la tregua morale imposta dalla costituzione del 1948 era finita, che eravamo piombati nel mondo moderno, nel ventunesimo secolo, quello aperto e segnato per sempre dall’attentato alle Torri Gemelle.
Eravamo in guerra, e i nostri soldati erano al fronte a difenderci. E venivano uccisi, come quelli degli altri paesi. Gli italiani non erano più “brava gente”, ma obbiettivi dei terroristi al pari di americani, inglesi, tedeschi e quant’altri. La missione di pace era finita, cominciava quella di guerra, e intanto c’erano da riportare a casa quelle diciannove bare. I nostri primi morti in guerra dal 25 aprile 1945.
Le mani del Presidente Ciampi che accarezzavano quelle bandiere insanguinate su quelle casse da morto schierate a Ciampino erano le mani di tutti noi, quella notte. O quasi tutti, perché qualcuno continua ancora adesso a scrivere su qualche muro “10, 100, 1000 Nasiriyya”. Si sa, un paese libero è libero anche se dà pari cittadinanza ai suoi figli più sciocchi. Dei sessanta milioni o quasi di italiani che dieci anni fa invece compresero finalmente in che mondo si stavano ritrovando a vivere crediamo che siano veramente pochi quelli che a distanza di tutto questo tempo non ricordano con lo stesso dolore e la stessa angoscia quella notte, quelle mani, quel dolore. Quell’art. 11 della nostra amata Costituzione che non ci difende e non ci giustifica più. E questi nomi:
Carabinieri
Massimiliano Bruno, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Giovanni Cavallaro, sottotenente
Giuseppe Coletta, brigadiere
Andrea Filippa, appuntato
Enzo Fregosi, maresciallo luogotenente
Daniele Ghione, maresciallo capo
Horacio[1] Majorana, appuntato
Ivan Ghitti, brigadiere
Domenico Intravaia, vice brigadiere
Filippo Merlino, sottotenente
Alfio Ragazzi, maresciallo aiutante, Medaglia d'Oro di Benemerito della cultura e dell'arte
Alfonso Trincone, Maresciallo aiutante
Militari dell’esercito
Massimo Ficuciello, capitano
Silvio Olla, maresciallo capo
Alessandro Carrisi, primo caporal maggiore
Emanuele Ferraro, caporal maggiore capo scelto
Pietro Petrucci, caporal maggiore
Civili
Marco Beci, cooperatore internazionale
Stefano Rolla, regista
oltre a nove cittadini iracheni presenti in servizio nella base italiana di Nasiriyya alle ore 10,40 (ora locale) della mattina dell’attentato, per un totale di 28 vittime

venerdì 11 ottobre 2013

Dieci italiani per un tedesco

Erich Priebke era un capitano delle SS, le Schutzstaffel costituite da Hitler nel 1925 come propria guardia personale, una sorta di corpo di Pretoriani che con il tempo aveva sistematicamente arruolato i nazisti più fanatici ed era arrivato all’epoca della Seconda Guerra Mondiale a costituire l’unità combattente e di polizia militare più letale ed efficace di tutto l’apparato bellico tedesco. Reclutato personalmente dal suo capo, Heinrich Himmler, il giovane Priebke si era distinto per le proprie capacità organizzative pari alla sua fedeltà all’ideologia nazionalsocialista ed aveva fatto carriera.
La mattina del 23 marzo 1944, quando l’Obersturmbannführer Herbert Kappler, comandante della piazza militare di Roma occupata dai nazisti gli ordinò di organizzare ed eseguire la più feroce delle rappresaglie compiute dall’esercito tedesco in Italia, Priebke portava appunto i gradi di capitano ed era uno degli uomini di fiducia di Kappler. Inevitabile che il massacro delle Fosse Ardeatine fosse affidato a lui, che non si fece pregare e non deluse la fiducia accordatagli, andando perfino al di là dei crudeli, disumani ordini ricevuti.
Roma era sotto il controllo della Wehrmacht e della Gestapo fin da subito dopo l’8 settembre, e aspettava la fine di uno degli inverni più lunghi e duri della sua storia, combattuta tra la speranza che gli Alleati – ormai vicini alla città ma bloccati dal caposaldo tedesco arroccato nell’antica Abbazia di Montecassino – riuscissero a sfondare le linee nemiche prima possibile ed il terrore della legge marziale germanica, dei rastrellamenti di ebrei, partigiani e di quanti semplicemente incappavano nel capriccio degli occupanti. Pur avendo conosciuto tante invasioni e saccheggi durante il corso della sua storia plurimillenaria, niente era paragonabile all’orrore vissuto dai romani in quei nove mesi intercorsi tra la resa dei Granatieri di Sardegna a Porta San Paolo il 12 settembre 1943 e l’entrata delle avanguardie del generale Clark, la benedetta V^ Armata, la mattina del 4 giugno 1944, il giorno della Liberazione.
Era il periodo magistralmente immortalato da Roberto Rossellini con la grande Anna magnani nel capolavoro “Roma città aperta”. A fine marzo, la Linea Gustav reggeva ancora, la luce in fondo al tunnel era tutt’altro che in vista, e i Gruppi Armati Partigiani (G.A.P.) adottarono pertanto la decisione controversa di compiere una azione dimostrativa per scuotere il morale delle truppe tedesche occupanti e risollevare quello dei romani, dando impulso nel contempo allo sforzo degli Alleati nella difficile marcia verso la Capitale dopo lo sbarco di Anzio.
Fu prescelta Via Rasella, traversa della centralissima Via del Tritone. Il cuore di Roma, dove la bomba partigiana avrebbe riecheggiato ancora più forte. Vittime designate, un battaglione di altoatesini, il Polizei-Regiment Bozen, che transitava da quella via quotidianamente di ritorno dalle esercitazioni. La mattina del 23 marzo 1944 le Brigate Garibaldi, ricevuto l’ordine esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale presieduto in quel momento tra gli altri da Sandro Pertini e Giorgio Amendola, passarono all’azione. La data non era stata scelta a caso, si trattava del 25° anniversario della fondazione del primo Fascio di Combattimentoda parte di Mussolini a Milano. La guerra si faceva e si fa ancora anche - e a volte soprattutto - con i simboli, per quanto sanguinosi.
Il Battaglione Bozen fu spazzato via dalla bomba dei GAP, che appostati in zona finirono i superstiti con bombe a mano e pistole. Subito dopo, partì l’inevitabile rappresaglia delle SS, il cui morale – lungi dall’essere stato fiaccato – si rivelò quanto mai rafforzato nella propria crudele determinazione ad andare fino in fondo in quella guerra dove ormai si reggevano soltanto sul proprio estremo fanatismo. Herbert Kappler applicò il codice militare tedesco, che prevedeva una rappresaglia ai danni di dieci civili locali per ogni soldato tedesco caduto. Il rastrellamento, l’organizzazione e l’esecuzione furono affidate come detto al capitano Priebke, al quale né allora né in seguito fino al suo ultimo istante di vita balenò nel cervello la possibilità di non ottemperare agli atroci ordini ricevuti. Nessun tedesco in quegli anni lo avrebbe fatto, avrebbe dichiarato in seguito.
Per buona misura, i 33 morti del Battaglione Bozen furono vendicati con il massacro di 335 civili rastrellati a caso per le vie di Roma e integrati con detenuti “politici” di Regina Coeli, il carcere di Roma. Cinque in più del necessario, perché lo zelo di Priebke non tollerava eventuali mancanze, meglio abbondare. Le vittime furono portate alle Fosse Ardeatine, antiche cave di materiale ghiaioso lungo la Via Ardeatina fuori Roma. L’esecuzione ebbe luogo neanche 24 ore dopo l’attentato di Via Rasella. I corpi dei giustiziati rimasero nascosti nelle cave fino a dopo la Liberazione. I tedeschi si erano preparati – moralmente parlando, secondo loro – una via di fuga occultando le tracce del massacro. Come per lo sterminio degli ebrei, un giorno se le cose fossero andate male e si fosse dovuto render conto delle proprie  azioni si sarebbe sempre potuto affidarsi al Negazionismo. Tanto le tracce degli eccidi erano state cancellate, o sottoterra o nei forni dei campi di concentramento.
Le cose andarono male, alla fine, per la Germania nazista. Kappler venne catturato al pari del Feldmaresciallo Kesselring – comandante della Wehrmacht nell’Italia occupata e governata tramite il regime fantoccio di Salò – e inizialmente condannato a morte, sentenza poi commutata nell’ergastolo che si concluse anzitempo con la clamorosa fuga dall’ospedale militare del Celio nel 1977. Priebke invece riuscì ad evadere nel 1945 dal campo di prigionia dov’era detenuto e grazie ai buoni uffici della famigerata Organizzazione Odessa ricevette documenti falsi con i quali poté imbarcarsi per il Sudamerica. Trovò rifugio nell’Argentina governata dal dittatore Juan Peron, filotedesco da sempre e ben disposto ad accogliere gli ex nazisti in fuga.  A San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande argentine, Erich Priebke visse i successivi cinquant’anni sotto la protezione della comunità tedesca e delle organizzazioni neonaziste.
Era uno dei bersagli principali del Centro di Documentazione Ebraica di Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti che era già riuscito ad assicurare alla giustizia postbellica belve come Adolf Eichmann. Ma riuscì a farla franca fino al 1994, quando finalmente il mutato clima internazionale post guerra fredda e la fine delle dittature fasciste in Sudamerica permisero agli investigatori ed ai giornalisti di penetrare la spessa cortina alzata sui reduci del Terzo Reich da organizzazioni come l’Odessa e dai loro simpatizzanti nel mondo politico e finanziario internazionale. Priebke fu arrestato ed estradato in Italia nel 1995, cinquant’anni dopo i fatti che l’avevano reso tristemente famoso. Nel 1996 si presentò di fronte al tribunale Militare di Roma, dichiarato competente a giudicare essendo l’eccidio delle Fosse Ardeatine un crimine di guerra. In prima istanza, il Tribunale non trovò di meglio che giudicare Priebke non perseguibile, in quanto il reato era prescritto dato il lungo tempo trascorso. La clamorosa sollevazione del pubblico già nell’aula del Tribunale indusse il governo italiano a farsi promotore di un nuovo procedimento giudiziario. Stavolta, malgrado il tentativo grottesco della difesa di Priebke di farlo passare per un mero esecutore di ordini (e semmai di chiederne la persecuzione soltanto per quei cinque morti in più rispetto alla proporzione di 10 ad 1!), per l’ex capitano delle Schutzstaffel non ci fu scampo.
Erich Priebke fu condannato all’ergastolo, da scontare agli arresti domiciliari in considerazione dell’età avanzata, con sentenza definitiva del 1998. Nel 2007, dopo che per anni l’opinione pubblica italiana si era divisa tra fautori della severità e partigiani della clemenza per ragioni umanitarie (siamo sempre pronti a provare simili moti dell’anima per chi non ne ha mai provati in vita sua), a Priebke venne concesso il permesso di uscita da casa a determinate ore del giorno, per recarsi “al lavoro” nello studio del suo avvocato. Negli ultimi anni della sua vita aveva fatto discutere il regime di semilibertà sempre più lasco di cui aveva beneficiato (pur sotto stretta sorveglianza della polizia più che altro per la sua incolumità personale). Quest’anno, infine, in occasione del suo centesimo compleanno aveva potuto festeggiare con una passeggiata da cittadino praticamente libero per le strade di quella Roma in cui aveva seminato il terrore a piene mani settant’anni prima.
E’ morto senza una parola o un pensiero di pentimento Erich Priebke, a giudicare dal testamento che si è lasciato dietro e dall’atteggiamento fermo fino all’ultimo istante con cui si è rifiutato di rinnegare anche una sola singola azione del suo passato. “Negli anni 40, gli ordini si eseguivano e basta”. E’ la sintesi della sua vita, la perfetta rappresentazione di quella “banalità del male” di cui parlava Hannah Arendt fin dai tempi del processo Eichmann. Un male tra l’altro che in tempi divenuti nuovamente difficili quasi come all’epoca in cui la civile Berlino si affidò ad Adolf Hitler può reincarnarsi di nuovo con banale facilità.

Forse è per questo che, a chiudere l’ultimo tormentone lasciato in eredità da questo impiegato della morte a quell’opinione pubblica italiana che ha così a lungo torturato, è opportuno che si decida di disperderne le ceneri al vento. Perché non possano tornare a riunirsi come le vestigia di un mostro mitologico,  in un nuovo orrore che già da più parti viene invocato a gran voce.

giovedì 10 ottobre 2013

Tragedie di mare e di terra

Di questa straziante tragedia del mare (siamo a 280 bare allineate nell’hangar dell’aeroporto di Lampedusa) l’immagine simbolo, quella che rimarrà nella memoria collettiva come sintesi di questo nuovo calvario delle nostre coscienze italiane è quella del poliziotto che trattiene a stento le lacrime davanti alle telecamere, mentre è in servizio di sorveglianza a fianco di quelle bare.
E’ difficile per tutti trattenere la commozione, in questo momento. Dentro quelle casse ci sono i resti di uomini, donne e soprattutto bambini, le cui vite sono state stroncate nel modo più atroce dall’ultima in ordine di tempo e più allucinante in ordine di gravità sciagura provocata dal naufragio di uno dei barconi che, possiamo dirlo, ormai fanno servizio di linea tra il Nord Africa e Lampedusa, avamposto dell’immaginario El Dorado italiano per queste persone che vi si accalcano sopra affrontando i rischi di un viaggio pericolosissimo, oggi come ai tempi dell’Odissea.
E’ difficile ragionare, sotto l’influsso dell’emozione che provoca la vista di quelle bare. Dentro una di esse, una madre con il bambino appena partorito negli ultimi istanti di vita. Non hanno neppure separato il cordone ombelicale, resteranno così per l’eternità. Senza nome, però, come tutti gli altri. Non c’è una anagrafe funzionante nella maggior parte dei paesi di origine di queste povere salme. Non ci sono registri di bordo sui barconi di quei commercianti di false speranze che sono gli scafisti, i negrieri dell’età moderna.
Eppure, una volta celebrati i funerali di Stato, la cerimonia con cui la nazione italiana tributerà l’ultimo omaggio a persone che credevano di venire qui da noi a trovare la soluzione ai loro problemi e invece hanno incontrato una fine orribile (che impedirà loro tra l’altro di scoprire amaramente che qui al massimo di problemi venivano a trovarne altri, di diverso tipo), una volta scontate tutte le strumentalizzazioni che la politica nazionale ed europea sta operando cinicamente a carico di questa sciagura e dell’inevitabile strascico emotivo lasciato tra la popolazione, bisognerà finalmente guardarci negli occhi e parlarci molto chiaramente, noi italiani, perché a prescindere da questa ultima tragedia le cose sono arrivate ad un punto oltre il quale non si può più andare avanti.
Con la consapevolezza di essere da soli, peraltro. L’Europa ha già risolto il problema dell’immigrazione, rispolverando in ciascuno dei suoi stati membri la sovranità nazionale, ivi compresa la facoltà di chiudere più o meno “garbatamente” le porte all’immigrazione dal Terzo, Quarto e Quinto Mondo. L’Italia, che una sovranità nazionale reale non l’ha mai avuta ma che in compenso ha il maggior tratto di coste esposte agli sbarchi dal mare di tutto il territorio continentale, si sta facendo trovare da anni a brache calate, divisa al suo interno, con idee contraddittorie circa l’accoglienza (per non parlare dell’asilo politico) e senza un governo degno di questo nome in grado di affrontare questo o qualsiasi altro problema come non solo Dio ma anche gli uomini (che lo eleggono) comanderebbero.
La gente di Lampedusa che ieri fischiava la proménade indigesta di Barroso e Letta ha interpretato il sentimento di una nazione, disgustata dall’essere costretta a subire quotidianamente quella che quando va bene si configura come una vera e propria invasione, senza regole e senza prospettive (per noi italiani e per gli extracomunitari), quando va male sfocia in episodi come questo, che la vox populi adirata non ha avuto peraltro torto a definire un “assassinio”.
Altro che “inadempienze”, caro presidente Letta. Qui siamo al marasma totale. Il “politicamente corretto” che è tanto in voga da vent’anni a questa parte scaglia anatemi su chi si prova a contestare il teorema in base a cui bisogna dare asilo politico ed accoglienza a chiunque, perché lo vuole la nostra Costituzione. E’ un mantra, come l’altro recitato da anni, “lo vuole l’Europa”. In questo caso l’Europa se n’è fregata, stando a vedere come se la cavavano gli italiani con i loro governicchi. Oppure ha fatto scelte politiche anche legittime, tanto che adesso il governo francese può permettersi addirittura di invocare una messa in mora per l’Italia (con relative sanzioni) per aver causato in ultima analisi questa tragedia con la sua assenza di controllo: politico, giuridico e di polizia.
Dall’altra parte del mondo, l’Australia – il paese che più civile ed avanzato non si può, patria storica dell’accoglienza e delle opportunità di rinascita “altrove”, per di più attualmente governato da una maggioranza laborista – ha recentemente votato un inasprimento delle regole per l’immigrazione, rafforzando tra l’altro la persecuzione del reato di clandestinità (quello che ieri sera il governo italiano, sulla spinta di vari settori più o meno in preda all’isteria dell’opinione pubblica, ha deliberato di cancellare con proprio decreto). Funziona così: se vuoi entrare nel Paese dei Canguri, ti presenti a Christmas Island, un isolotto a 500 km al largo di Giakarta e a 2.000 km dalla costa australiana, dove la tua domanda di immigrazione viene esaminata. Non ti provare a sbarcare sulle coste della madrepatria senza autorizzazione, perché come ha ribadito di recente il primo ministro laburista Kevin Rudd nessuno sbarco di questo genere sarà tollerato. E in un paese di cultura anglosassone sappiamo bene cosa questo possa comportare.
Negli Stati Uniti Ellis Island è stata chiusa da tempo, ma provatevi ad entrare, o a rimanere una volta entrati , senza visto di ingresso o permesso di soggiorno. In Europa, provatevi a sbarcare non autorizzati nella penisola iberica o balcanica, o sulle coste francesi. Resta la penisola italiana, con l’avamposto di Lampedusa per chi vuole fare le cose secondo un minimo di procedura, oppure con qualunque altra località di approdo, che comunque non verrà impedito da niente o da nessuno. Allora come la mettiamo? Tutti cattivi, europei, americani, australiani, e noi siamo gli unici ad avere un cuore?
Che cuore è allora quello che lascia aperta la porta di un paese che non ha più di che sfamare, tra poco, i suoi stessi cittadini? Un paese che ha una sola inadempienza nei confronti degli extracomunitari migranti, quella di non dire chiaramente che qui l’economia è a rotoli, non c’è più trippa per nessun gatto, e che a sbarcare – superati i rischi di una traversata che dai tempi di Ulisse ha sempre riservato insidie, anche quando i marinai non sono pirati – si va incontro ad un avvenire “diversamente” incerto e comunque gramo, in centri di accoglienza dello Stato le cui condizioni sono altrettanto indegne di quelle delle carceri (lamentate recentemente dal presidente della repubblica), oppure in centri di accoglienza della criminalità organizzata.
Dice, ma la Costituzione, allora? Risposta: quanti sono i paesi in guerra o in preda a convulsioni politiche e sociali tali da giustificare l’invocazione della categoria giuridica dell’asilo politico? Pochi. Molti di più sono invece i paesi dove, o per effetto di “primavere arabe” sulla cui sollevazione sarebbe stato più opportuno riflettere prima o per effetto di strutturali, endemiche condizioni di vita primitive, le popolazioni hanno un tenore di vita quale nel nostro continente non ricordiamo più dall’epoca medioevale. Il processo storico di emancipazione e di progresso  normalmente i popoli lo affrontano secondo percorsi di cui non si possono saltare le fasi fondamentali, a pena di creare benefici effimeri per tutti e disastri sociali sicuri. Certo, la televisione mostra a questa gente la facciata di un nostro tenore di vita sicuramente più appetibile, ma non mostra né cosa c’è dietro in termini di consapevolezza e di progresso culturale né quanto sia diventato precario sull’onda di una crisi economica planetaria che rende tutto più difficile, se non impossibile.
Si può strepitare quanto si vuole, chiamare cattivi senza cuore leghisti come Salvini (peraltro uno dei più ragionevoli e responsabili) e farsi incantare da sirene quali le onorevoli Kyenge e Boldrini, che non hanno – senza con questo voler affermare nessun vilipendio – la più pallida idea di cosa vuol dire amministrare un paese come quello in cui rivestono la loro carica. Di cariche dello Stato ancora più alte, meglio non parlare, sempre per non incorrere in quello che qualche anima bella potrebbe interpretare come vilipendio.
Sta di fatto che esiste un solo precedente al periodo storico che stiamo vivendo. Era il quinto secolo dopo Cristo, quando la più grande società politica e civile dell’Antichità collassò rovinosamente, per il semplice fatto di non poter accogliere e dare sostentamento entro i propri confini alla marea di popoli che premevano per entrare nel “Limes” e diventare – con le buone o con le cattive – cittadini dell’Impero Romano. Malgrado i tentativi di integrazione, il risultato fu che quel mondo sparì nel giro di pochi anni, travolto da un corto circuito culturale ed economico senza possibilità di rimedio. Per ritornare a condizioni di vita paragonabili a quelle della civitas romana, la popolazione europea ci mise poi qualcosa come mille anni.

E’ difficile dirlo in questo momento, con negli occhi quelle 280 bare allineate nell’aeroporto di Lampedusa. Ma esistono tragedie ancora peggiori di quest’ultima che ha avuto luogo nel nostro mare e che ha ributtato sulle nostre coste quei poveri corpi. L’unica cosa sicura è che questa classe politica, che noi insistiamo a mantenere per acquiescenza o supposta convenienza, non ce ne risparmierà sicuramente neanche una.