Nell’iconografia
ufficiale di Cosa Nostra, Totò u’ curtu e Binnu
u’ tratturi erano complementari come le loro controparti avversarie
statali, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il primo crudelmente estroverso, l’anima sanguinaria a caldo della mafia
corleonese, il secondo calcolatore e introverso, egualmente sanguinario ma
sempre a freddo, l’anima tutto sommato più pericolosa della cosca,
perché capace di nascondere le sue attività nelle maglie di quelle dello Stato
e della società civile, laddove il suo amico fraterno e sodale nel crimine le
aveva rese clamorosamente e sfrontatamente visibili.
Bernardo Provenzano nel 1963 subito prima di cominciare la latitanza |
I corleonesi. Salvatore
Riina e Bernardo Provenzano erano venuti alla ribalta
come luogotenenti di Luciano Liggio, il boss che per
primo aveva cominciato a scalzare il potere ed a cambiare drasticamente il
codice di regole della vecchia Mafia, facendone fuori in successione i capi
storici, da Michele Navarra a Gaetano Badalamenti,
a Tommaso Buscetta a Stefano Bontate, tutti
eliminati o comunque messi fuori gioco con smisurata violenza ed efferata
crudeltà nelle cosiddette guerre di mafia.
Luciano Liggio |
Totò e Binnu erano
diventati i numeri uno a partire da quel 1974 in cui Luciano Liggio
fu catturato e affidato alle patrie galere. In un primo tempo come luogotenenti
del boss che anche dalla prigione riusciva a commissionare loro
omicidi e vendette e a mettere a punto strategie. Poi in prima persona,
calcando ulteriormente il piede sull’acceleratore ed il dito sul grilletto.
Toccò dapprima all’estroverso. Totò
u’ curtu divenne il Capo dei Capi quando fece crivellare
di colpi Stefano Bontate e costrinse all’esilio Tommaso Buscetta. La vecchia
mafia palermitana era sconfitta, la nuova corleonese si trovò faccia a faccia
con lo Stato, e intese fargli guerra a viso aperto, com’era nel temperamento di
Riina.
Dall’omicidio Dalla Chiesa
a quelli di Falcone e Borsellino, fu un escalation accompagnata da un
immane bagno di sangue che raggiunse il culmine nel momento in cui, con il
crollo della Prima Repubblica, i corleonesi credettero di
poter vincere la partita costringendo il debole Stato alla resa. Il 23 maggio
1992, mentre Giovanni Brusca premeva il pulsante dell’innesco
del primo dei due attentatuni, Totò Riina sembrò avere effettivamente
vinto.
Totò Riina |
Ma uno Stato, anche uno Stato disastrato
e corrotto come quello italiano, non può arrendersi. E una cosca di
mafiosi come quella dei corleonesi può prosperare, ma non può mai vincere. Non
come immaginava Riina. Comunque sia andata, quanta parte di trattativa e quanta
di scontro effettivo abbia avuto luogo tra gli uomini dello Stato e quelli
della Mafia che sentivano il bisogno di prendere le distanze dallo stragismo
sanguinario del Capo dei Capi, gli uomini del ROS del
Colonnello Mori e del Capitano Ultimo gli
strinsero il cappio attorno ed il 15 gennaio 1993 lo mandarono a raggiungere il
suo vecchio boss sotto il regime di 41bis. Per poco
tempo, perché Liggio se lo portò via un infarto a Bad’e Carros.
Strage di Capaci |
Uscito di scena il Capo dei Capi,
da quel momento cominciò il regno dell’ultimo Padrino.
Bernardo Provenzano deteneva il record di latitanza, quando fu arrestato
finalmente l’11 aprile 2006. 43 anni. L’ultima volta era stato avvistato a
Corleone nel 1963, in
occasione di un arresto come sospettato di omicidio ed associazione a
delinquere. Fuggito, era riuscito a far perdere le sue tracce pur non
muovendosi mai dalla nativa Corleone. Soltanto una volta, pochi anni prima
dell’arresto si era recato in Francia sotto falso nome per una operazione alla
prostata. Poi, aveva governato sempre l’impero mafioso dai suoi nascondigli
corleonesi e con i celebri pizzini, foglietti di carta di cui non
rimaneva traccia, dopo che le sue disposizioni erano state eseguite.
Fedele alla sua anima all’opposto di
quella di Riina, calcolatore dove l’altro era stato irruento, Provenzano
riportò la Mafia dove in fondo era sempre stata prima dei corleonesi. Al di
fuori dei riflettori e delle cronache. Basta sangue, basta attentati,
basta pentiti, basta scontro frontale con uno Stato che almeno a livelli di
decenza si stava riorganizzando. Cosa Nostra, secondo lo schema
mirabilmente descritto dal Padrino di Mario Puzo e Francis
Ford Coppola, era interessata a riciclarsi e ripulirsi
passando ad attività alla luce del sole. A giocare in borsa, a fare affari, a
muovere grandi capitali e non più commandos e gruppi di fuoco.
Strage di Via D'Amelio |
Sotto la guida del viddranu, del
vecchio contadino Provenzano, ce la fece. Fino al punto di non aver più bisogno
di lui. Dicono che i nuovi boss, come quel Matteo Messina
Denaro che figura attualmente in testa alla lista dei ricercati,
assomigliano più a broker e operatori di borsa che ai due ex contadini
che misero a ferro e fuoco prima il corleonese e poi l’Italia a
partire dall’immediato dopoguerra. Per questa gente, per questa Cupola
in versione moderna, Provenzano forse era diventato ingombrante quanto e più di
Riina.
U’ tratturi, chiamato così
perché eliminava implacabilmente i nemici con freddezza ma con efficienza non
inferiore a quella dello stragista Riina, fu preso il giorno delle elezioni
politiche, l’11 aprile 2006. La data sembrò troppo una coincidenza per essere
una vera coincidenza. L’Ulivo di Romano Prodi
forse beneficiò di quella buona notizia nel riportare una vittoria
elettorale quasi di misura. Ciò che è certo è che l’uomo che aveva tenuto in
scacco lo Stato italiano per 43 anni si lasciò catturare senza opporre
resistenza, seguendo docilmente gli agenti.
Provenzano il giorno dell'arresto, 11 aprile 2006 |
Abbiamo tutti in mente il suo sguardo
sornione ed il suo sorriso beffardo, a mezza bocca, mentre esce dal covo
dove è stato catturato. Come di chi lascia che i nemici si godano il successo e
le luci della ribalta, perché tanto sa in sostanza di aver vinto lui, sempre e
comunque. Di aver lasciato la Mafia forse più forte di quando l’ha presa. Di
aver fatto tutto quello che voleva e doveva fare, lui, l’ultimo Padrino.
Forse ha ragione chi dice – con sintesi
indubbiamente poco lusinghiera per la nozione di Giustizia e di Stato che
conserviamo tutti nella nostra coscienza – che in Sicilia un Capo dei Capi
viene catturato solo quando Cosa Nostra non ha più bisogno di lui. E
ce n’è un altro pronto a prendere il suo posto. Forse, trattandosi di Mafia,
siamo destinati come diceva Falcone a vederla un giorno sconfitta o dissolta
come tutte le organizzazioni umane, ma mai a conoscere veramente le verità
che la riguardano.
Bernardo Provenzano è stato l’ultimo
Padrino. Almeno rispetto ai parametri di ciò che siamo stati abituati a
considerare un Padrino. E’ stato Cosa Nostra e Corleone quanto e più dei vecchi
boss, di Liggio, di Riina. Ha incarnato la Mafia come ce l’hanno sempre
descritta e come ce la aspettiamo.
Gli ultimi tempi la malattia l’aveva
ridotto a un povero vecchio in fin di vita come tanti. Come tanti, che non
hanno la sua storia alle spalle, per lui famiglia e avvocati avevano chiesto
l’attenuazione del 41bis, lamentando poi dopo la sua scomparsa di non
avergli nemmeno potuto tributare un ultimo saluto, un’ultima carezza.
Alle sue vittime e alle loro famiglie, né
lui né nessun altro dei suoi vecchi compagni corleonesi l’hanno mai concesso.
E’ oggettivamente difficile combattere la Mafia essendo lo Stato. Usando
legalità e umanità contro le lupare.
L’ultimo Padrino si è finalmente
presentato al processo più maxi che ci possa essere. Lassù, il 41bis,
se applicato, dura per l’eternità.
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