venerdì 1 giugno 2012

Storia degli Europei di calcio: 2012 tris Spagna, l'Italia finisce in paella



E’ un mondo difficile, sempre di più. Un mondo che alla fine del primo decennio del ventunesimo secolo si è scoperto in preda alle convulsioni di un modello economico impazzito. Bolle speculative, corruzione, capitalismo nuovamente aggressivo, come nel peggiore Ottocento e primo Novecento. Un mondo dove la parola business fa premio su tutto. Anche e soprattutto nello sport.
L’UEFA in mano a Michel Platini è apparsa da subito qualcosa di diverso rispetto al passato. A prescindere da come finiranno le inchieste tutt’ora in corso, è chiaro e lampante a tutti che il colore dei soldi è diventato la vera bandiera dell’Unione Europea, nel calcio come altrove. Sepp Blatter si è occupato dello stesso procedimento su scala mondiale. Nel gioco prediletto da un capitalismo impazzito, tutto ormai ha un prezzo. Basta conoscerlo.
Nel 2010, sul mondiale che avrebbe dovuto essere la festa dell’Africa, del Sudafrica rappacificato e di Nelson Mandela, era scesa l’ombra pesante della corruzione. Le ultime tre edizioni erano state affidate all’organizzazione di Germania, Sudafrica e Brasile evidentemente con una predominanza – diciamo così – di certi aspetti economici rispetto al possesso dei requisiti di idoneità, dei cosiddetti titoli sportivi e organizzativi. La Spagna aveva vinto senza ombre, né contestazioni. Ma su tutto ciò che era girato in termini di soldi e favori dietro a quel mondiale, al precedente ed al seguente, le inchieste perdurano ancora.
Nelle mani di Michel Platini, l’UEFA era diventata altrettanto chiacchierata. Già nel 2008 la prevalenza di Austria e Svizzera al fotofinish per l’assegnazione della sede aveva causato non poche perplessità. Subito dopo, era partita la procedura per il 2012, e agli occhi della pubblica opinione continentale avrebbe ben presto avuto i contorni dello scandalo.
Candidate erano l’Italia, che vantava già due edizioni organizzate (quella poi vittoriosa del 1968 e quella post calcioscommesse del 1980), la Croazia, che era stata parte della Jugoslavia organizzatrice nel 1976, l’Ungheria, che in ambito calcistico una certa tradizione l’aveva, la Grecia e la Turchia, al secondo tentativo, la Polonia e l’Ucraina al primo. Le candidate del Mar Egeo furono fatte fuori subito, poi toccò al calcio danubiano e balcanico, quindi – con sorpresa generale – la candidatura italiana avanzata da Franco Carraro, che sembrava non avere rivali, oggettivi, fu penalizzata in dirittura d’arrivo a vantaggio di Polonia e Ucraina.
Ufficialmente, la motivazione del verdetto fu attribuita dall’UEFA all’impressione destata dai fatti occorsi nel 2007 in occasione del derby Catania-Palermo, in cui nel mezzo dei disordini (per la verità più simili ad una guerra civile) aveva perso la vita l’ispettore di polizia Filippo Raciti. In realtà, varie testimonianze straniere (finora peraltro mai ascoltate in giudizio) attestarono giri di quattrini nei paraggi dei delegati UEFA a cui competeva la scelta finale della sede di Euro2012.
E’ un fatto che Platini e Blatter, allora agenti di comune accordo, vedevano di buon occhio i nuovi mercati, e Polonia ed Ucraina lo erano. E’ un fatto che dopo il 2006 l’Italia non godeva più di tante amicizie nella federazione internazionale. Fu trovata la motivazione accessoria che i due paesi erano un enorme bacino omogeneo, storicamente legati com’erano da antica appartenenza allo stesso regno, quello del leggendario Jan Sobieski, il salvatore di Vienna dai Turchi.
Cerimonia inaugurale - Stadio Narodowy di Varsavia
Quando le istituzioni devono giustificare scelte impopolari o poco comprensibili, spesso attingono alle branche più disparate dello scibile umano. In realtà, Polonia e Ucraina erano due paesi visibilmente arretrati in quanto a infrastrutture ed impianti sportivi. Ma nulla poteva fermare a quel tempo Blatter e Platini, quando si mettevano in moto. La finale di Euro2012 si sarebbe giocata allo stadio olimpico di Kiev, il 1° luglio 2012.
Alla quattordicesima edizione della Coppa Delaunay avrebbero partecipato ancora una volta 16 squadre, qualificate attraverso nove gironi eliminatori, con l’aggiunta della migliore seconda, di quattro squadre uscite da altrettanti spareggi tra le altre seconde, di Polonia e Ucraina in quanto paesi organizzatori.
Le nove vincitrici furono Germania, Russia, Italia, Francia, Olanda, Grecia, Inghilterra, Danimarca e Spagna. La migliore delle seconde risultò essere la Svezia. Gli spareggi tra le altre dettero i seguenti verdetti: Croazia, Repubblica Ceca, Irlanda, Portogallo.
Le squadre sulla carta migliori c’erano tutte, senza sorprese. La Spagna campione del mondo e una Germania in vistosa ripresa si facevano preferire in sede di pronostico, ma il quadro delle partecipanti era complessivamente di alto livello. Uno dei più alti di sempre.
L’Italia era un’incognita. Ai mondiali sudafricani, il Lippi-bis era stato un disastro, con l’eliminazione al primo turno malgrado un girone tra i più facili di sempre. Il tecnico vincitore del quarto mondiale aveva ripetuto l’errore di quello vincitore del terzo. Lippi, come Bearzot, non aveva saputo trovare ricambi adeguati e tempestivi agli uomini che l’avevano sollevato in aria a Berlino insieme alla Coppa del Mondo.
Striscione irridente dei tifosi italiani a quelli tedeschi

Sulla panchina azzurra era poi andato a sedersi Cesare Prandelli, reduce da cinque ottime annate alla Fiorentina, interrotte da un improvviso virare alla burrasca dei suoi rapporti con i patron viola Della Valle. Il tecnico di Orzinovi era sembrato in grado di rigenerare la Nazionale così come aveva fatto con la Fiorentina. In più, aveva accettato ed apparentemente vinto alcune scommesse rifiutate dalla maggior parte dei suoi colleghi: la gestione di teste calde come Mario Balotelli ed Antonio Cassano.
L’Italia era stata sorteggiata nel girone C, con Spagna, Croazia ed Eire. Negli altri, si scontravano Polonia, Rep. Ceca, Russia e Grecia nell’A, Olanda, Danimarca, Germania e Portogallo nel B, Ucraina, Svezia, Francia e Inghilterra nel D.
Il girone A e l’Europeo si aprirono con la partita inaugurale tra Polonia e Grecia, dove gli ellenici dimostrarono ancora una volta di essere pessimi clienti. La Grecia passò come seconda dietro la Rep. Ceca, mentre la Polonia fu la prima delle squadre di casa a mancare l’occasione offerta dal torneo casalingo, finendo fuori insieme alla Russia.
Il girone B testimoniò il declino dell’Olanda vicecampione del mondo in carica, incapace di fare punti in nessuna delle tre partite eliminatorie. La Germania confermò il suo buonissimo momento qualificandosi come prima, con il Portogallo trascinato da un superlativo Cristiano Ronaldo al secondo posto.
Nel girone C, l’Italia sorprese la Spagna portandosi in vantaggio con Di Natale e venendo poi raggiunta da Fabregas. Pareggio anche con la Croazia, gol di Pirlo e Mandzukic. Per passare, gli azzurri dovevano battere l’Eire e sperare che non si ripetesse un nuovo biscotto tra la Spagna, già qualificata a suon di gol, e la Croazia a cui serviva un 2-2, come nel derby vichingo di otto anni prima. Così non fu, la Spagna onorò l’impegno battendo i croati, mentre Cassano e Balotelli schiantavano gli irlandesi.
Nel girone D Francia e Inghilterra si divisero la posta nel match iniziale e poi con qualche fatica e risultati rocamboleschi riuscirono ad eliminare sia la Svezia che l’altra nazione organizzatrice, l’Ucraina, con Andrij Schevchenko al passo d’addio.
Un Torres incontenibile in finale per l'Italia
I quarti di finale offrirono situazioni altrettanto avvincenti, e gioco altrettanto spettacolare. Dopo tre pali clamorosamente colpiti, Cristiano Ronaldo riuscì abucare la rete dei cechi all’ottantesimo, qualificando il Portogallo come primo semifinalista. La Germania vide qualche sorcio verde nel primo tempo, concluso sull’1-1 con la Grecia, per poi dilagare fino al 4-2 nella ripresa. Tra Spagna e Francia ebbe luogo la rivincita della finale del 1984, ma stavolta il regolare 2-0 andò a referto a favore degli iberici, grazie a Xabi Alonso. L’ultimo quarto fu un combattuto 0-0 tra Inghilterra e Italia, con decisione ai calci di rigore, dove gli inglesi ebbero per l’ennesima volta la peggio. Da notare, il secondo storico cucchiaio europeo dopo quello di Totti nel 2000: stavolta il temerario fu Andrea Pirlo, nel momento in cui l’Italia era sotto per l’errore iniziale di Montolivo.
Semifinali: il derby della penisola iberica, malgrado promettesse gol e spettacolo, finì con un altro 0-0. Ai rigori, cucchiaio di Sergio Ramos ed errore al quinto tiro di Bruno Alves. Spagna alla quarta finale europea, ed in lotta per il terzo titolo, il secondo consecutivo.
Nell’altro incontro, sembrava che quella volta la Germania dovesse mettere fine alla lunga serie di delusioni contro l’Italia. Niente da fare, dopo venti minuti circa tra gli azzurri esplose Supermario. Balotelli schiantò la difesa tedesca con una doppietta spettacolare, a nulla valse il gol della bandiera finale di Ozil per i tedeschi. Italia alla caccia del suo secondo titolo, alla terza finale.
Balotelli attonito e Pirlo in lacrime dopo la finale
Il primo luglio a Kiev fu uno spareggio europeo tra gli ultimi due campioni del mondo. Ma la Spagna era nel suo momento di forma migliore, forse era superiore addirittura a quella di Johannesburg. L’Italia invece aveva già dato il meglio di sé, e si presentava in finale con alcuni dei suoi migliori acciaccati, come Pirlo e Cassano, e con un Balotelli improvvisamente di nuovo preda delle sue streghe personali.
A Prandelli fu poi imputato di non aver rischiato elementi magari accreditati di minor caratura tecnica, come Alessandro Diamanti, ma di maggior freschezza. Nel calcio non c’è mai riprova, l’unica cosa certa fu che l’illusione di ripetere la gara iniziale durò un tempo circa. Le Furie Rosse andarono avanti con David Silva e Jordi Alba. Nella ripresa il terzo tardivo cambio di Prandelli fu mandato a male da un infortunio, capitato a Thiago Motta. Azzurri in dieci per mezz’ora e Fernando Torres, inarrestabile, che ne segnò altri due.
La Spagna in festa per il tris
Iker Casillas sembrò dire ad un certo punto ai compagni di non infierire, di portare rispetto all’Italia. E’ un dibattito vecchio come il calcio, continuare a giocare, in questi casi, o tirare i remi in barca? La Spagna, che in quel momento regalava spettacolo, scelse di continuare. L’Italia aveva dato il massimo, non meritava forse quel passivo, ma non era più in grado di evitarlo.
La Spagna raggiungeva la Germania a quota tre vittorie nell’albo d’oro della Coppa Europa di calcio, mettendo a segno un tris (compresa la Coppa del Mondo) difficilmente eguagliabile in futuro. Ma i record, si sa, sono fatti per essere battuti.
Tra pochi giorni si ricomincia.

Storia degli Europei di calcio: 2008 Espana segunda vez

E adesso, povera UEFA? Dopo le polemiche che avevano rischiato di travolgere le istituzioni del calcio europeo e mondiale, organizzare la tredicesima edizione della Coppa Henri Delaunay, ovvero Euro 2008, non era cosa facile.
Nel 2006, a Berlino, si era avuta una avvisaglia dello stato di crescente criticità nei rapporti tra FIFA e UEFA, e tra i rispettivi organi di vertice. Al mondiale che doveva essere dei padroni di casa tedeschi, o in seconda scelta dei gettonatissimi francesi che avevano come leader in campo Zinedine Zidane e come deus ex machina fuori dal campo Michel Platini, aveva vinto l’Italia.
Joseph Blatter, potentissimo capo della FIFA, si era rifiutato di andare a consegnare agli azzurri la Coppa del Mondo, lasciando l’incombenza al suo omologo dell’UEFA Lennart Johansson. Tra i due non correva buon sangue, tanto che un anno dopo, al posto dello svedese, Blatter, aveva favorito l’ascesa di quel Platini che, scornato per non poter onorare con la medaglia d’oro i propri connazionali, era stato ben contento di tenere a quella famigerata premiazione un profilo altrettanto basso di quello di Blatter. La versione ufficiale di quest’ultimo aveva ridimensionato le cose, ma tutti sapevano cosa era successo, e cosa stava per succedere, perché lo stesso Platini una volta insediato all’UEFA si sarebbe rivoltato contro il suo stesso pigmalione.
UEFA e FIFA erano campi di battaglia di potentati e carrieristi del football. Difficile raggiungere decisioni equanimi, se non unanimi, in simili contesti. A ciò si aggiungevano altre avvisaglie, quelle della crisi economica che avrebbe attanagliato il pianeta negli anni successivi, mettendo in discussione ricchezze e tenori di vita consolidati e modelli economici affermati da lunga data.
In queste condizioni, organizzare una competizione sportiva internazionale non era più uno scherzo, se mai lo era stato nell’era moderna. Dopo la nouvelle vague introdotta da Belgiolanda e Corea-Giappone, le joint venture erano diventate di gran moda. Si dimezzavano le spese e si raddoppiavano utili e agevolazioni. Due squadre qualificate di diritto come paesi organizzatori, due occhi di riguardo per i padroni di casa, e via dicendo.
La cerimonia d'apertura a Salisburgo di Euro 2008
Ad ospitare l’Europeo 2004, poi andato al Portogallo, si era candidata una accoppiata che faceva tanto ancien régime, nientemeno che l’Austria-Ungheria. Ad ospitare quello del 2008 si presentarono mezzo United Kingdom (Scozia e Irlanda), un revival di Jugoslavia (Croazia e Bosnia Erzegovina), il vecchio regno vichingo di Danimarca (che oltre a Copenhagen riuniva anche l’intera penisola scandinava con NorvegiaSvezia e Finlandia), oltre ad un tentativo di compromesso storico rappresentato da Grecia e Turchia, non più sanguinose rivali ma partner economici. La Russia si presentava da sola, ma era grande come metà del continente asiatico e aveva trascorsi federativi. L’Ungheria si presentava anch’essa da sola, poiché l’Austria aveva scelto una più prosaica e meno nostalgica (ma sicuramente più redditizia) partnership con la Svizzera.
A pensar male si fa peccato ma ci si indovina quasi sempre, diceva un noto uomo politico italiano. Alla fine, la nomination fu conferita proprio alla Svizzera, gemellata con l’Austria. Sotto l’influenza dello svizzero Blatter, che in quanto a manipolazione di votazioni aveva dimostrato di avere un’esperienza da capitano di lungo corso. Con buona pace di Budapest e dei nostalgici asburgici.
Der UEFA Fußball-Europameisterschaft von 2008, dunque, fu messo in programma tra il 7 ed il 29 giugno 2008. Ancora novità organizzative, quali l’azzeramento delle squalifiche dopo i quarti di finale e la disputa delle qualificazioni sulla base di sette gironi di cui due da otto e cinque da sette partecipanti, anziché i dieci dell’edizione precedente, probabilmente per accorciare i sovraccarichi calendari UEFA degli impegni internazionali.
In una simile congestione, era inevitabile che qualche situazione spinosa venisse a crearsi. Italia e Francia si erano lasciate malamente dopo la finale di Berlino. La testata di Zidane a Materazzi aveva menomato i transalpini, che poi avevano ceduto ai rigori grazie all’errore di un rigorista come Trezeguet (una specie di vendetta del destino rispetto all’Europeo 2000). I francesi si sentivano i vincitori morali della Coppa del Mondo, e volevano dimostrarlo. Il sorteggio UEFA mise nello stesso girone – il B - le due nazionali, che a settembre 2006 a soli due mesi dalla finale di Berlino si ritrovarono di fronte.
Italia - Francia quattro volte in due anni
All’andata, a Saint Denis a Parigi, un’Italia che non aveva ancora smaltito i festeggiamenti estivi e che il nuovo tecnico Donadoni aveva rivoluzionato, soccombette ai più motivati avversari per 3-1. Al ritorno a Milano un anno dopo, il clima era rovente. Il tifo italiano, esacerbato da un anno di polemiche alimentate dai francesi, rispose malamente, fischiando addirittura la Marsigliese. Sul campo fu 0-0. La Francia non seppe mantenere tuttavia il vantaggio acquisito nel girone, perdendo in casa a sorpresa con la Scozia e lasciando all’Italia il primo posto. Azzurri e bleus si qualificarono dunque con lo stesso ordine di arrivo di Berlino, la resa dei conti era rimandata.
Dagli altri gironi uscirono: Polonia e Portogallo, C le ex socie Grecia (campione in carica) e Turchia, D Rep. Ceca e Germania, E Croazia e Russia (con eliminazione dell’Inghilterra), F Spagna e Svezia, G Romania e Olanda. 14 squadre senza necessità di spareggi, più le due padrone di casa.
Il sorteggio del 2 dicembre 2007 a Lucerna, in Svizzera, sembrò dare l’impressione che qualcuno fosse ancora in cerca di rivincite dai tempi del mondiale, o quantomeno in cerca di complicazioni. Italia e Francia furono riaccoppiate dalla sorte (probabilmente aiutata dalla solita mano fatata) nel girone C, dove per soprammercato finirono anche Olanda e Romania. Nel girone A Svizzera, Portogallo, Turchia e Rep. Ceca. Nel girone B Austria, CroaziaGermania e Polonia. Nel D Grecia, SveziaSpagna e Russia.
Non c’era una vera e propria favorita, anche se era d’obbligo un occhio di riguardo alle finaliste di Berlino, al Portogallo che ancora viveva sull’onda lunga della sua generazione di fenomeni, e alla Spagna che sembrava sul punto di produrne una propria. Al pari di Italia e Francia, anche Svezia e Spagna e Romania e Olanda si erano già incontrate in fase di qualificazione. La fantasia all’UEFA non era più al potere.
Van Nistelroy segna il primo gol all'Italia in fuorigioco
Se qualcuno tra gli svizzeri padroni di casa nonché della FIFA e dell’UEFA aveva nutrito speranze di gloria, il campo gliele smorzò subito. Nel girone A Cristiano Ronaldo guidò il Portogallo ad una facile qualificazione, mentre al secondo posto si issava a sorpresa la Turchia, a spese appunto della Svizzera ed anche della Rep. Ceca. Nel B, fu eliminata l’altra nazione ospitante, l’Austria, insieme alla Polonia. Passarono Croazia e Germania. Nel C, tra i due litiganti sembrò godere il terzo. Gli olandesi di mister Marco Van Basten ne rifilarono tre all’Italia e quattro alla Francia, qualificandosi. L’Italia andò sotto con i rumeni grazie ad un gran gol di Mutu, ma poi pareggiò eguagliando il risultato dei francesi. Tutto era rimandato alla terza e decisiva partita, la quarta in due anni per azzurri e bleus. Pe run giorno, Zurigo diventò Berlino e gli azzurri di Donadoni quelli di Lippi. Francia travolta 2-0 con rigore di Pirlo e punizione di De Rossi, Italia ai quarti.
Nel girone D Spagna e Russia ebbero facile ragione di Svezia e Grecia. Il Mito degli Argonauti si era esaurito. Gli spagnoli cominciavano a far intravedere la possibilità di dettare a poeti e cantori una mitologia loro. Nei quarti, la Spagna toccava ad un’Italia che voleva dimostrare di essere ancora lei la più forte, ma le cui energie fisiche e nervose erano state prosciugate dalla battaglia di Francia. I tempi regolamentari finirono 0-0, ai rigori gli Eroi di Berlino cedettero ai Grandi di Spagna, decisivi gli errori di Grosso e De Rossi, che due anni prima non avevano fallito.
Negli altri quarti, una Germania che non brillava ma che aveva recuperato la consueta solidità eliminò 3-2 il Portogallo, con Cristiano Ronaldo in ombra e Klose e Ballack protagonisti. La Turchia eliminò sempre di rigore la Croazia, e la Russia (in una sorprendente rivincita contro quel Van Basten che l’aveva fatta piangere nel 1988) fece fuori l’Olanda per 3-1 ai supplementari.
La pubblicità Adidas n vista della finale
In semifinale, successo tedesco per 3-2 sui turchi e spagnolo per 3-0 sui russi. Incidenti in Germania nei quartieri turchi, quindi pronostico d’obbligo a favore dei bianchi di Joachim Loew, che aveva preso il posto sulla panchina tedesca di Jurgen Klinsmann, lo sconfitto di Dortmund. Visti i precedenti (sempre arrivata in fondo o quasi dal 1966 in poi), era d’obbligo pronosticare Germania.
Ma la Spagna aveva finalmente trovato la sua generazione di fenomeni. Dopo tanti anni di corse a vuoto, di delusioni e lacrime per i suoi tifosi, era venuto il momento per loro di cantare di nuovo Que Viva Espana, come in quel lontano giorno del 1964.
Non c’era ancora il Polpo Paul a fare pronostici. Ma il 29 giugno 2008 all’Ernst Happel Stadion di Vienna, lo stadio del Prater reintitolato in onore della vecchia gloria locale appena scomparsa, la Spagna non aveva bisogno di pronostici. Fernando Torres al ’33 indirizzò verso Madrid una partita che la Spagna giocò meglio, fornendo un antipasto di quello che avrebbe servito al mondo negli anni successivi.

La Spagna in festa a Vienna
La festa spagnola nello stadio austriaco fu coinvolgente. Nessuno poteva immaginare che si sarebbe ripetuta spesso. Anche la gioia di Re Juan Carlos fu coinvolgente, ed il sovrano non poteva immaginare che quella Coppa Delaunay sarebbe tornata nelle sue mani anche in futuro, inframmezzata da un trofeo ancora più prestigioso: la Coppa del Mondo.
Il Cup Winner Fernando Torres 

Storia degli Europei di calcio: 2004 Il ritorno degli Argonauti



Nel 2004 toccava alla fiamma olimpica tornare a casa. Atene l’aveva spuntata per tornare a organizzare i Giochi per la prima volta dopo l’edizione inaugurale del 1896. Aveva perso l’occasione del centenario non potendo competere con i meno suggestivi ma più influenti bigliettoni verdi della Coca Cola, che aveva dirottato la fiamma verso Atlanta. Nel 2004 il board del C.I.O. non era sottoposto a particolari pressioni da nessuna multinazionale, e fu libero di riparare al torto subito dagli eredi di Olimpia e di De Coubertin.
Era un anno in cui tutto era possibile, quel 2004. Anche che gli Europei di calcio toccassero ad un paese ai margini dell’Europa, dalla grande storia ma del tutto sconosciuta al resto del continente. Dalle grandi tradizioni calcistiche, che però non erano mai culminate in una vittoria di prestigio, almeno a livello di Nazionale.
L’antica provincia romana della Lusitania aveva dovuto lottare duramente per diventare l’odierno Portogallo, affrancandosi prima dalla dominazione dei Mori e poi dall’influenza ingombrante della vicina Hiberia, che nel frattempo stava diventando l’odierna Spagna. Il piccolo Portogallo era diventata una potenza coloniale di prim’ordine, al pari dell’altrettanto piccola Olanda. Aveva scoperto la rotta per le Americhe prima di Colombo, fermandosi però al Mar dei Sargassi. Aveva poi conteso alla Spagna ogni lembo di terra scoperto dai rispettivi navigatori e conquistadores a giro per l’orbe terracqueo.
Il Portogallo aveva poi affrontato una decadenza parallela a quella spagnola che l’aveva posto al di fuori della storia d’Europa allo stesso modo della Spagna e per un tempo ancora più lungo. La dittatura di Salazar aveva rivaleggiato con quella di Franco, superandola per durata (50 anni) ed eguagliandola per brutalità, soprattutto in fase di dismissione coloniale.
In quel difficile momento storico, terminato con la Rivoluzione dei Garofani che il 25 aprile 1974 aveva restaurato nel paese la democrazia, il calcio era stato un mezzo di riscatto e di recupero di prestigio internazionale, nonché fonte di gioia per un popolo che altrimenti ne aveva ben poca. Il Benfica aveva rivaleggiato con il Real Madrid e gli altri grandi club europei per la conquista della Coppa dei Campioni.
La nazionale lusitana aveva sfiorato l’impresa ai mondiali inglesi del 1966, arrendendosi soltanto ai padroni di casa destinati alla vittoria finale. La stella di Eusebio aveva oscurato quella di chiunque altro in quella circostanza. La pantera nera, soprannome datogli come contraltare alla perla nera, quel Pelé che era stato il grande assente al torneo del ‘66, aveva compiuto il percorso dai sobborghi di Maputo, capitale della allora colonia portoghese del Mozambico, alle giovanili del Benfica, il club principale di Lisbona. Aveva vinto tutto, dal Pallone d’Oro alla Scarpa d’Oro, contribuendo a rendere il palmares del suo club prestigioso più di chiunque altro prima e dopo.
La carriera di Eusebio si era chiusa senza l’acuto in Nazionale. Il testimone era stato affidato a qualche generazione successiva. Per una di quelle combinazioni che la storia – non solo del calcio – a volte si diverte ad offrire, quando per il football europeo era venuta l’ora di giocare a ritmo di fado, per il futebol portoghese era arrivata alla ribalta una nuova generazione di fenomeni.
Estadio da Luz di Lisbona
Nel 1991 il Portogallo aveva organizzato e vinto il Mondiale Under 20. Nella formazione che aveva alzato quella coppa, giocavano alcuni giovanotti di belle speranze dai nomi seguenti: Luis Figo, Manuel Rui Costa, Nuno Gomes, Fernando Couto, Helder Postiga, Maniche. Gente che nel decennio successivo avrebbe fatto la fortuna dei propri club e la gloria del proprio movimento calcistico. Più di dieci anni dopo era con questo squadrone che il Portogallo si presentava al via della manifestazione lungamente attesa e finalmente ottenuta da disputare in casa propria. Ma non era tutto, in quella formazione ormai di veterani si era accesa la stella destinata a brillare più di tutte, a dare ombra un giorno addirittura al più grande, il mitico Eusebio. Un ragazzino con una strana pettinatura e dal nome ancora più strano: Cristiano Ronaldo.
Insomma sembrava la volta buona per fare di Lisbona la capitale europea del calcio. E anche per riprendersi dalla pessima esperienza vissuta dal football a Corea-Giappone, il mondiale esotico e cogestito che nel 2002 aveva laureato il Brasile pentacampeon, Luis Nazario de Lima detto Ronaldo il miglior giocatore del pianeta e la FIFA come il peggior baraccone che mai avesse gestito manifestazioni sportive internazionali.
Testimonial principale di questo pessimo spot per il calcio era stata proprio l’Italia. La nazionale azzurra portata da Giovanni Trapattoni in oriente era sulla carta una delle più forti di sempre, con Totti e Vieri straripanti e un livello tecnico medio forse addirittura più alto di quella che quattro anni dopo avrebbe vinto a Berlino. Ma come in Cile e in Inghilterra con la Corea del Nord, aveva sbattuto contro ostacoli che le avevano reso impossibile far valere la propria supremazia tecnica. Byron Moreno aveva eclissato l’arbitro inglese Ken Aston e la Corea del Sud quella del Nord nella galleria degli orrori della Federcalcio. Dopo di noi, era stata la Spagna a spaccarsi la testa con i coreani, allo stesso modo. Un mondiale complessivamente da dimenticare, prima possibile.
Le qualificazioni a Euro2004 si erano svolte secondo un nuovo sistema, resosi necessario per il proliferare di squadre iscritte grazie alla metastasi sovietica ed jugoslavia: dieci gironi da cinque squadre, le prime qualificate, le seconde a fare gli spareggi. L’Italia aveva prevalso facilmente su Galles e Serbia. Negli altri gironi, Francia, Danimarca, Rep. Ceca, Svezia, Germania, Grecia, Inghilterra, Bulgaria e Svizzera. Dagli spareggi si erano salvate Olanda, Croazia, Russia, Lettonia e Spagna. Lo spettacolo poteva cominciare. Solita formula, quattro gironi da quattro, due qualificate ai quarti.
I pronostici saltarono subito. La gara inaugurale vedeva di fronte il Portogallo e la matricola Grecia, alla sua seconda partecipazione dopo Italia 80. Arrivata agli Europei in sordina, fece saltare subito il banco sconfiggendo i padroni di casa per 2-1. I lusitani passarono lo stesso, battendo poi la Russia e vincendo il derby peninsulare con la Spagna. I greci prevalsero sugli spagnoli come secondi, per differenza reti.
Negli altri gironi, tutto facile per Francia e Inghilterra e per la Rep. Ceca, mentre una modesta Olanda sopravanzò un ancor più modesta Germania. Ma fu il girone dell’Italia a riservare la sorpresa di uno psicodramma che nessuno poteva prevedere. Nella prima giornata, quell’Italia doveva fare un sol boccone di quella Danimarca. Ma il mister Morten Olsen, consapevole di doversi inventare qualcosa, pensò bene di piazzare su Francesco Totti il mastino Christian Poulsen. Che lo fece morbido, senza che l’arbitro spagnolo Mejuto Gonzales battesse ciglio. Lo batté poi quando il fuoriclasse romano reagì scompostamente all’ennesimo fallo, sputando – a causa di una incontrollata esasperazione - su Poulsen. Rosso diretto.
Inaridita prima ed eliminata poi la fonte del gioco azzurro, la Danimarca portò in fondo uno 0-0 che complicava la vita agli azzurri, costretti a vincere la gara successiva contro un’ostica Svezia che nel frattempo aveva travolto 5-0 la Bulgaria. In vantaggio con Cassano, l’altro talento romanista che aveva sostituito lo squalificato Totti, gli azzurri furono ripresi da una carambola incredibile di Ibrahimovic. 1-1 e verdetto rimandato alla terza partita.
Alle due formazioni scandinave bastava il pareggio con due reti per parte per passare insieme ed eliminare l’Italia. I giornali italiani si divisero in due correnti: quelli che le squadre del nord queste cose non le fanno e quelli che vedrai se non le fanno, eccome. Le fecero, addomesticando un 2-2 che per l’alternanza di situazioni ebbe anche la pretesa di essere spettacolare. Nel vocabolario del calcio trovò consacrazione un neologismo, la parola biscotto. Italia fuori, tra i lazzi scandinavi e di mezzo mondo. Cassano, che si era caricato la nazionale sulle spalle e aveva battuto la Bulgaria praticamente da solo al ’90, in lacrime amare per aver visto tutto vanificato dall’antisportività altrui, dalla sfortuna e dall’ingenuità dei suoi compagni.
Il torneo proseguì ai quarti senza una delle favorite. Svezia e Danimarca mostrarono il loro reale (scarso) valore cedendo rispettivamente a Olanda e Rep. Ceca. La Francia campione in carica allungò l’elenco delle sorprese facendosi eliminare da una Grecia che sorpresa a quel punto non lo era più. Il Portogallo vendicò la semifinale del 1966 eliminando l’Inghilterra che proprio aveva i calci di rigore sullo stomaco. In semifinale, ancora un’impresa della Grecia, 1-0 alla Rep. Ceca e prima finale della sua storia. Facile vittoria portoghese sull’Olanda, che non era più quella di quattro anni prima.
Il gol decisivo di Charisteas
All’Estadio da Luz di Lisbona, il 4 luglio 2004 scese in campo un Portogallo che oltre ad essere il padrone di casa era anche strafavorito dal proprio tasso tecnico e dal favore di ogni pronostico. Era il momento di scrivere la storia per Figo, Ronaldo, Rui Costa. In tribuna Eusebio attendeva il suo successore ed il primo trionfo del suo paese. Era destinato a chiudere gli occhi, dieci anni dopo, senza aver avuto quella soddisfazione.
Dall’altra parte era scesa in campo non una squadra ma una nazione intera. A cui nessuno aveva dedicato uno straccio di pronostico favorevole. Che già si dibatteva nelle prime avvisaglie di una recessione economica che un giorno sarebbe diventata una crisi spaventosa. Come la Danimarca del 1992, la squadra che nessuno avrebbe aspettato sul podio e nessuno tantomeno avrebbe voluto premiare. Ma la squadra che a quel punto meno di chiunque altra avrebbe voluto mollare.
Quando al ’57 il centravanti greco Charisteas la buttò alle spalle del portiere lusitano Ricardo, a Lisbona dal fado si passò alle streghe. Non era possibile, i greci avevano già vinto il match di apertura, che era sembrato un evento irripetibile. Si stava ripetendo. Il coach tedesco Otto Rehagel aveva trasformato un pugno di calciatori greci senza nome in una squadra di Argonauti che aveva agguantato il Vello d’Oro dell’UEFA e lo stava riportando a casa, con un nostos degno del poema epico di Omero.
Era davvero un anno in cui tutto era possibile, quel 2004.

La gioia degli Argonauti



Storia degli Europei di calcio: 2000 Toujours la France



Il calcio moderno era entrato nel suo terzo secolo di vita, da quando degli studenti di college inglesi avevano riscritto le regole del gioco inventato nella Firenze di Lorenzo il Magnifico. E ormai la sua casa era tutto il mondo.
Nell’ultimo mondiale prima del nuovo millennio, la Francia aveva finalmente coronato il suo sogno di applicare la grandeur al football. Zidane aveva superato Platini (malgrado qualche intemperanza a cui avrebbe anche in seguito dimostrato di essere incline) portando i bleus sul tetto del mondo. L’avversaria più tosta sulla strada che portava la Coppa FIFA sugli Champs Elysées si era rivelata l’Italia di Cesare Maldini, l’uomo che aveva rilevato il celebratissimo Arrigo Sacchi sulla panchina azzurra dopo il secondo disastro inglese della storia del calcio italiano. Cesarone era reduce da tre Europei vinti con i ragazzini, gli under 21 di cui – al pari degli atleti olimpici – la patria si ricordava solo quando riportavano a casa qualche medaglia.
Cesare Maldini non aveva verbi da predicare. La sua intensità veniva da lontano, da un calcio semplice e tuttavia vincente che aveva issato l’Italia ai gradini più alti del palmares calcistico fin dai tempi eroici di Vittorio Pozzo. L’ultimo eroe della generazione del Piave aveva fatto tremare Zidane & C. mandando Roberto Baggio a sfiorare il golden gol ai supplementari di un Italia – Francia che per poco non aveva ripetuto quello del 1938. Sconfitto ai rigori, la maledizione dell’Italia di quegli anni, Maldini aveva dato le dimissioni, uno dei pochi italiani a farlo in assoluto.
Sulla panchina azzurra si era andato a sedere un altro mostro sacro. Dino Zoff era uno degli eroi di Madrid. Nel 1982 il francobollo commemorativo che ritraeva le sue mani che innalzavano la Coppa del Mondo era diventato più celebre e pregiato di un quadro di Modigliani o di De Chirico. Come Maldini, Zoff si era rivelato allenatore senza pretesa di predicazione di nuove religioni calcistiche, ma saggio e capace come pochi. Una nuova generazione di campioni si stava affermando, con alla testa punte di diamante come Francesco Totti e Christian Vieri.
Era di nuovo tempo di Europei, nell’anno 2000. La FIFA e l’UEFA, consapevoli della importanza che stavano assumendo le competizioni internazionali per rappresentative nazionali e le difficoltà organizzative che comportavano, aveva introdotto una innovazione significativa consentendo a due paesi di consorziarsi per ospitare quegli eventi. Così, il primo mondiale del terzo millennio era previsto nel 2002 in joint venture tra Corea del Sud e Giappone. Il primo europeo era stato assegnato a Belgiolanda.
Tecnicamente, titolari della manifestazione erano i Paesi Bassi, la finale essendo prevista per il 2 luglio di quell’anno a Rotterdam. Di fatto, l’undicesima edizione della Coppa Delaunay aveva due paesi ospitanti, e quindi due squadre di casa. Sufficientemente forti per ambire al trionfo finale. Due nazionali quindi erano qualificate di diritto, i posti a disposizione nelle qualificazioni scendevano a quattordici.
L’Italia per una volta disputò un girone di qualificazione senza patemi, senza infamia e senza lode. Prese subito il largo su Danimarca e Svizzera, tirando poi i remi in barca a qualificazione acquisita. Dietro gli Azzurri si piazzarono i danesi, costretti poi agli spareggi con Israele come peggiori seconde.
Negli altri gruppi, Norvegia e Slovenia, Germania e Turchia, Francia e Ucraina, Svezia e Inghilterra, Spagna e Israele, Romania e Portogallo, Jugoslavia ed Eire, Repubblica Ceca e Scozia. Passavano direttamente le prime e la migliore delle seconde, il Portogallo. Le ultime quattro uscirono dagli spareggi, dove appunto la Danimarca surclassò Israele, l’Inghilterra vinse il derby britannico con la Scozia di misura, la Slovenia sempre di misura superò l’Ucraina e la Turchia prevalse sull’Eire in virtù del gol segnato fuori casa.
La fase finale anche a Belgiolanda 2000 prevedeva quattro gironi da quattro squadre ciascuno. Quattro teste di serie, Germania campione in carica, Belgio e Olanda come paesi organizzatori, Spagna in virtù del ranking mondiale. L’Italia fu sorteggiata nel gruppo del Belgio, assieme a Svezia e Turchia. I tedeschi pescarono inglesi, portoghesi e rumeni. L’Olanda ebbe Francia, Rep. Ceca e Danimarca, mentre alla Spagna toccarono Norvegia, Jugoslavia e Slovenia.
Euro2000 fu, in quella prima fase, una specie di cimitero degli elefanti. Un ecatombe di campioni e finaliste delle precedenti edizioni. Cominciò la Germania, che aveva vinto l’edizione precedente per bravura ma anche e soprattutto sfruttando diverse circostanze favorevoli. I tedeschi pareggiarono con la Romania, persero seccamente con il Portogallo e concessero all’Inghilterra una rivincita della semifinale del 1996. Un 1-0 assolutamente inutile anche per gli inglesi, che avendo perso a loro volta con portoghesi e romeni tornarono a casa insieme ai rivali di sempre. Il gruppo A si chiudeva con l’eliminazione delle strafavorite.
Nel gruppo B, l’Italia si prese una rivincita sul Belgio che aspettava da diverse occasioni passate. Con le vittorie su turchi e svedesi gli azzurri chiusero al primo posto nel girone. Al secondo posto a sorpresa la Turchia, mentre Svezia e Belgio, protagoniste in varie edizioni precedenti, tornavano a casa. O per meglio dire, nel caso del Belgio, restavano a casa, a guardare gli altri giocare.
Nel gruppo C, la Spagna tentò di complicarsi la vita perdendo il match d’avvio con la Norvegia, che già aveva fatto vedere i sorci verdi all’Italia al mondiale francese. Gli spagnoli si ripresero regolando di misura la Slovenia e battendo 4-3 la Jugoslavia, che passò il turno accodandosi a loro avendo pareggiato per 3-3 il derby balcanico con gli sloveni.
Nel gruppo D, l’Olanda sembrava tornata il rullo compressore delle due generazioni di fenomeni precedenti. 1-0 ai cechi finalisti del ’96, 3-0 ai danesi vittoriosi nel ’92, 3-2 ai francesi campioni del mondo nel ’98. Gli orange sembravano tornati quelli che avevano incantato il mondo, ed il loro gioco spettacolare e veloce sembrava destinato a sfruttare positivamente l’occasione del torneo organizzato in casa. Dietro di loro, si qualificò una Francia appannata rispetto a due anni prima ma comunque capace di tenersi insieme, superando ed eliminando Rep. Ceca e Danimarca.
Nei quarti, Francia ancora di misura sulla Spagna grazie all’estro di Zidane e Djorkaeff. Italia senza problemi con la Romania grazie all’estro di Totti e di Inzaghi. Portogallo sul velluto con la Turchia grazie al talento di Nuno Gomes, imbeccato da fuoriclasse come Figo e Rui Costa. Olanda a valanga sulla Jugoslavia per 6-1. Impressionante.
Mo je faccio er cucchiaio....
La bella Italia di Dino Zoff non godeva affatto i favori del pronostico quando scese in campo ad Amsterdam il 29 giugno del 2000 per disputare la semifinale contro i padroni di casa. L’andamento del match confermò quel pronostico almeno per tutto il tempo regolamentare ed i supplementari, con gli azzurri che riuscirono a tenere inchiodati allo 0-0 gli orange in virtù di circostanze che ebbero quasi del miracoloso.
L’arbitro tedesco Merk dopo mezz’ora espulse Zambrotta, lasciando l’Italia in dieci contro un’Olanda che sembrava una pattuglia di Spitfire che attaccava in picchiata, a folate. Zenden, De Boer, Kluivert sembravano incontenibili. Un primo fallo in area costò il calcio di rigore che Toldo riuscì a parare a De Boer al ’40. Un secondo rigore fu fischiato in favore degli olandesi al ’62, e stavolta fu Kluivert a spedirlo sul palo.
Ma non era tutto. Scongiurata una conclusione al golden gol, si andò ai tiri dal dischetto. E si confermò che quel giorno gli dei che sovrintendono ai calci di rigore avevano maledetto l’Olanda. Per primo andò a tirare Di Biagio, l’uomo che aveva condannato la sua squadra a Saint Denis due anni prima. Stavolta Gigi non sbagliò, mentre fu de Boer a fallire il secondo penalty di giornata. Pessotto fece 2-0 per gli azzurri, un 2-0 che rimase tale per l’errore di Stam.
Toccava a Totti. Francesco decise di scrivere quel giorno una delle pagine più significative della sua leggenda calcistica. Mo’ je faccio er cucchiaio, sibilò ai compagni avviandosi verso il dischetto del rigore. E così fu. Van der Saar da una parte e palla a cucchiaio irridente sopra di lui. 3-0, Totti nella leggenda e Toldo con il primo match ball sui guantoni. Segnò Kluivert, sbagliò Paolo Maldini, ma due errori erano troppi da recuperare per gli olandesi, che quel giorno non erano grati agli dei. L’ultimo rigore di Bosvelt volò alto. L’Italia era in finale per la prima volta dal 1968, l’Olanda era in ginocchio.
Nell’altra semifinale, la Francia aveva prevalso su un bel Portogallo per 2-1, impressionando per solidità più che per il gioco. Zidane guidava una legione straniera che era meno brillante rispetto a due anni prima, ma che come la Germania quattro anni prima era difficilissimo battere.
Gli azzurri volevano e cercarono la rivincita di Saint Denis. E sembrarono riuscire ad averla per quasi 93 minuti di gioco. Al ’55 Del vecchio portò in vantaggio l’Italia, che poi sembrò poter gestire grazie ai piedi buoni di Totti & c. Al terzo minuto supplementare, Zidane riuscì per un attimo a liberarsi dalla gabbia che i compagni di squadra bianconeri gli avevano allestito e servì Wiltord, che con un tiro senza troppe pretese pareggiò. Qualcuno paragonò il gol preso da Toldo a quello preso da Galli da Maradona a Mexico 86, un errore di valutazione. Comunque fosse, la sorte aveva voltato le spalle agli azzurri a pochi centimetri dal traguardo.
Ai supplementari, l’Italia era stanca e forse anche un po’ scossa nel morale. L’occasione del golden gol toccò a David Trezeguet, che come Oliver Bierhoff quattro anni prima non sbagliò, dando la vittoria alla squadra meno bella forse ma più solida. Al secondo posto del palmares europeo con due vittorie contro le tre tedesche ci andava dunque la Francia, mentre l’Italia doveva rimandare un appuntamento atteso 32 anni.
Al ritorno in patria, siparietto inusuale con il Presidente del Consiglio Berlusconi che attaccò il Commissario tecnico Zoff criticando aspramente la sua improvvida decisione di non far marcare a uomo Zinedine Zidane. Zoff la prese malissimo rassegnando dimissioni immediate. L’opinione pubblica restò con l’impressione che le cose fossero andate più al di là del merito della questione e dello spirito del momento, sottintendendo che la ruggine affiorata tra i personaggi coinvolti avesse radici magari diverse e più lontane.
Come Valcareggi nel 1970, Dino Zoff pagò dunque un secondo posto di extralusso, anche se stavolta nessuno gli tirò i pomodori all’aeroporto. Sulla sua panchina andò a sedersi Giovanni Trapattoni, che quei pomodori li aveva quasi presi in faccia a Firenze, reo secondo la tifoseria locale di non aver vinto nulla con quella che sarebbe rimasta come la miglior Fiorentina per tanto tempo a venire.

Storia degli Europei di calcio: 1996 La Germania conquista l'Inghilterra

Football comes home. Nella primavera del 1996 Londra era completamente tappezzata di manifestini che anticipavano l’imminente disputa della decima edizione della Coppa Europa per Nazioni, e nello stesso tempo rivendicavano il diritto di primogenitura britannico per quello che era stato definito il gioco del secolo.
Trent’anni dopo il mondiale vinto da Hurst e compagni, l’Inghilterra aveva ottenuto nuovamente l’organizzazione di una competizione internazionale. Come trent’anni prima, all’appuntamento casalingo il vecchio leone inglese (non a caso individuato come mascotte della manifestazione) si presentava con il carico di speranze di vittoria finale legittimato dal poter mettere in campo una squadra nuovamente forte, e alimentato da una lunga attesa. La patria del calcio aveva vinto una sola volta il mondiale, e mai l’europeo. Agli ordini del capitano di lungo corso Terry Venables, si erano arruolati campioni come Gascoigne, Shearer, Platt, Ferdinand, Southgate, Pearce, Neville, il portiere Seaman e tanti altri protagonisti del calcio internazionale. La speranza di issare nuovamente la Union Jack sul pennone più alto del podio era più che giustificata.
In realtà, il calcio com’è noto vantava origini ben più antiche. La prima notizia storica di una partita di calcio disputata sul continente europeo risale al 1530. Nella città di Firenze assediata dalle truppe dell’imperatore Carlo V di Spagna, che intendeva reinsediare con le buone o con le cattive la dinastia Medici in quello che ormai considerava come un suo ducato ribelle, i fiorentini non trovarono di meglio che sbattergli in faccia sprezzantemente una bella partita di calcio  giocata con tutti i sentimenti in Piazza Santa Croce. E’ lecito pensare che si trattasse di un gioco diventato popolare da tempo, almeno dal secolo precedente. La Repubblica alla fine cadde, i Medici tornarono come Granduchi imperiali, ma il calcio rimase e circa tre secoli dopo nei colleges di Sua Maestà britannica fu codificato più o meno come lo conosciamo adesso.
Legittimo quindi l’orgoglio inglese, anche se non supportato da adeguati risultati, almeno nel ventesimo secolo. Questa sembrava la volta buona, e Sua Maestà la regina Elisabetta si preparava mentalmente a scendere di nuovo sul prato verde per premiare una nuova generazione di eroi blasonati con lo stemma di Riccardo Cuor di Leone.
Anche il resto del continente europeo, riassestatosi alla meglio dagli sconvolgimenti occorsi a ridosso dell’edizione di quattro anni prima conclusasi con la vittoria dei razziatori danesi, si preparava a dare battaglia agli uomini di Sua Maestà. E ne aveva altrettanto ben d’onde. La Germania riunificata aveva posto alle direttive di una vecchia gloria come Bertie Vogts il meglio che il calcio dell’Est e dell’Ovest aveva prodotto, mixando il tutto in un’amalgama che prometteva di mantenere il calcio tedesco all’altezza delle sue tradizioni. I bianchi non deludevano mai, da trent’anni a quella parte arrivavano sempre in fondo alle manifestazioni  internazionali.
Anche l’Italia di Arrigo Sacchi non celava l’intenzione di confermare in sede continentale il brillante – anche se soffertissimo – secondo posto ottenuto al mondiale statunitense di due anni prima. Anche se a ben guardare il morale della truppa italiana era potenzialmente minato dalla consapevolezza che il condottiero non godeva più la fiducia della Federcalcio, dalle polemiche interne tra blocco Milan e resto del campionato, dalla querelle Baggio-SI, Baggio-NO. L’astro di Alessandro Del Piero, grazie anche alla potente sponsorizzazione di un interessato Avvocato Gianni Agnelli, stava offuscando quello del Codino, che alla fine non ricevette la convocazione a England 96. Si disse che Sacchi gli aveva presentato il conto della ruggine insorta tra loro ai tempi del mondiale americano, allorché Baggino sostituito dall’Arrigo lo aveva platealmente mandato a quel paese con appena un po’ più di garbo rispetto a quanto fatto da Chinaglia con Valcareggi 20 anni prima. Se così fosse andata, Arrigo Sacchi aveva presentato in realtà il conto a se stesso.
1996 l'ultima Italia di Arrigo Sacchi
La Francia poteva mettere in campo la sua nouvelle vague, che annoverava campioni emergenti come Zinedine Zidane, Youri Djorkaeff, Didier Deschamps, Lilian Thuram. Anche la Spagna non scherzava, avendo posto le basi per una nuova generazione che a gioco lungo si sarebbe impossessata del calcio europeo e mondiale. Luis Enrique e compagni, essendo stati eliminati dall’Italia nel 1994 per merito di Roberto Baggio e anche di qualche maniera forte, cercavano non vendetta ma rivincita. Russia, Repubblica Ceca e Croazia oltre che soggetti politici del tutto nuovi erano altrettanti punti interrogativi quanto al proprio valore calcistico.
Quella che si sarebbe disputata dall’8 al 30 giugno 1996 prometteva insomma di essere una edizione di lusso. Per tener dietro ai tempi e consacrare lo sport più popolare del mondo come show business puro, l’UEFA aveva introdotto modifiche regolamentari importanti. Le partecipanti alla fase finale diventavano sedici, organizzate in quattro gironi da quattro. Alle vittorie si assegnavano non più due punti ma tre, come avveniva ormai in tutte le competizioni nazionali ed internazionali. Le qualificazioni avevano premiato le prime degli otto gironi, le sei migliori seconde, la vincente dello spareggio fra le peggiori, cioè Olanda ed Eire (2-0 per gli orange), e l’Inghilterra come paese organizzatore. Introdotta per la prima volta la regola del golden gol, ma solo per la finale.
Le innovazioni salvarono la pelle non solo all’Italia (che aveva trovato subito nella Croazia un osso durissimo, perdendoci in casa per 2-1 e pareggiando a Spalato per 1-1), ma anche la Francia (seconda dietro la Romania), la Danimarca campione in carica (superata dalla Spagna), l’Olanda (dietro la Rep. Ceca), l’Eire (dietro al Portogallo) e la Scozia (dietro la Russia), mentre Germania e Svizzera rispettavano il pronostico sopravanzando Bulgaria e Turchia.
Il rigore sbagliato da Zola contro la Germania
L’Italia tornava dunque agli Europei dopo il flop del 1992, senza tuttavia aver chiarito il suo reale valore. La spedizione azzurra partì comunque tra mille polemiche, sembrava di essere tornati indietro di trent’anni, ad un’altra spedizione inglese naufragata in quel di Middlesborough sotto i colpi di un dentista nordcoreano. Il girone che l’attendeva a Liverpool e Manchester non era uno scherzo: Russia, Rep. Ceca e Germania. Gli azzurri cominciarono alla grande contro gli eredi dell’Unione Sovietica, vincendo 2-1 con doppietta del bomber juventino Casiraghi. Poi, mentre la Germania regolava per 2-0 i cechi e all’Italia si presentava quindi il match ball per chiudere subito il girone, Sacchi ne combinò una delle sue: squadra rivoluzionata dal turnover anticipato per evitare affaticamenti. Risultato, Rep. Ceca 2 – Italia 1, inutile il gol di Enrico Chiesa. La Germania ne dette tre alla Russia. Nell’ultima partita all’Old Trafford di Manchester l’Italia – tanto per cambiare – si giocava la sopravvivenza.
Fu una partita a senso unico, come quella che ci era costata i mondiali di Argentina nel 1978. Si giocò praticamente ad una porta sola, quella tedesca. Gli azzurri erano largamente superiori, ma attanagliati da una tensione che era la risultante di tutte le polemiche sofferte nel periodo precedente il torneo. Gianfranco Zola, il terzo a godere fino a quel momento tra i due litiganti Baggio e Del Piero, sbagliò il rigore decisivo. L’Italia uscì di nuovo al primo turno in terra inglese. Arrigo Sacchi seguì il destino del suo conterraneo Edmondo Fabbri. Per come sarebbero andate a finire le cose, col senno di poi, si può dire che gli azzurri erano probabilmente la squadra migliore e persero un’occasione clamorosa.
Negli altri gironi, Inghilterra e Olanda, Francia e Spagna, Portogallo e  Croazia andarono a disputare i quarti di finale. Dove la Francia eliminò un’Olanda in evidente fase di stanca solo ai calci di rigore, la Rep. Ceca superò di misura il Portogallo, la Germania fece altrettanto con la Croazia e l’Inghilterra sempre ai rigori eliminò la Spagna.
Lionheart, la mascotte dell'europeo inglese
In semifinale, da un lato alla Francia emergente fu dato il compito di testare la neonata Repubblica Ceca. Dall’altro la nemesi calcistica ripropose la storica finale del 1966 tra Inghilterra e Germania, quella decisa dal gol fantasma di Hurst. E ancora una volta i calci di rigore la fecero da padrone, in entrambe le partite. I cechi si dimostrarono all’altezza dei loro avi vittoriosi nel 1976, costringendo i bleus di Francia all’errore fatale. Nell’altra partita, l’Inghilterra aveva avuto una supremazia territoriale costellata di diverse occasioni da gol, ma la Germania si era dimostrata una formazione essenzialmente solida, e aveva resistito.
Ai rigori, tra le due c’era un altro precedente, che risaliva a Italia 90. Allora avevano pianto i bianchi d’Inghilterra. Stavolta gli inglesi avevano il conforto di essere già sopravvissuti alla lotteria nei quarti con gli spagnoli. Andarono sul dischetto più self confident. Ma ci andarono anche i tedeschi. Dopo una prima serie di cinque, al primo rigore ad oltranza nel gelo dell’Imperial Stadium di Wembley toccò a Southgate sbagliare. Andy Moeller invece trasformò, in un silenzio di tomba, e corse alla bandierina. Germania in finale, Inghilterra che rincorreva a quel punto l’Italia nella speciale classifica dei negati ai calci di rigore.
Jurgen Klinsmann alza la coppa sotto gli occhi della regina Elisabetta
Ad una compassata ma comprensibilmente delusa regina Elisabetta toccò dunque scendere sul prato di Wembley il 30 giugno a salutare una squadra in maglia bianca che non era la sua, con Jurgen Klinsmann che visibilmente emozionato le faceva da interprete. Per i cechi guidati dall’astro emergente Pavel Nedved, si trattava di un ritorno in finale, pur con ragione sociale diversa, dopo ben vent’anni.
Come vent’anni prima, i cechi sembrarono farcela, andando in vantaggio con un rigore di Berger al 58’. Ma gli dei stavolta banchettavano sulle rive del Reno. La Germania aveva un Oliver Bierhof in stato di grazia. Il bomber dell’Udinese pareggiò al ’73 ed al ‘5 supplementare inflisse agli avversari la morte improvvisa.
Di tutte le rivali, quella che alzò la Coppa Delaunay festeggiando sul prato di Wembley era quella che meno di tutte gli inglesi avrebbero voluto vedere. Il calcio era sì tornato a casa, ma se ne era subito riandato, e verso una direzione decisamente sgradita. Peggio dell’Inghilterra stava solo l’Italia. Quella Germania che adesso vantava nel palmares ben tre titoli europei (uno finalmente senza la specifica Ovest), gli azzurri l’avevano stradominata. E tuttavia, la casa del calcio si stava spostando altrove.

Storia degli Europei di calcio: I ragazzi di Cesare

Negli anni 80 e 90 il calcio italiano arrivò ad un passo dal poter essere considerato il più forte del mondo. Di sicuro, il campionato italiano si meritava l’appellativo di più bello in assoluto, gli assi stranieri facevano la fila per venire a giocare in Italia, i club italiani dominavano in Europa e nel mondo ottenendo vittorie in serie. Nel 1990 all’ultima riunione del board dell’UEFA prima del mondiale italiano, Antonio Matarrese fu accolto da un applauso scrosciante, poiché le tre competizioni continentali – Coppa CampioniCoppa Coppe e Coppa UEFA – si erano concluse con altrettanti successi di nostre squadre, rispettivamente MilanNapoli e Juventus, che aveva prevalso tra l’altro su un’altra italiana, la Fiorentina.
Cesare Maldini con Enzo Bearzot a Spagna 82
Nel decennio successivo, la musica – almeno a livello di club – sarebbe cambiata poco. Fu un’Età dell’Oro per l’Italia del calcio, di cui però negli Albi d’Oro delle competizioni per rappresentative nazionali rimane poco o nulla. Tra la vittoria mondiale dell’82 e quella del 2006, la Nazionale azzurra conquistò soltanto una finale europea, nel 2000. Per il resto, golden gol e calci di rigore fecero sì che se non mancò il valore mancò di sicuro la fortuna.
Tre mondiali consecutivi, 90, 94 e 98, conclusi dal dischetto (con una sola sconfitta nei tempi regolamentari, contro l’Eire a New York), un altro negli ottavi (in Corea, arbitro l’ineffabile Moreno) a causa della morte improvvisa, la stessa che nel 2000 beffò a Rotterdam i ragazzi di Zoff al cospetto di Trezeguet & soci. Due volte non qualificata agli Europei (Francia e Svezia), una volta fuori nel girone dei quarti (Inghilterra), una volta sola in semifinale (Germania). Troppo poco. Due generazioni di campioni in azzurro rimaste a bocca asciutta, almeno fino a Berlino 2006.
Negli stessi anni, l’accademia del calcio si dilaniava sul dibattito filosofico tra fautori del calcio all’italiana e fautori di quello all’olandese. Il calcio totale aveva vissuto una seconda giovinezza proprio in Italia, grazie al successo di Arrigo Sacchi e del suo Milan a trazione olandese. Il movimento era stato fortemente tentato, come già negli anni 70, di riconvertirsi al verbo orange, ma molti erano restii ad abbandonare certezze tecnico-tattiche che risalivano ai tempi gloriosi di Vittorio Pozzo.
Lo stesso Sacchi, trapiantato in Nazionale, aveva destato più perplessità che entusiasmi. Chiamato da Matarrese a far meglio di Vicini, si era fermato sugli ostacoli che per Vicini erano stati insormontabili, malgrado tutta la sua intensità e le sue ripartenze, malgrado il divieto di pronunciare parole come contropiede e difesa. Il calcio italiano con lui non aveva aggiunto nulla al suo palmares, alle tre stelle mondiali ed all’unica singola europea, che dal 1968 brillava sola soletta sul labaro azzurro.
Demetrio Albertini capitano della Under 21 vittoriosa nel 1992
A tenere alto il prestigio nazionale, in quel periodo, ci aveva pensato il vivaio, che come da tradizione continuava a sfornare campioni a getto continuo. E soprattutto ci aveva pensato un vecchio condottiero, un vecchio arnese da calcio che si era formato alla scuola di Nereo Rocco, il leggendario paron milanista secondo cui o palla o gamba, meglio se palla.
Cesare Maldini era stato una colonna di un grande Milan, prima di intraprendere la carriera di allenatore proprio in rossonero come vice di Rocco. Nel 1980 fu scelto dalla F.I.G.C. per affiancare Enzo Bearzot sulla panchina della Nazionale. Come vice del friulano Bearzot, il triestino Maldini alzò la Coppa del Mondo nell’82. Come vice, accompagnò il vecio anche nella sconfitta. Nel 1986 in Messico il ciclo mundial si concluse definitivamente. Bearzot a casa, Vicini – allenatore di una splendida Under 21 finalista all’Europeo di categoria – al suo posto sulla panchina della Nazionale maggiore. A Cesare toccò l’Under 21.
Per dieci anni, Maldini scrisse con i ragazzi la storia che colleghi molto più trendy di lui in quel momento non riuscivano a scrivere con i grandi. Il torneo Under 21 esisteva a livello europeo fin dagli anni 60. Con poche eccezioni, era stato fino a quel momento territorio di caccia delle rappresentative dell’est europeo, evidentemente più favorevoli ad investire in modo sistematico sui propri vivai. Quando Maldini prese in mano l’Under, la competizione funzionava ad eliminazione diretta, con partite di andata e ritorno, finale compresa.
LA vittoria del 1994
L’Italia si era affacciata alla ribalta nel 1986 per la prima volta. I Vicini boys, destinati di lì a poco ad essere trapiantati in Nazionale maggiore, avevano ceduto ai rigori ai ninos di Luisito Suarez, dopo che andata e ritorno si erano concluse con lo stesso risultato, 2-1 per i padroni di casa. A Valladolid era andata male, Vicini si era dato il cambio con Maldini sulla panchina della Nazionale che intraprendeva il cammino verso Italia 90.
Cesare Maldini si mise a lavorare con la costanza, la capacità e la riservatezza propria della gente della sua terra. A riflettori spenti, costruì pezzo dopo pezzo una Under 21 che non aveva nulla da invidiare a quella del predecessore. I primi due assalti si conclusero con onorevoli piazzamenti. Nel 1988, gli azzurrini si arresero alla Francia nei quarti (2-1 e 2-2), confortati almeno dal fatto di aver perso di misura con la squadra che avrebbe vinto il titolo. Nel 1990 toccò ad una Jugoslavia alla sua ultima uscita prima del disfacimento fermare ancora l’Under italiana, stavolta in semifinale, 0-0 nei Balcani e 2-2 di qua dall’Adriatico. Jugoslavi poi finalisti, sconfitti da un URSS anch’essa praticamente alla sua ultima apparizione.
Nel 1992 prese il via l’epopea di Cesare Maldini e dei suoi ragazzi terribili. Gianluca SordoRenato BusoAlessandro MelliFrancesco AntonioliDemetrio Albertini sono alcuni nomi di quella Under che uscita fuori da un girone di qualificazione che comprendeva URSS, Norvegia e Ungheria (malgrado un clamoroso 6-0 rimediato ad Oslo), si prese la soddisfazione di battere nei quarti la Cecoslovacchia sia in casa (2-0) che fuori (2-1). Stesso trattamento riservato alla Danimarca in semifinale, 1-0 ad Aalborg e 2-0 a Perugia. La finale opponeva agli azzurrini la Svezia, che finì anch’essa sotto il rullo compressore. A Ferrara fu un comodo 2-0, a Vaxjo gli svedesi si portarono in vantaggio nella ripresa ma gli azzurrini tennero. Assieme alla prima Coppa Europa Under 21 della loro storia, si portarono via anche la qualificazione alle Olimpiadi di Barcellona, dove sarebbero stati fermati dalla Spagna per 1-0 nei quarti.
Era già tanto, per un tecnico considerato ai margini del calcio che contava. Ma nel 1994, mentre Arrigo Sacchi tentava la sua chance mondiale in USA con Baggio & c., Maldini decise di rubargli ancora la scena. Con una rappresentativa ancora più forte grazie all’esplosione di VieriInzaghiToldoPanucci solo per dirne alcuni, i campioni in carica iniziarono la difesa del titolo dominando un girone a cinque comprendente PortogalloSvizzera Scozia e Malta. Giocate 8, vinte 7, persa una sola, in Portogallo. Nei quarti, ancora la Cecoslovacchia. Gli azzurrini chiusero subito il discorso con un bel 3-0 casalingo. In Boemia, sconfitta su rigore all’ultimo minuto, assolutamente ininfluente.
La vittoria del 1996
Il regolamento nel frattempo era cambiato. Il torneo adesso proseguiva sulla falsariga di quello delle prime edizioni della Coppa Delaunay. Venne designato un paese ospitante, dove le quattro superstiti si sarebbero date battaglia in semifinale e finale. Agli azzurrini toccarono i bleus padroni di casa, tra i quali spiccavano i nomi di gente come ZidaneBlancDugarry. A Montpellier furono 120 minuti di battaglia, conclusi sullo 0-0. I rigori, che nello stesso periodo costarono alla Nazionale maggiore il secondo mondiale consecutivo, qui sorrisero all’Italia che andò in finale grazie all’errore decisivo di Makelele. In finale, l’Under trovò i coetanei portoghesi, gente che si chiamava Rui CostaFigoJoao Pinto. Partita tattica, che si trascinò ai supplementari a reti bianche. Finché Orlandini, entrato a rilevare uno spento Inzaghi, non indovinò un gran tiro all’incrocio dei pali. Era il golden gol, che in futuro avrebbe fatto piangere gli azzurri ad europei e mondiali quanto e più dei rigori. Qui sorrise Cesare Maldini, e con lui i suoi ragazzi autori di un clamoroso bis.
Qualcuno cominciava ad accorgersi di questo allenatore che parlava poco e raccoglieva tanto. Tutto il contrario del CT della nazionale maggiore, quell’Arrigo Sacchi che era arrivato sì ad una finale mondiale con il Brasile ma attraverso un percorso travagliatissimo, e che al pari di tanti suoi predecessori subito dopo non era stato capace di far disputare agli Azzurri un Europeo all’altezza. Nel 1996, mentre l’Italia maggiore sbatteva il muso per la seconda volta in terra inglese, come 30 anni prima, Cesare partiva per la Spagna con i suoi bicampeones, ai quali si era aggiunta linfa nuova. Un nome su tutti: Francesco Totti.
Con il figlio Paolo in Nazionale maggiore
L’Italia era uscita da un girone a sei costellato di nazionali nate dall’esplosione del pianeta URSS. Nei quarti, il Portogallo sperava di vendicare la sconfitta di due anni prima. A Lisbona, sembrò porre le basi della vendetta, l’1-0 illuse i lusitani che due settimane dopo a Palermo invece soccombettero per 2-0. Si andava dunque in Spagna, e il sorteggio ci mise subito di fronte un’altra squadra in cerca di vendetta, la Francia di CandelaVieiraWilthord. Un gol di Totti infiammò Barcellona e gelò l’entusiasmo ai francesi. In finale ci andava ancora l’Italia, ma stavolta era dura perché dall’altra semifinale erano usciti i padroni di casa spagnoli.
Qui, il conto aperto ce lo avevamo noi, dal 1986. Ancora una volta dovevamo saldarlo fuori casa. Ma malgrado la cantera spagnola avesse già cominciato a sfornare campioni come MorientesDe la PenaRaul, gli azzurrini non tremarono. In vantaggio con Ametrano, raggiunti da Raul, ai calci di rigore stavolta non sbagliarono se non il primo con Panucci. Pagotto parò su de La Pena e Raul. La Coppa restava in Italia, Maldini entrava nella leggenda.
Chissà dove sarebbe arrivato Cesarone con la sua striscia di vittorie se alla fine di quel 1996 la F.I.G.C. non lo avesse chiamato a prendere il posto di un Arrigo Sacchi che da profeta del calcio era ridotto a quel punto ad oggetto ingombrante ed insopportabile per i vertici federali. Maldini senza battere ciglio traslocò in Nazionale maggiore, portò Zola e compagni a sbancare Wembley e due anni dopo a far tremare di nuovo la Francia al mondiale che essa aveva organizzato in casa. Stavolta i rigori non gli sorrisero, l’errore decisivo fu di Gigi Di Biagio. Più della sua stella personale, aveva potuto la strana maledizione che per la terza volta ci eliminava senza essere stati battuti da un mondiale a cui ci eravamo presentati pieni zeppi di campioni.
Con Marco Tardelli, suo successore alla Under 21
L’Italia maggiore non avrebbe ritrovato il sorriso neppure dopo l‘addio di Maldini, fermata ancora dalla Francia in finale nel 2000 e negli ottavi dalla Corea nel 2002 con due morti improvvise. Nessuno immaginava allora come potesse essere il cielo sopra Berlino, ma nel frattempo c’erano i ragazzini a rasserenare l’ambiente portando a casa il quarto e quinto titolo Under 21. Nel 2000 fu Marco Tardelli a mettere in campo il gruppo che capitanato da Andrea Pirlo avrebbe inaugurato un nuovo ciclo. Uscita da un girone di qualificazione a sei e da uno di semifinale a quattro che ricordava quello di Argentina 78, la Under regolò nella finale di Bratislava la Repubblica Ceca con una doppietta di Pirlo.
Nel 2004 invece in panchina c’era Claudio Gentile, un altro che come Maldini concedeva poco all’estetica e molto alla sostanza. In quella Under che lui portò in Germania ad assaporare un ricco antipasto del mondiale di due anni dopo, c’era gente come Alberto Gilardino e Daniele De Rossi. Che segnarono due dei tre gol alla Serbia che dettero all’Italia il primato (a tutt’oggi) di vittorie nel campionato europeo di categoria. Cinque contro le quattro della Spagna (l’ultima delle quali ottenuta nel 2013 proprio contro l’Italia per 4-2 in una specie di bis della finale maggiore europea di Kiev dell’anno prima). Una sola della Germania.

Fino a 21 anni siamo, o eravamo, i più forti d’Europa. Il nome di Cesare Maldini da solo brilla a imperitura testimonianza del prestigio del nostro calcio giovanile che fu. E che speriamo un giorno sia ancora.