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lunedì 3 aprile 2017
giovedì 23 febbraio 2017
CONTROCORRENTE: Rivoltosi con il tassametro
Su una cosa devo dare ragione a
Matteo Renzi. Mentre noi stiamo qui a trastullarci con seghe mentali che
risalgono al ventesimo secolo, il mondo al di fuori di questo paese va avanti. E
lo fa correndo.
Ecco qua, i tassisti hanno messo
a ferro e fuoco Roma, e puntuale il governo di turno cala le brache e concede
loro quello che vogliono. Con il beneplacito dei Cinque Stelle, che avallano il
sacco della capitale schierandosi dalla parte dei fuorilegge con il tassametro.
I tifosi della Roma , a questo punto, se vogliono lo stadio nuovo sanno come
fare.
Le corporazioni medioevali le
abbiamo inventate noi, e all’epoca fu una grande invenzione. Ora sarebbe il
caso di andare avanti, di tuffarci in quel mondo moderno che ormai ci circonda,
ci accerchia, e invece facciamo di tutto per qualificarci come lo stato più a
nord del continente africano. Milano, capitale morale da sempre di questo Stato,
ha dato l’esempio: piantati stanotte i banani a fianco delle palme, i migranti
non potranno dire di non sentirsi a casa.
No, a noi le corporazioni
piacciono. E’ il libero mercato che ci fa paura. Lì bisognerebbe competere, sul
serio, e noi italiani ormai siamo capaci di competere soltanto a sciocchezze. Viva
i tassisti, dunque, che secondo la parte più progressista di questa opinione
pubblica difendono la parte più sana del lavoro e dell’imprenditoria nazionale.
Nel resto del mondo civile, Uber è il progresso, andare dal centro di Londra
all’aeroporto di Stansted con poco più di 10 sterline, come è successo a mio
figlio di recente, questo è il progresso. Da noi, il progresso è consentire che
una persona che deve andare dalla stazione di Firenze al suo aeroporto (3 km. scarsi di strada) debba
essere taglieggiata in modo tale che il taxi costa più dell’aereo che va a
prendere, dovunque sia diretto o quasi. O che una signora anziana, mia madre,
paghi più di taxi per andare dalla casa di riposo a Porta Romana al laboratorio
di analisi convenzionato in Piazza Indipendenza (altri 3 km. scarsi) che di ticket, e
dire che i ticket della sanità di Enrico Rossi non scherzano.
Il progresso è sempre ciò che fa
comodo a noi. Gli altri sono “fascisti”, sempre gli altri, che salutino
romanamente o no. Dice: la licenza comunale costa cara, le tariffe elevate dei
taxi di casa nostra devono tenere conto di questo investimento iniziale. Sarebbe
come dire che siccome il pizzo alla mafia costa, i negozianti delle zone di
mafia sono autorizzati a tenerne conto nei prezzi. Non solo, ma siccome l’investimento
del pizzo va salvaguardato, non è giusto combattere la mafia! Chi risarcirebbe
in tal caso i negozianti del pizzo pagato?
E’ la logica di Aldo Rizzo, e di
tutti coloro che nel 21° secolo inneggiano ancora al comunismo – o al limite al
“progressismo” - e non si peritano di
schierarsi a fianco di una banda di lanzichenecchi scatenati peggio che nel
1527, contro “i miliardari di Uber”. Credo che Karl Marx si stia rivoltando
nella tomba, al pensiero della moltitudine di mentecatti che ha sdoganato.
E’ la logica di Enrico Rossi, che
si batteva contro l’apertura domenicale dei negozi, in nome dei diritti dei
lavoratori (ovviamente pagati da qualcun altro, i suoi possono schiantare).
Ma a noi del mondo moderno non ce
ne po’ frega’ de meno. I veri diritti dei lavoratori li sappiamo noi quali
sono. Comprendono anche quelli di sfasciare le vetrine dei negozi di altri
lavoratori, di rivoltarsi a mano armata contro la polizia, e di ritrovarsi – al
posto del provvedimento di arresto ed al ritiro della licenza come sarebbe
giusto e doveroso – a fine giornata con la pacca sulla spalla del governo, e
con i complimenti dell’opposizione che si prepara a governare.
Ho sempre invidiato tante cose
all’Inghilterra. Una di queste è quel sentimento nazionale e di legalità
democratica che ha prodotto a suo tempo, nel momento forse più difficile di
quella nazione nel dopoguerra, una Margaret Thatcher. Maggie non avrebbe dato
pacche sulle spalle ai rivoltosi con il tassametro. Li avrebbe lasciati
scioperare sei mesi, non sei giorni. Li avrebbe fatti schiantare, come fece con
le Trade Unions o con i Provisionals dell’Irish Republican Army. Il sindacato
più potente del mondo e il gruppo terrorista all’epoca più organizzato del
mondo.
Negli stessi anni noi avevamo De
Mita. Poi Prodi. Adesso Gentiloni.
Forza Roma. #famostostadio
#moavetevistocomesefa
mercoledì 22 febbraio 2017
Gli ultimi giorni del PD
Michele
Emiliano resta, Enrico Rossi va. Alla fine lo Scisma
si consuma, ma ha ben poco di drammatico e molto di farsesco. I protagonisti
aspirerebbero forse a recitare un ruolo tragico, shakespeariano, in questa
vicenda. Il Governatore della Toscana probabilmente si sente un novello Macbeth,
quello della Puglia un Amleto dei giorni nostri. Pierluigi
Bersani, uno dei numi tutelari di questa fine ingloriosa di un partito
che era finora sopravvissuto a ben altri drammi e scissioni, probabilmente vaga
sconsolato per i meandri della propria mente sconvolta come un Riccardo III
Duca di York. E chissà, a proposito di menti, se quella di Massimo
D’Alema ormai è tormentata dagli stessi incubi di un Re Lear.
Ma Shakespeare è lontano dalla sede del
PD, non siamo sull’Avon ma sul Tevere le cui acque hanno visto scorrere anche
questa, mentre fuori della sede di quello che era il partito di maggioranza
urlano i tassisti inferociti contro la legge Bersani e il Milleproroghe
di Gentiloni, qualcuno alza il braccio destro in un saluto
romano che da queste parti è sempre fortemente evocativo, ed i Cinque
Stelle di lotta e di governo non trovano di meglio che cavalcare
questa tigre inaspettata, trattenendo a stento il grido di carica! e
l’irruzione nella sede dello psicodramma del partito democratico.
Shakespeare, dicevamo, non abita qui. I
personaggi in cerca di riposizionamento, più che di autore, assomigliano più a
quelli della commedia goldoniana o dei pupi siciliani. Baruffe chiozzotte
e finte mazzate, scene da consultorio di igiene mentale
alternate a sussulti di straordinaria lucidità e autoconsapevolezza sul letto
di morte.
Già, perché l’unico dato certo è che il
partito che una volta si chiamava comunista e adesso democratico
non riuscirà quasi certamente a bissare la ricorrenza del centenario che riuscì
di celebrare al partito socialista, poco prima di dissolversi
nella bufera di Mani Pulite. Il 21 febbraio, giorno in cui
ricorre il 169° anniversario della pubblicazione a Londra da parte di Karl
Marx e Friedrich Engels del Manifesto del
partito comunista, il PCI – PDS – DS – PD vede certificata la sua
entrata in coma irreversibile e si appresta a lasciare la scena che ha calcato
per tutto il dopoguerra nel nostro paese.
A differenza di Craxi, bersaniani
e/o renziani non riusciranno a soffiare sulle cento candeline che
avrebbero dovuto essere accese il 21 gennaio 2021, e chissà in che condizioni
arriveranno alla ricorrenza della rivoluzione d’ottobre, il 7 novembre
prossimo, secolare anniversario del suo evento fondante principale, la
rivoluzione bolscevica russa.
Ma per quanto lunga, più o meno
drammatica (è dal 1956 all'incirca che il principale avversario degli esponenti
e dei militanti di questo partito è la coscienza, prima ancora che
l’intelligenza), più o meno condivisibile o esecrabile, la lunga storia della cosa
rossa finisce appunto in farsa, in tragicommedia.
E’ lo stesso segretario uscente Matteo
Renzi a confermarlo: «Fuori di qui, ci prendono per matti». E
meno male, viene da aggiungere, non a selciate, come è toccato a tanti
malcapitati che ieri a Roma si sono imbattuti o trovati sulla strada dei
manifestanti anti-Uber. O a monetine, come toccò a Craxi
all’uscita dell’Hotel Rafael quando Mani Pulite lo
detronizzò togliendogli il partito socialista, dimenticando poi di fare la
stessa cosa con i dirimpettai comunisti.
C’è la sensazione appunto che questo
appuntamento con la storia sia stato ritardato - con quali danni per l’Italia
chissà quando finiremo di apprezzarlo e di quantificarlo - di venticinque anni
circa. E che alla fine si ritorni comunque al celebre aforisma di Karl Marx,
secondo cui la storia si ripete sempre due volte, la prima in tragedia, la
seconda in farsa. O magari, nell’accezione di Indro Montanelli,
secondo cui in Italia si riesce sempre a trasformare la tragedia direttamente
in farsa, saltando – è sottinteso – il primo passaggio.
E così, mentre chi sogna un’Italia senza
PD dovrà rassegnarsi a ringraziare paradossalmente Matteo Renzi, l’uomo che ce
la sta facendo a distruggerlo, restano sul palco, o a terra, le comparse.
Michele Emiliano fa un dribbling degno di Lionel Messi e scarta tutti, compagni
ed avversari. «Questa è casa mia», dice, annunciando la candidatura
anti-renziana. «Se vinco, riunirò di nuovo il PD». Più facile annullare
lo Scisma del 1054 con la Chiesa Ortodossa o la Riforma Protestante, ma non è
questo che interessa al funambolico fantasista pugliese. Emiliano è il vero
erede di Walter Veltroni, con i suoi ma anche. Sto
fuori, ma anche dentro. Provate a prendermi, se vi riesce.
Bersani si aggira sconsolato per la landa
desertica dei suoi collegi elettorali, una volta orgogliosamente bulgari
nelle loro percentuali, farneticando di recupero di posizioni tra i giovani e
scrivendo sonetti in vernacolo ad Elsa Fornero. D’Alema si è
imbarcato sul suo brigantino, e veleggia verso chissà quale porto. Forse il suo
destino è quello dell’Olandese Volante, tra Capalbio e Gallipoli le
sue urla e le sue maledizioni risuoneranno terrorizzando gli scismatici fino
alla notte dei tempi.
Ma il destino più incerto, per gli amanti
del genere thriller, è quello di Enrico Rossi. Malgrado schiere di legulei e di
filosofi del diritto siano già all’opera per dimostrare il contrario, da ieri
sera il transfuga convinto di essere l’unica e ultima speranza dei lavoratori
italiani non ha più maggioranza in Consiglio Regionale. La sua Giunta reggerà
fino al 15 marzo, data in cui il congresso del suo ex partito sancirà
verosimilmente la riconferma di Renzi a segretario e, tra le altre cose, il
passaggio dei suoi 28 consiglieri ad altro referente. Da quel momento (che
peccato aver riformato lo Statuto e la legge elettorale giusto qualche
anno fa......), decorrono sei mesi oltre i quali – a prescindere da come
avranno luogo le doverose dimissioni di presidente ed assessori – c’è soltanto
la conclusione anticipata (per la prima volta dal 1970) della legislatura
regionale, dopodiché nuove elezioni.
A quel punto, una candidatura al
parlamento europeo, sdegnata da Rossi due anni fa e adesso agognata come unica
ancora di salvezza della sua carriera politica, sarà assai improbabile, se
conosciamo Matteo Renzi come abbiamo imparato a conoscerlo in questi anni.
Poi resterà un uomo solo al comando. Fino
alle elezioni politiche. La storia cominciata a Livorno finisce a Rignano.
giovedì 16 febbraio 2017
CONTROCORRENTE si può andare, contro l'ignoranza no
La tentazione sarebbe quella di
smettere. Cercare di fare cultura e informazione oggi in Italia, e forse
anche in parte del resto del mondo, è una battaglia persa. Le generazioni più
vecchie non riescono a liberarsi di ideologie ormai morte e sepolte. Quelle
nuove sono un abisso spaventoso di ignoranza, sul quale la scuola è passata lasciandolo
assolutamente indenne ed in compenso le propaggini imputridite di quelle
ideologie vi si sono infilate indisturbate, riempiendo il vuoto culturale
istituzionale con una fila di sciocchezze da far impallidire tradizionali
boiate sistemiche come il veganesimo,
le scie chimiche, il complottismo, l’avvistamento degli alieni e compagnia bella.
Pubblico articoli nel Giorno del Ricordo pensando che ormai
siano pagine di storia acquisite, un rituale della memoria comunque utile alla
commemorazione doverosa di tante povere vittime della bestialità umana mai
estinta, ma che comunque abbia poco ormai da aggiungere all’accertamento della
verità storica. Mal me ne incoglie. Fascisti
e Comunisti risorgono dalle tombe
come mummie per prendermi a male parole da ambo i lati della stupidità umana elevata a
sistema. I vecchi, quando va bene, mi danno del fazioso (!): “eh, ma te racconti solo metà della storia,
non dici cosa avevano fatto prima i fascisti!”
Oltraggio, che consapevolmente o
meno, si aggiunge alla tragedia. Nelle Foibe ci finirono semplicemente italiani, non fascisti. Quella fu l’autogiustificazione
che si dettero gli Jugoslavi, che si trovarono per combinazione dalla parte
vittoriosa della guerra mondiale, e poterono coronare un sogno plurisecolare:
quello di mettere le mani su terre da sempre condivise con la comunità italiana
che – dai tempi della Repubblica di Venezia e poi dell’Impero Austro-Ungarico –
era la parte più sviluppata e civile della popolazione di Venezia Giulia, Istria,
Dalmazia, fino giù a tutto l’Adriatico. Gli Slavi, che bestie erano stati –
tanto per cambiare – durante tutta la guerra l’un contro l’altro, bestie si
dimostrarono nel massacrare italiani inermi (colpevoli solo di aver svolto il
servizio militare o civile come loro dovere) soltanto per mettere le mani sui
loro beni. La verità è questa, il fascismo ed il comunismo furono le
sovrastrutture filosofico-politiche di cui si dotarono emeriti figli di puttana da ambo le parti. Peccato
che del fascismo si sa tutto, del comunismo ancora si negano le atrocità. A
costo di equiparare i nostri poveri connazionali, gettati ancora vivi nelle
Foibe, alle Camice Nere, come fecero
– in ossequio ai loro abbietti appetiti – i membri dell’esercito del popolo di Tito.
Ho sempre istintivamente disprezzato gli Jugoslavi e la loro prosopopea, anche
se ormai è acqua passata. Non credevo di dovermi ritrovare a disprezzare tanti
miei connazionali che hanno consegnato il cervello a ideologie ed interessi che
non esistono nemmeno più, ma che come la terra avvelenata di Chernobyl continuano ad esalare i loro velenosi miasmi.
I giovani, poi, sono peggio di tutti. Parlano
come avanguardisti di Mussolini o
come picchiatori del Movimento Studentesco. Hanno studiato storia sui manga giapponesi, quando è andata bene. In
compenso sono pronti a bruciare qualsiasi libro che – sopravvissuto ai tempi e alla desuetudine –
tenti di spiegare loro com’è andata veramente.
Pubblico un commento a Focus
Storia, a proposito della Battaglia di Cassino dove gli Alleati sacrificarono l’Abbazia
di San Benedetto alla necessità di aprirsi la strada per Roma, sperando di
accorciare la guerra. I commenti medi – di giovani e meno giovani – sono che i “conquistatori amerikani” fecero scempio
del nostro patrimonio per umiliarci e sottometterci. Qualcuno addirittura
paragona a loro la signorilità dei
tedeschi che imballarono e portarono via
le opere d’arte. Ovviamente per salvaguardarle, come Siviero ha dimostrato.
Gli Ameri-Cani – cito ancora
testualmente – preferirono distruggere. Sottomettere. Conquistare. Piegare. Assoggettare.
Cosa gli vuoi spiegare a queste
vecchie e nuove teste di cazzo malnutrite culturalmente da una vecchia e nuova
scuola dove ai miserrimi maestrini e gli indegni professori fascisti della
riforma Gentile si sono succeduti i miserrimi maestrini e gli indegni
professori comunisti delle riforme Berlinguer e seguenti? Gli vuoi tentare di
far capire che Mussolini entrò in guerra attaccando una Francia già in
ginocchio nel giugno 1940 e mandando i suoi aerei a partecipare al
bombardamento di Londra a fianco della Luftwaffe di Hitler, quando tutto il
mondo libero lo scongiurava di restarne fuori, almeno fuori come aveva fatto la
Spagna di Franco?
Cosa gli vuoi spiegare a queste
teste di cazzo? Che gli Inglesi, dopo di ciò, e i Francesi non potevano certo
amarci alla follia? Che ci siamo salvati proprio grazie alle nostre opere d’arte,
altrimenti ci avrebbero spianati volentieri, ed a ragione? Che fu proprio
grazie alla benevolenza americana se ce la siamo cavata con un trattato di pace
che ci ha tolto (ahimé) solo l’Istria e parte della Venezia Giulia, oltre alle Colonie,
e se la ricostruzione italiana fu tutto sommato a buon mercato grazie al Piano Marshall che ci ricomprese anche a
noi, malgrado Inglesi e Francesi pensassero che non ce lo meritavamo? Che fu
grazie a Baffone Stalin se il dopoguerra durò solo un anno e mezzo, e dal 1947
eravamo di nuovo a piede libero? Libero soprattutto di rompere i coglioni con
il nostro revanscismo parolaio agli Americani
ed agli Alleati che ci avevano graziati?
Cosa gli vuoi spiegare alla
sezione locale del Fascio di Montecassino, o alla sezione locale della Casa del
Popolo di Vattelappesca, o ai collezionisti di Pokemon cresciuti nel vuoto
culturale assoluto e che improvvisamente si ritrovano elettori e il voto di
queste testine di cazzo allevate in provetta finisce che vale come il mio e il
tuo?
Mi ricordo che all’esame di Maturità
portavo storia. La professoressa in commissione era una comunista di quelle
toste, una berlingueriana di ferro. Riuscii a fare un buon esame mantenendomi
su posizioni liberal. Il mio diritto
di voto sostanziale me lo conquistai a caro prezzo, non presi 60/sessantesimi,
ma da allora non ho più avuto paura di sostenere alcuna discussione, con
nessuno. Alle Superiori adesso, è
tanto se hanno letto due o tre capitoli del No Logo della Klein o
sanno i testi in lingua originale di due o tre canzoni di Manu Chao, e giusto perché
qualche vecchio rottame sopravvissuto al Sessantotto
gliele ha fatte imparare a forza. Voteranno prima o poi il prossimo Hitler, e a differenza che i tedeschi a
Weimar non se ne accorgeranno
neanche.
Mi scuso per il linguaggio crudo,
ma forse la misura è colma. Continuare a pubblicare articoli che poi alimentano
– quando va bene – gare di rutti e di insulti forse non è più il caso. La storia
ormai la fanno i Pokemon, quelli “rossi” e quelli “neri”, e le loro “evoluzioni”.
Buon divertimento, io ne ho le
scatole piene.
martedì 14 febbraio 2017
La resa dei conti
Si apre il Direttorio del PD, e
si rinnova il fenomeno Renzi. Lo vedi su quel palco in
abbigliamento simil Marchionne, in tono apparentemente
dimesso, e ti chiedi come abbia fatto questo omino che all’apparenza ha tutto
meno che carisma e predestinazione a impadronirsi di un partito che si era magnato e
digerito senza bruciori di stomaco eccessivi tutta una fila di leaders storici
che veniva da assai lontano, molto più lontano di questo ragazzotto che nel
curriculum aveva una comparsata da Mike Bongiorno e poco
altro. Ad impadronirsi poi, tramite quel partito e le sue grandi e piccole
manovre, di un paese intero, andando vicinissimo a cambiarlo, o per meglio dire
a stravolgerlo, per sempre, irrimediabilmente.
Matteo Renzi sembra
l’Uomo Qualunque. Un fenotipo, un mito a rovescio che esiste dal
dopoguerra, da quando il giornalista Guglielmo Giannini fondò
l’omonimo movimento, destinato ad un successo ben più sostanzioso di quanto non
gli tributassero le sue fortune immediate ed effimere. Il segretario del PD,
che potrebbe essere l’ultimo anche se Nostradamus non l’ha
predetto, sembra proprio qualunque, che più qualunque non si può. Un ragazzotto
fiorentino, il cui eloquio è ricolmo dei luoghi comuni, dei pettegolezzi, dei
becerumi, degli intercalari di tanti ragazzotti fiorentini.
Diciamo la verità, Matteo Renzi
dice poco di sinistra, per dirla con Nanni Moretti, ma
dice poco in assoluto. Rimastica idee e programmi altrui, come quando nel 2009
fece propri quelli di Giovanni Galli nella corsa alla poltrona
di Sindaco di Firenze, scippandogliela con gesto abile e premonitore. O come
quando seppe indubbiamente interpretare il malpancismo della base PD prima e
del paese intero poi, ai quali le uscite di Pierluigi Bersani,
novello Don Peppone, non facevano più neanche ridere, come ai tempi
di Giovanni Guareschi e Gino Cervi. Ci voleva poco
a vincere le primarie nel 2013, bastava non essere della vecchia guardia PD,
quella che si era consegnata mani e piedi ai Napolitano, ai Monti,
alle Fornero, alle Merkel.
E allora come te lo spieghi? Non
è simpatico, non è intelligente (o almeno fa tutto per non esserlo), si
circonda di Marie Elene Boschi, non ti propone niente che ti possa cambiare la
vita in meglio, eppure dalla prima apparizione alla Leopolda fino
al referendum del 4 dicembre scorso, post comunisti e post democristiani gli
sono andati dietro compatti manco fosse la reincarnazione di Togliatti e De
Gasperi messi insieme. Il paese si è lasciato abbindolare come i topi
dietro al Pifferaio di Hamelin, manco avessimo trovato anche noi il nostro Tony
Blair.
Matteo Renzi è un fenomeno
difficile da comprendere. Le sue vicende personali l’hanno convinto di essere
un uomo della provvidenza. Ogni tanto si affacciano nella storia d’Italia. Lui
si è sentito tale, e per di più arrivato nel più giusto dei momenti giusti. E
avendo la faccia tosta che ha, è riuscito – con linguaggio semplice, mimica ad
effetto, improntitudine e mano lesta dal punto di vista della
spregiudicatezza nel far proprio politicamente tutto ed il contrario di tutto,
nonché, last but not least, l’appoggio di alcuni poteri forti che
più forti non si può – a tirarsi dietro molti di più dei cittadini che
risultano in quota al PD. Che non l’hanno mai potuto votare, grazie al suo
mentore Napolitano, ma che per un certo periodo, una certa luna di
miele, l’avrebbero sicuramente fatto. Prima che la bancarotta di stato, il Jobs
Act e la costituzione cambiata con i punti del supermercato
dispiegassero i loro effetti.
Gli uomini della provvidenza,
comunque, non si fanno da parte, non rimettono il mandato, non tornano come
Cincinnato a coltivare l’orto, se ce l’hanno, o a mandare avanti l’azienda di
famiglia, se ne sono capaci. Matteo Renzi pare dimesso e casual come
un Marchionne qualsiasi, mentre arringa il direttorio PD dal palco. E ti viene
subito fatto di commettere il più grave degli errori: sottovalutarlo.
Come sempre, non ha nulla da
dire, ma sa come dirlo. E soprattutto sa cosa fare. Del resto, non ci vogliono Metternich o Bismarck,
il gioco è semplice. Se si dimette, e poi il congresso gli rinnova la fiducia,
ha stravinto ed è libero di condurre il partito ad uno scontro frontale con il
resto del paese che l’aspetta al varco, ma che ancora non ha trovato un leader
di caratura sufficiente da contrapporgli. Se si dimette, e poi dal congresso
esce un partito spaccato in due come successe 96 anni fa a Livorno dove tutta
questa storia è cominciata, ha vinto comunque, perché la minoranza PD non va da
nessuna parte e al massimo può dedicarsi come Gianfranco Fini a
coltivare proprie fondazioni più o meno cultural – nostalgiche. Lui invece
screma il partito dagli avversari e può tentare di ripresentarlo come il
partito della patria, Matteo Renzi per salvare l’Italia. E
ritentare la sorte al cospetto dell’italiano medio, che su certi carri ha
sempre la tentazione di saltarci. Confidando che nel frattempo la magistratura
alta e bassa gli abbia reso il servizio di sbarazzarlo di Cinque Stelle,
leggi elettorali a questo punto scomode, e quant’altro la società civile ha
faticosamente elaborato in termini di anticorpi all’unico vero populismo che si
è affacciato alla ribalta negli ultimi anni: il suo. E confidando anche in un
panorama dei mass media quasi completamente arruolato o asservito, e pronto a
ridipingere il suo carro come quello del vincitore, appena gira il vento.
E mentre tutti si chiedono se era
giusto che vincesse Fiorella Mannoia al Festival di
Sanremo, se c’era il rigore per la Juventus domenica scorsa, o si
distraggono dietro la patata bollente della Raggi o la
ipotetica candidatura di Laura Boldrini alla guida della
sinistra unita (non siamo così fortunati, purtroppo, almeno non coloro di noi
che vorrebbero vedere un’Italia senza PD prima di morire), lui si presenta
dimesso, ferito e pronto al passo indietro. Che come tutti sanno, è il primo
passo della rincorsa in avanti.
La provvidenza segue percorsi strani,
tortuosi a volte, e imperscrutabili. E i suoi uomini non si fanno mai da parte,
non rimettono mandati. La Storia finisce sempre con loro.
venerdì 10 febbraio 2017
Il Giorno del Ricordo secondo Laura Boldrini
Questa volta, Sergio Mattarella fa sapere per tempo
che non ci sarà. Precedenti e superiori impegni. Lo Stato italiano, alla
commemorazione dei Martiri delle Foibe, non ci sarà. La prima
carica di quello Stato ha di meglio da fare. Del resto, dopo nove anni di presidenza
del comunista Napolitano, ci siamo in qualche modo abituati: i
morti giuliani e istriani della metà degli anni Quaranta sono morti di serie B.
Recupero di cadaveri alla Foiba di Vines |
Sapevamo di dovercelo aspettare dall’uomo che aveva cominciato la sua
carriera inneggiando ai carri armati sovietici a Budapest nel 1956, e che l’ha
conclusa dando una robusta spallata alla democrazia nel suo paese, nel 2011.
Non sapevamo ancora bene cosa aspettarci dal suo successore, il democristiano
Mattarella. Adesso è chiaro, stessa retorica a vuoto, stesso assenteismo
istituzionale, quando non peggio.
La seconda carica del medesimo Stato, il presidente del Senato Pietro
Grasso, si accoda volentieri, come suo solito. Non ci sarà nemmeno lui. Da
Grasso, sapevamo di dovercelo aspettare, punto e basta.
Con la terza carica, la presidentessa della Camera Laura
Boldrini, non siamo così fortunati, è il caso di dire. La donna che si è
fatta un dovere di insultare quasi quotidianamente il popolo che rappresenta (e
per di più, a sue spese) ha tirato fuori dal cilindro l’ennesimo coniglio
prodigioso. Ecco dunque invitata a tenere una conferenza stampa alla Camera
dei Deputati la storica (si fa per dire)
negazionista Alessandra Kersevan, le cui tesi sono
riassunte esaurientemente in questo estratto: Commemorare i morti nelle
Foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e
collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei
conti o vendette personali, c’è il 2 novembre.
Non c’è che dire, sostituire il Giorno del Ricordo (stabilito
con legge della Repubblica 30 marzo 2004 n. 92, che recita tra l’altro: al
fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di
tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani,
fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del
confine orientale) con il Giorno dell’Insulto rappresenta veramente
l’ultima frontiera per l’ineffabile presidentessa della Camera, che veramente
non si pone più limiti.
La donna che vorrebbe mettere sotto controllo tutto il web non riesce
più a tenere sotto controllo la propria brama distruttiva del sentimento
nazionale e dei valori fondanti di questo paese, affermatisi tra l’altro nel
bagno di sangue che questo paese stesso come il resto del mondo affrontò negli
anni tra il 1940 ed il 1945.
Quello che salta agli occhi, oltre al già ricordato silenzio delle
istituzioni, è il parallelo silenzio della comunità civile, eccezion fatta per
i sopravvissuti ed i discendenti di quei poveri martiri di cui la signora
Kersevan ha così brillantemente concionato nelle stanze di Montecitorio.
Quando si fa avanti il negazionismo dell’Olocausto del popolo
ebraico, le comunità e le istituzioni interessate si fanno subito sentire,
stigmatizzando giustamente questa pratica incentivata dall’analfabetismo
popolare di ritorno, non soltanto sul piano storico. Per gli istriani ed i
giuliani non si fa sentire nessuno, se non quei pochi che hanno avuto la
ventura di conoscere la loro tragica vicenda, o per retaggio familiare o per
fortunosa acquisizione sui banchi di una scuola che è sempre stata
vergognosamente acquiescente alle ragioni della parte comunista e di chi con
essa voleva più o meno storicamente compromettersi, nelle varie epoche fino al
1992.
L’Istria è persa ormai per la nostra comunità nazionale, e
nessuno vi andrà mai a scavare per riportare alla luce quelle fosse comuni,
quelle foibe piene di cadaveri giustiziati in modo atroce,
bestiale, che smentirebbero in cinque minuti la cialtroneria storica della
signora Kersevan e svergognerebbero i motivi non meno abbietti di chi l’ha
ospitata a tenere la sua vergognosa conferenza. Ma Trieste è
tornata all’Italia, nel 1954, dopo i 40 giorni di terrore assoluto vissuti
sotto la scorribanda e la razzia dell’esercito del popolo di Tito nel
1945 e dopo i quasi dieci anni di purgatorio sotto l’amministrazione e la
(provvidenziale) difesa dei Blue Devils americani installati
nel Castello di Miramare. A Trieste chiunque può raccontare la
verità storica sulle Foibe, e basta fare pochi chilometri e salire
sull’altopiano carsico, dove il Sacrario di Basovizza parla
più di qualsiasi parola.
Un altro Giorno del Ricordo trascorrerà nel doloroso silenzio a cui le
vittime sono abituate da settant’anni, così come i superstiti. Lo Stato
italiano ha dimenticato, quando non ha sbeffeggiato come stavolta. Il popolo
italiano, per il suo stesso bene, è il caso però che non dimentichi.
Il sangue dei giuliani, degli istriani, degli italiani del nord-est
riposi in pace, finalmente, se può.
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martedì 7 febbraio 2017
Seppellite la mia racchetta sul Rio de la Plata
Gli occhi di Corrado
Barazzutti tradiscono sul suo volto dolorosamente invecchiato una vita
di passione sportiva condensata negli interminabili e drammatici scambi di
questo Argentina – Italia, diventato improvvisamente un crocevia
del destino per un movimento sportivo che insegue una rinascita, un ritorno di
fiamma sempre più lontani, malgrado questa vittoria per vari motivi alla fine
insperata.
L'abbraccio finale tra Barazzutti e Fognini |
In campo, Fabio Fognini
detto Psycho fa una volta di più tutto quello che un tennista non
dovrebbe fare, e va a finire che forse vince proprio per quello, dopo aver
constatato l’impossibilità, la propria idiosincrasia a giocare un match normale,
a rispettare comunque un pronostico. La maratona finale nella gazzarra del Parque
Sarmiento consegna l’Italia ai quarti di finale di Coppa Davis,
un traguardo che una volta – tanti anni fa, all’epoca gloriosa di quell’uomo
segnato dal tempo che ora siede in panchina come capitano non giocatore – era
il minimo sindacale per il nostro tennis, e che ora invece va salutato come
un’impresa prodigiosa. Tanto più perché compiuta nella tana del nemico,
a Buenos Aires, in casa dell’avversario più nazionalista, orgoglioso,
irriducibile e casinista che esista al mondo. E perché compiuta da protagonisti
che una volta di più si erano dimostrati non all’altezza, vanificando i doni
che la sorte aveva elargito stavolta.
L’Argentina che avevamo di fronte era la
squadra C, malgrado fosse campione in carica, detentrice dell’Insalatiera
che faceva infatti bella mostra di sé al Parque. Fuori Del
Potro e Delbonis, gli eroi di Zagabria. Fuori anche
le seconde linee Monaco, Zeballos e Schwartzman,
l’Albiceleste messa in campo da Daniel Orsanic era
composta di terze scelte come Leonardo Mayer e Diego
Pella e di un quasi ex giocatore come l’incredibile Carlos
Berlocq, che a 34 anni ha avuto la forza di riproporsi come salvatore
della patria nonché il coraggio di riprendere pubblicamente un tifoso
d’eccezione come Diego Armando Maradona, presente al Parque
come ad ogni manifestazione in cui la sua nazionale gioca contro quella
italiana, a mantenere viva – nel modo più scomposto possibile – una rivalità
che risale a Italia 90.
Assai poco consono al tennis, il tifo di Dieguito
ha finito per disturbare lo stesso Berlocq prima ancora che gli avversari
azzurri. La Hinchada porteña invece è stata ben accetta e ha sostenuto
la quasi rimonta argentina per tutti e quattro i giorni della maratona conclusa
da Fognini al quinto ed ultimo set dell’ultimo incontro. Per chi si lamenta
della scarsa sportività dei sudamericani – considerato che l’epoca dei gesti
bianchi in questo sport è trascorsa da un pezzo -, ricordarsi di cosa
succedeva qualche anno fa, sempre all’epoca dell’uomo che ora siede in
panchina, per capirsi, in luoghi come il Foro Italico di Roma.
Corrado Barazzutti accanto alla Coppa che vinse nel 1976 |
E' un mestiere difficile quello del capitano
non giocatore. Corrado ormai parla con gli occhi, nei quali si alternano
la mestizia per le condizioni attuali del nostro tennis, la stanchezza per una
vita trascorsa in campo e a bordo campo ad inseguire sogni che si sono avverati
una volta sola, a Santiago del Cile nel 1976, e solo occasionalmente qualcuno
di quei lampi che gli si accendevano all’epoca in cui tutti lo conoscevano come
il Soldatino, e nessun avversario si augurava mai di incontrarlo.
Quei lampi che adesso si accendono soltanto, c’è da credergli, allorché come
tutti noi vorrebbe strozzare qualcuno dei suoi e nostri beniamini
quando maltrattano il tennis e sprecano le occasioni come in questi giorni.
L’Italia dei pallettari e dei
talenti incostanti va sul due a zero venerdi, sfruttando la sufficiente
consistenza di Lorenzi contro un Pella preso
a freddo e poi la solidità di Seppi contro un Berlocq che
ancora non è ridiventato Berlocq e più frastornato che sostenuto dagli urlacci
di Maradona & compagni. Nel doppio, Bolelli ha il tocco di
palla di un tagliaboschi e Fognini la saldezza di nervi di un neuropatico, così
Berlocq diventa il Maradona del tennis e Mayer gli va dietro
anche su una gamba sola. Sul 7-6 al tie break finale, Fognini commette
l’ultimo di una serie di errori allucinanti e spreca l’unico match ball,
consegnando agli argentini il primo punto di una rimonta in cui non credevano
nemmeno loro.
Domenica, la pioggia aiuta l’uomo che ha
giocato di più, Berlocq, tirandolo fuori da un paio di sovraffaticamenti al
momento giusto. Lorenzi ha carattere pari alla classe, cioè poco, e va in crisi
puntualmente durante il crescendo parossistico dell’avversario. Gli occhi del
romano naturalizzato senese – come quelli del ligure marito di Flavia
Pennetta il giorno prima – sono quelli dello sconfitto ben prima che
si arrivi alle strette finali del rispettivo incontro.
Lunedi, Barazzutti vorrebbe tanto
selezionare se stesso. Non potendo, deve scegliere dall’alto della sua lunga
esperienza di fighter, di match winner, di coach di
lungo corso, tra Andreas Seppi poco genio ma nessuna
sregolatezza e Fabio Fognini detto Psycho. Capitano coraggioso, manda
in campo il meno affidabile e, occasionalmente, il più talentuoso.
Per i primi due set viene voglia di
chiedersi da quando il Soldatino si sia convertito all’estro, e subito
dopo di maledire quel momento. Il nostro portacolori in campo ne combina di
tutti i colori sbagliando lo sbagliabile e finendo travolto da un Pella che
sembra Andre Agassi. Neuro Fognini ricorda tanto il
peggior Paolo Cané, che litigava con tutto il mondo pur di non
prendersela con se stesso, una specie di manuale del tennis a rovescio. E
finiva a perdere match che gridavano vendetta. Questo, poi, a perderlo ci attirerebbe
lo scherno argentino per i secoli a venire, battuti dalle riserve delle
riserve.
In panchina, parlano gli occhi in quel
volto segnato dal tempo e dalle battaglie, reso epico da quella barba bianca
che ricopre una mascella che quando si induriva – ai suoi tempi – intimoriva
qualsiasi avversario. Gli argentini di quei tempi si chiamavano Guillermo
Vilas e José Luis Clerc, immaginate Del Potro e
Delbonis con il doppio, il triplo del talento. Gli occhi del Soldatino
forse sovrappongono quelle antiche battaglie a quella che sta avendo luogo
adesso sulla terra rossa di Buenos Aires. Per questo si illuminano come lampi
di un uragano, di tanto in tanto. O forse perché vorrebbe serrare le mani al
collo di quel Fognini a cui ha dato fiducia, e che lo sta ripagando con così
tanta inettitudine?
Fabio Fognini in azione |
Sta di fatto che il signor Pennetta
risorge nel modo più anticonvenzionale. Litigando con arbitro e pubblico, di
solito ci si perde definitivamente. E’ una fuga psicologica da se stessi, una
resa anticipata con tanto di abbandono a pretesti esterni che consentono di non
guardarsi dentro, non dare la colpa all’unico vero responsabile. Ma Fognini, è
anche vero, di questa squadra è l’unico che sa giocare a tennis. Pella comincia
a tirare il fiato, trovandosi un po’ meno dentro il campo e con il controllo
del gioco. Maradona perde il tempo della claque ed il Parque
Sarmiento formato Hinchada si rende conto che il momento magico è
finito, il sogno pure. La realtà incombe, e l’unico vero giocatore di tennis
azzurro, ancorché psicolabile, si è ricordato come si fa. Per il ragazzo di
casa non c’è più speranza.
Finisce 6-2 al quinto, con la squadra
italiana che si abbraccia in mezzo al campo sotto gli occhi stralunati degli
ammutoliti argentini. Sembra di essere tornati a Santiago, e quel Soldatino
affranto cessa di colpo di assomigliare al Vecchio di Hemingway
e ritorna quello che faceva paura a Vilas.
Si va a Bruxelles, non all’Unione Europea
ma a giocarsi i quarti di Coppa Davis. Con una squadra capace di tutto,
dall’impresa più clamorosa alla debacle più mortificante.
Il tifo "calcistico" di Diego Maradona |
Caro Soldatino, non rivedremo
più una squadra come quella dove giocavi tu, ormai lo sappiamo. Ce lo sentiamo
addosso. Lo sport è una metafora della vita di un paese, ed il nostro di paesi
è da tanto che sta ammainando bandiera. Gli argentini, per quanto sconfitti, ci
suscitano invidia per quel loro indomabile orgoglio, per quel loro
inestinguibile nazionalismo, loro che hanno cominciato ad essere una nazione
circa tremila anni dopo di noi.
Di questo sport che simboleggia il
declino del nostro paese il tennis è stato l’apripista. Siamo spariti dagli
Albi d’Oro da decenni, dimenticarsi di Barazzutti, di Panatta,
di Bertolucci, Zugarelli, Ocleppo.
Dimenticarsi anche di Gaudenzi, Furlan, Camporese,
che almeno sul piano della consistenza erano arrivati a farci illudere di una
seconda primavera.
Siamo un paese che non ha più movimenti
sportivi. Dove i ragazzi partono battuti rispetto ai loro coetanei stranieri in
tanti campi, non solo in quelli agonistici. Un paese dove la televisione e la
radio di stato non si sentono in dovere di dedicare un minuto alla cronaca di
un evento che bene o male segna la rimessa della testa fuori dall’acqua, in uno
sport che una volta fermava l’Italia quasi quanto il calcio. Adesso, la maggior
parte non sapeva nemmeno che si giocava, con chi e perché.
CONTROCORRENTE: Perché Sanremo è Sanremo
Che poi mi rompe anche le scatole fare l’avvocato difensore della Raggi e
dei Cinque Stelle, che non considero certo il non plus ultra quanto a
preparazione e capacità rispetto al compito che si sono assunti, o
vorrebbero assumersi. Va detto però che questa mobilitazione di
magistratura da un lato e mezzi di comunicazione dall’altro è
vergognosa, e deve essere in qualche modo fatta cessare. Sia perché deve
cessare l’asservimento ad una parte politica ben precisa del Terzo e
del Quarto potere dello stato, sia perché sono soldi nostri quelli che
vengono spesi dalle Procure e dai Media per mandare avanti questa
ennesima campagna di distruzione dell’avversario di turno del partito
democratico.
Mentre a Milano Ilda Boccassini vara il Ruby Quater
(nemmeno il delitto Moro ebbe quattro processi) per accertarsi che
Berlusconi non risorga più dal sarcofago dove l’ha chiuso, la Procura di
Roma mobilita le sue risorse per andare a spulciare anche le bollette
dell’ENEL della Raggi, e credo che qualcuno vada a riaprirle anche i
sacchetti della spazzatura per vedere cosa butta via.
Ovviamente, se
queste sono Giustizia e Informazione, stasera Montesquieu partecipa al
Festival di Sanremo nella Sezione Giovani. Una volta avrei citato a
paragone (per noi perdente) giudici e media americani, ma visto quello
che stanno combinando a Trump forse non è più il caso. La Corte Suprema
si è riunita in tutta fretta di domenica per rigettare il suo ricorso
contro la sospensione al decreto anti-immigrazione comminatagli da un
solerte giudice (ve la immaginate la nostra Corte Costituzionale,
costretta a saltare un giorno di festa per riunirsi in fretta e furia?),
e lo ha fatto perché le premeva cominciare da subito a mettere i
bastoni tra le ruote alla nuova amministrazione. Agenzie di stampa una
volta prestigiose come la Reuters e quotidiani gloriosi inneggiano alla
vittoria, mentre il telegiornale di regime inneggia ai 16 stati (quelli
democratici, ma guarda un po’) e alle Majors dell’informatica e dei
social network che si stanno schierando contro l’Hitler della casa
Bianca. E ci credo, dove la trovano la Apple e Facebook altra manodopera
da far lavorare sottocosto se cessa l’immigrazione dai paesi arabi?
Aspettiamo il prossimo attentato, e poi voglio vedere se qualcuno non va da Zuckerberg e da Bill Gates o chi per loro, a prenderli a ceffoni per il loro sostegno ai nemici del popolo americano”.
Noi qui siamo ridotti ad aspettare le elezioni francesi (il TG di regime giura che la Le Pen non può vincere contro nessun avversario, ed è la quarta previsione che azzarda dopo Brexit, Trump e referendum costituzionale….), e poi quelle tedesche (il TG di regime parla di Merkel che tiene e poi switcha su Draghi e il trattato che non si tocca). Le nostre, hai voglia ad aspettarle, dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale è più facile risolvere il Cubo di Rubik che tornare a votare in Italia.
A ottobre fanno 100 anni dalla rivoluzione russa. Per noi fanno 100 anni da Caporetto. Se il Festival di Sanremo non vi assorbe troppe energie, meditate gente, meditate.
Aspettiamo il prossimo attentato, e poi voglio vedere se qualcuno non va da Zuckerberg e da Bill Gates o chi per loro, a prenderli a ceffoni per il loro sostegno ai nemici del popolo americano”.
Noi qui siamo ridotti ad aspettare le elezioni francesi (il TG di regime giura che la Le Pen non può vincere contro nessun avversario, ed è la quarta previsione che azzarda dopo Brexit, Trump e referendum costituzionale….), e poi quelle tedesche (il TG di regime parla di Merkel che tiene e poi switcha su Draghi e il trattato che non si tocca). Le nostre, hai voglia ad aspettarle, dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale è più facile risolvere il Cubo di Rubik che tornare a votare in Italia.
A ottobre fanno 100 anni dalla rivoluzione russa. Per noi fanno 100 anni da Caporetto. Se il Festival di Sanremo non vi assorbe troppe energie, meditate gente, meditate.
sabato 4 febbraio 2017
Mattarella non ha tempo per le Foibe, solo per gli inciuci
A quanto sembra, Sergio Mattarella non parteciperà alle commemorazioni del 10 febbraio, Giorno del Ricordo (per chi si mettesse in collegamento soltanto adesso, la rievocazione storica del martirio di Istriani e Giuliani - in una parola, italiani - nelle Foibe alla fine della seconda guerra mondiale, per mano dei "compagni" di Tito.
Per sparare puttanate sull'Olocausto degli Ebrei paragonandolo alle migrazioni di perdigiorno dall'Africa sulle nostre coste il tempo l'ha trovato. Evidentemente il 10 ha altro da fare, troppo impegnato a studiare le prossime mosse per vanificare quel poco di volontà popolare che si è palesata il 4 dicembre scorso, com'é nella sua specialità dal 1993 in poi. O forse (a pensar male, diceva un suo ex compagno di partito......) incombe la ricorrenza privata della sua famiglia, il 1° maggio (vedi alla voce: Portella).
Indignazione di quanti ricordano o commemorano comunque la tragedia dei nostri connazionali sacrificati alla ragion di stato comunista e alla furia slava. Su una cosa sola non mi associo. Qualcuno ha detto: presidente, quelli erano italiani come lei.....
Nossignore, niente affatto. Quella era gente per bene.
venerdì 3 febbraio 2017
CONTROCORRENTE. #goDonaldgo
E’ tanto che non esterno, e allora qualche parola sui trend del momento ispirati da certa “informazione” di sinistra (praticamente il 90%) che trova terreno fertile nel “politicamente corretto” che si è depositato su di noi come le polveri sottili.
Va di moda dire che i Cinque Stelle sono una massa di incapaci, di cretini, e stare alla finestra ad aspettare di vederne il ridicolo tracollo. Ci sono anche quelli, tra loro, gli incapaci e i cretini, e lo so per esperienza personale. Virginia Raggi è una sprovveduta che si è messa nelle mani di un ciarlatano e ha probabilmente illuso al di là delle sue possibilità reali una metropoli di oltre 6 milioni di persone, e dietro di lei un intero paese. Ma una opinione pubblica più attenta potrebbe riflettere al fatto che se crolla la sua amministrazione Roma ritorna in mano in alternativa o alla peggior sinistra o alla peggior destra. Peggio una sprovveduta o peggio una manica di ladri post-comunisti o post-fascisti? E dopo Roma, c’è il resto d’Italia.
Va di moda stare a guardare i democratici che si scannano tra loro. Guardate che quella è gente che conduce questa manfrina da almeno 70 anni. Da quando si chiamavano DC e PCI. Fanno finta di azzannarsi, poi al momento di perdere indennità e prebende vanno a letto insieme. Oddio, Renzi e Bersani, Serracchiani e D’Alema, e compagnia bella, sono talmente idioti e assatanati di potere che alla fine potrebbero davvero frantumarlo questo maledetto partito democratico. Ma io penso che non siamo così fortunati. Una scappatoia la trovano, grazie anche alle marchette della magistratura alta e bassa. E noi restiamo qui ad ascoltare le esternazioni di un vecchio mal vissuto che come ha detto qualcuno dovrebbe stare come tutti a guardare i lavori in qualche cantiere, e ancora invece pretende di biascicare lezioni di diritto costituzionale. Lui che l’unica costituzione che conosce veramente è quella dell’Unione Sovietica del 1936.
Va di moda soprattutto infamare Matteo Salvini. Oh, quanto politicamente corretto!!!! E ce ne fosse uno che riflette al fatto che il segretario della Lega Nord (quella per capirci che nell’82 diceva già cose che siamo arrivati a condividere tutti, per osmosi e per coglioni pieni) non fa che mettere in italiano comprensibile sentimenti popolari che vengono ormai bestemmiati amaramente e giustamente ad ogni angolo di strada. Contro un accoglienza che non sente nessuno, ma su cui molti guadagnano, e chi non ci guadagna ha paura del facebook-KGB paventato dalla Boldrini e delle rappresaglie varie di capi e capetti (io personalmente ne ho uno che sicuramente rimpiange la Lubjianka e la Siberia, era tutto più facile….). Contro un buonismo che è smentito dalla storia prima ancora che dal buon senso, perché amministrazioni, banche, istituzioni, sindacati, carriere, sanità, economie non funzionano così come ci raccontiamo noi italiani la sera prima di dormire. Contro una illegalità dilagante, i cui esponenti principali sono addirittura la Corte Costituzionale e ben due Presidenti della Repubblica in successione, per non parlare dei governi (che nessuno ha legittimamente scelto), dei Parlamenti (che nessuno ha legittimamente eletto), dei magistrati (che nessuno nel nostro sistema può legittimamente controllare un minimo).
Va di moda, passando in ambito internazionale, infamare Trump. Stessi discorsi che per Salvini, ma qui addirittura si parla di Hitler alla Casa Bianca. Gli americani che non hanno ancora perso la coscienza di se stessi si stanno rompendo i coglioni di questi discorsi, e presto la Guardia Nazionale comincerà a manganellare un po’ più convintamente i manifestanti di Soros e di Hollywood. Nel frattempo, se nessuno gli spara, Donald Trump realizzerà alcune importanti riforme, come da mandato popolare ricevuto. E ricevuto convintamente.
La differenza tra l’Italia e gli Stati Uniti è tutta qui. Ci sono di qua e di là in percentuale le stesse teste di cazzo, ma in America alla fine vengono chiamate a rispondere dell’infrazione di una legalità che da quelle parti è un reato peggiore dell’omicidio. Qua invece vengono chiamati a fare opinione, o amministrazione, o politica, o comunque danni. Perché, ricordatevi, come disse la buon’anima, il potere logora chi non ce l’ha. E il PD sa bene che se fa tanto di perderlo, il prossimo vaccino obbligatorio viene stabilito per legge contro di lui e contro tutte le teste di cazzo che da cinquant’anni a questa parte l’hanno utilizzato come scorciatoia contro una vita di lavoro e di sacrifici.
Chiudo con una nota positiva. La Conferenza Stato-Regioni ha rigettato il piano di abbattimento del lupo che qualche buontempone prestato all’agricoltura e all’allevamento sovvenzionato dagli enti pubblici aveva proposto tramite le consuete lobbies. In alternativa, per non lasciare le “doppiette” senza far nulla (penso soprattutto alle povere mogli che se li ritrovano per casa tutto il giorno), proporrei una campagna di abbattimento delle teste di cazzo. Il famoso 31% di Enrico Mentana (compreso Enrico Mentana e tutta la sua redazione) dovrebbe scendere considerevolmente a valori più tollerabili.
venerdì 20 gennaio 2017
Il peggiore
La notte del 4
novembre 2008 si era chiusa un’epoca. Quello Yes we can gridato alla
platea festante dei Democrats che riportavano il loro
candidato alla Casa Bianca dopo gli otto anni controversi di George
W. Bush sembrò a tutto il mondo in realtà molto di più della
celebrazione di una vittoria elettorale. Era il pagamento di un debito che la
storia aveva contratto con la razza umana molto tempo prima, quando il primo
uomo aveva messo in catene un proprio simile per sfruttarne il lavoro gratis.
Otto anni dopo, si chiude un’altra epoca.
Quando la storia decide di pagare i suoi debiti, spesso e volentieri lo fa in
modo approssimativo, tardivo e ricorrendo alle persone sbagliate. Dispiace
dirlo, considerato tutto ciò di cui era diventato simbolo, ma la vicenda di Barack
Obama è diventata il paradigma delle illusioni disattese, tradite.
Alle Primarie democratiche del 2008, i
debiti storici da pagare erano addirittura due. Gli Stati Uniti,
la più grande potenza mondiale del nostro tempo, attendevano di decidere se
portare finalmente nella loro stanza dei bottoni il primo colored o la
prima donna. Se chiudere la plurisecolare questione razziale sviluppatasi
attraverso la deportazione nel Nuovo Mondo degli schiavi africani, la Guerra
Civile tra Nord e Sud e la segregazione razziale post emancipazione
arrivata fino quasi ai giorni nostri. Oppure se dare riconoscimento al
completamento dell’emancipazione femminile a cui, dai tempi delle Suffragette
fino al ventunesimo secolo, mancava ormai solo la gratificazione dell’elettorato
passivo, l’ottenimento della massima carica dello stato, la Presidenza
degli Stati Uniti d’America.
Barack Husein Obama contro Hillary Rodham
Clinton. Vinse il campione della causa dei Neri
d’America. Il senatore dell’Illinois figlio di immigrati kenyoti rappresentava
addirittura di più, con quella sua estrazione culturale musulmana che ne faceva
l’incarnazione di una ulteriore rottura con il passato immediatamente
precedente e lo scontro di civiltà capitanato da Bush jr. La
campionessa della causa della parità di genere, la moglie
dell’ex Presidente Bill Clinton, avrebbe dovuto attendere. E
adesso sappiamo che dovrà farlo ancora.
L’America scelse e condizionò la storia,
che pagò il suo enorme debito malamente. Malgrado le grandi aspettative che
fecero subito di Obama una figura – almeno nelle intenzioni dei supporters
– carismaticamente paragonabile agli altri grandi campioni della razza
afroamericana, Mohammad Alì, Malcom X, Martin
Luther King, il reverendo Jesse Jackson, Barack Obama
non andò oltre quello stentoreo Yes we can gridato alla sua convention
ed al mondo la notte della sua prima elezione.
Uomo dell’anno di TIME
pochi giorni dopo quel voto storico, addirittura Premio Nobel per la
Pace un anno dopo, l’uomo che aveva portato i negri
finalmente ad esercitare il loro diritto di voto ed esteso loro addirittura il
sogno americano si rivelò sin da subito l’incarnazione della più cocente delle
delusioni. Armato del suo Si può fare, si lanciò in avventure improbabili
e velleitarie, come l’Obamacare, lo stravolgimento della
sanità privata da sempre connaturata alla mentalità dei suoi compatrioti e
basata sul sistema delle assicurazioni. O come il ritiro delle truppe a stelle
e strisce dall’Asia Minore e Centrale che non potevano più essere ritirate una
volta spedite laggiù, essendo ormai l’unico diaframma tra la permanenza
dell’equilibrio Est-Ovest sconvolto dall’attentato alle Torri Gemelle
e la caduta di quella vasta area del mondo nelle mani di Talebani,
Al Qaeda e poi Isis, con tutte le conseguenze
del caso.
O come la guerra personale a quella
mentalità della Frontiera connaturata ad ogni americano, che si
sostanzia nel possesso e nell’uso di armi. O la politica di accoglienza ai migranti,
nel caso specifico i messicani, molto oltre i margini di tolleranza di una
popolazione che pochi mesi prima della sua elezione aveva cominciato a
sperimentare sulla propria pelle gli effetti della crisi economica più
devastante dai tempi del Giovedi Nero del 1929. O l’appoggio
sistematico a tutte le leadership politicamente corrette ed economicamente
devastanti, come quella – per dirne solo una - di Angela Merkel
in una Unione Europea traballante e affamatrice.
E che dire di alcune comparsate, come
quel video che ritrae il Presidente e la sua Vice, la Clinton passata nel suo
staff dopo aver corso contro di lui alle Primarie, intenti ad una
pantomima con tanto di smorfie da cinema muto la notte della presunta cattura
ed eliminazione di Osama Bin Laden, il famigerato e
impalpabile Sceicco del Terrore? E quel veramente
insopportabile e stridente Job Well Done gridato alla folla a Ground
Zero i giorni successivi, ad enfatizzare come un ranchero
texano la morte del pericoloso bandito senza rendersi conto che la
frontiera su cui sparacchiava in area i colpi della sua colt non era
quella dei film western di una volta, ma quella molto più pericolosa
dello scontro di civiltà che lui ha finito per acuire molto
più del predecessore che l’aveva aperto?
Barack Obama è stato l’uomo delle grandi
speranze e delle ancora più grandi delusioni, rivelandosi inadatto a
governarle. L’assunto che chiunque può diventare Presidente degli Stati Uniti
purché nato in America con lui si è completato del corollario che purtroppo non
bastano lo jus soli, il colore della pelle o la teatralità con
cui si professano le proprie idee per essere adeguati a quella carica. Anzi,
sono pochi quelli che alla fine si dimostrano tali, e Barack Obama non va in
archivio come uno di questi.
La vittoria del suo successore, quel Donald
Trump che giura oggi nelle mani della Corte Suprema
come 44° successore di George Washington, ha vinto
sconfiggendo non tanto Hillary Clinton quanto proprio lui in persona, e la sua
eredità presunta. Spazzandone via illusioni e delusioni, e aprendo la porta ad
un’epoca – se Dio vorrà – completamente diversa.
L’unica effettiva eredità di Obama, alla
fine, è quella di aver favorito l’emancipazione non di una razza ma di una
intera comunità nazionale. Da oggi, si può essere colored e nello
stesso tempo incapaci. E lo si può far notare, da parte di chicchessia, senza
essere più accusati di razzismo.
domenica 8 gennaio 2017
L'ultimo Granduca
Era stato un socialista atipico, nel pensiero e nei modi. Il primo
della sua generazione forse a capire la necessità di modernizzazione di un
partito che ancora oscillava irrequieto e instabile tra esperimenti di
centrosinistra e tentazioni frontiste.
Lelio Lagorio si è spento ieri a Firenze alla veneranda
età di 92 anni. Era nato a Trieste il 9 novembre del 1925, ma aveva eletto il
capoluogo toscano a sua patria d’adozione ed il P.S.I. a sua
patria politica. Erano gli anni in cui Pietro Nenni e gli
altri capi storici del socialismo italiano abbandonavano faticosamente,
dolorosamente e non senza ferite profonde difficilmente rimarginabili, la
strategia del Fronte Popolare con il Partito Comunista abbracciata
nel 1948 e si volgevano verso quello che fu il primo e forse più importante dei compromessi
storici del nostro dopoguerra, il centrosinistra con
la Democrazia Cristiana che trasformò il vecchio partito
massimalista in un partito di governo.
Nessuno meglio di Lagorio sembrava incarnare la nouvelle vague socialista.
Negli anni in cui Nenni diventava il primo membro socialista di un governo
nazionale italiano dopo il 1947, Lelio Lagorio diventava sindaco di Firenze
raccogliendo la pesantissima eredità di Giorgio La Pira. Fu un
mandato breve il suo, pochi mesi prima di cedere il testimone ad un altro
sindaco leggendario: Piero Bargellini, il sindaco dell’Alluvione.
Ma bastò perché Lelio Lagorio si facesse conoscere come politico di
rilievo e come signore dai modi distinti, un gentleman di
stampo britannico del quale la nostra politica annoverava e annovera tutt’ora
ben pochi esempi.
Il suo momento venne nel 1970. Una classe politica che cominciava ad
annaspare contro i venti nuovi della contestazione e della sempre maggiore
richiesta popolare di diritti civili e politici si trovò costretta a dare
attuazione finalmente alla più disattesa fino a quel momento delle previsioni
costituzionali: l’istituzione delle amministrazioni regionali.
La Toscana era una regione che si prevedeva rossa, ma le
urne elettorali dissero che il P.C.I. da solo non aveva i
numeri per raggiungere la maggioranza dei 50 consiglieri assegnatile dalla
legge. Il P.S.I. si rendeva necessario a tale scopo, e si fece pagare il conto
chiedendo la Presidenza della Regione. Sapendo di avere l’uomo giusto.
Lelio Lagorio fu il primo dei Presidenti della Regione Toscana, quando
ancora non si chiamavano – né pretendevano di chiamarsi – governatori.
E fu un grande Presidente, che operò nel periodo delicatissimo dei massicci e
spesso caotici trasferimenti di competenze dallo stato (con i decreti del 1972
e del 1977) sotto l’impatto dei quali le neonate amministrazioni regionali
potevano rischiare di affogare prematuramente. Lagorio fu – e resta a tutt’oggi
– un modello ineguagliato, nemmeno per approssimazione, dai suoi successori.
Tanto da meritarsi, unico, l’appellativo (assai evocativo e significativo da
queste parti) di Granduca.
Il Granduca che siedeva a Palazzo Budini Gattai, allora
sede della Presidenza quando gli uffici della Regione erano disseminati un po’
per tutta l’area urbana di Firenze, governò con saggezza e stile la costruzione
della macchina amministrativa regionale scegliendosi i funzionari giusti tra la
miriade che i trasferimenti statali riversava nel cosiddetto ruolo regionale.
Nel 1978, ritenuto esaurito il suo compito e sollecitato a sfide
ancora più importanti dalla politica romana, rimise il suo mandato candidandosi
alle elezioni politiche dell’anno successivo. Il suo posto fu preso da un altro
socialista, Mario leone, che lo tenne fino al 1983, quando un
P.C.I. il cui peso in Giunta Regionale era stato consistentemente aumentato
dalle avanzate elettorali degli anni settanta e dalla crisi degli alleati socialisti
(ma solo a livello locale, perché a quello nazionale già la rottura craxiana
con i vecchi compagni si stava facendo sentire) lo reclamò per il suo candidato Gianfranco
Bartolini, il presidente operaio.
A Roma, Lagorio trovò un clima favorevole alla ripresa di esperimenti
di centrosinistra, grazie all’azione – come si è detto – di Bettino
Craxi e di quella parte della D.C. che stava
rigettando il compromesso storico con il P.C.I. Nel 1980, per
la prima volta, un socialista si ritrovò affidato il delicatissimo Dicastero
della Difesa. Ormai la N.A.T.O. riteneva ammissibile ai propri Sancta
Sanctorum un esponente del P.S.I., tanto più se questo esponente era
una persona del prestigio e della caratura di Lelio Lagorio.
Fu ministro della difesa con Francesco Cossiga, e insieme
a lui affrontò la tempesta successiva alla strage di Ustica, a cui
Cossiga non sopravvisse. Lui sì, restando in carica con Arnaldo Forlani e
poi con i premier laici Giovanni Spadolini e
Bettino Craxi. Durante il suo mandato, gestì altre situazioni difficili da par
suo, come la crisi degli Euromissili in Sicilia, nonché la
delicatissima fase di avvio delle prime missioni militari italiane all’estero
con tutto il carico di implicazioni non soltanto psicologiche ma anche
costituzionali, in un paese che dopo l’8 settembre 1943 si era fatto scudo
dell’art. 11 della Costituzione ben al di là del suo dettato specifico.
Fu lui a ripristinare la Parata del 2 giugno come Festa
della Repubblica, ed ancora lui a varare a Monfalcone la prima portaerei
della Marina italiana, la Garibaldi. Fu lui a presiedere
addirittura il Consiglio dei Ministri europei della N.A.T.O.
Fu lui, nel 1980 in Irpinia in occasione del terremoto a far fronte al
quale non era stata ancora istituita la Protezione Civile, a gestire di fatto
la macchina dei soccorsi mettendo in campo un Esercito che in quella
circostanza fornì indubbiamente una delle sue immagini e prestazioni migliori.
Nel 1983, chiese ed ottenne da Craxi l’incarico al più tranquillo,
almeno in apparenza, Ministero del Turismo e dello Spettacolo, dove
nei tre anni successivi legò il suo nome ad una riforma del C.O.N.I. attesa
da tempo immemorabile ed alla legge sul Fondo Nazionale per lo
Spettacolo, destinata ad assicurare per molti anni l'attività delle
istituzioni della musica, del cinema e del teatro.
Dal 1986 al 1988 fu membro del comitato ristretto della Camera dei
Deputati per i Servizi Segreti e per il Segreto di Stato, e in questa
veste gli toccò relazionare sull’episodio di Sigonella in cui
aveva avuto parte come membro del Governo. Cavaliere di Gran Croce al
merito della Repubblica per iniziativa del Presidente Sandro
Pertini, la sua carriera politica si era di fatto esaurita con la Prima
Repubblica. Negli ultimi anni si era dedicato all’attività di storico e di
pubblicista. Aveva pubblicato di recente L'Esplosione: storia della
disgregazione del PSI e le sue memorie come Ministro della
Difesa, L'Ora di Austerlitz.
La Toscana che da tempo ha smesso di essere il Granducato dice addio
al suo ultimo Granduca. Della sua opera, consegnata ormai alla storia, non
rimane pressoché niente nelle stanze sia della Regione che del Comune di
Firenze. Tutto spazzato via dall’opera di successori difficilmente paragonabili
a questo gentleman illuminato che aveva retto il timone della pubblica
amministrazione locale in un età difficile, ma in cui ancora ci si illudeva che
i grandi cambiamenti, se ben governati, potessero portare a grandi risultati.
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