La vittoria dell’URSS all’Europeo
di Calcio France 60 era stata una sorpresa soltanto per i non addetti ai
lavori. Il calcio dell’Est era in forte ascesa, negli anni in cui la Cortina di
Ferro della Guerra Fredda sembrava iniziare faticosamente e lentamente a
sollevarsi.
Dopo l’exploit della Grande
Ungheria ai mondiali svizzeri del 1954 e quello dell’Unione Sovietica agli
europei francesi del 1960 (corredato da un podio tutto “comunista”, con la non
allineata Jugoslavia medaglia d’argento e l’Ungheria ritornata forzatamente ortodossa
medaglia di bronzo), era arrivato il secondo posto della Cecoslovacchia di
Masopust & C. ai mondiali cileni del 1962. I cechi avevano dato del bel
filo da torcere ai carioca privi di Pelé, che l’avevano spuntata con più fatica
di quanto dicesse il punteggio finale, 3-1.
In vista dell’edizione del torneo
continentale dell’anno di grazia 1964, due cose erano ormai chiare. La prima
era che all’Est ormai si giocava a calcio quasi altrettanto bene che all’Ovest.
La seconda era che la Coppa Henri Delaunay si stava affermando come una realtà
tecnicamente appetibile. Alla seconda edizione, l’unico forfait di rilievo fu
quello della Germania Ovest, peraltro non ancora annoverabile tra le potenze
calcistiche di primo piano malgrado il successo mondiale di dieci anni prima.
Alle eliminatorie, da disputarsi
fino ai quarti con matches di andata e ritorno aventi luogo nei paesi
contendenti, si iscrissero ben 29 paesi sui 32 allora presenti sulla carta
geografica dell’Europa (oltre ai tedeschi dell’ovest si tennero fuori soltanto
Scozia e Finlandia). Stavolta, la grana diplomatica scoppiò subito, con la
Grecia che si rifiutò di incontrare quell’Albania dalla quale la dividevano
questioni secolari di rivendicazioni territoriali. URSS, Austria e Lussemburgo
furono ammesse direttamente al secondo turno.
Poche le sorprese, di rilievo
praticamente la sola eliminazione dell’Inghilterra, al suo debutto europeo, per
6-3 da parte della Francia semifinalista quattro anni prima. L’Irlanda del Nord
andò a vincere in Polonia. L’Italia, altra debuttante, in Turchia. Ottimo
esordio anche per la Spagna, che si impose con un complessivo 7-3 sulla
Romania.
Negli ottavi, arrivarono i primi
verdetti importanti. In primo luogo, quello che ci interessava da vicino. L’Italia,
calcisticamente parlando, era ancora un paese convalescente, che stentava ad
allestire rappresentative all’altezza dei fasti del passato. Opposta all’URSS
campione in carica, la nazionale azzurra perse malamente a Mosca. Allo Stadio Lenin
stava già sotto per 2-0 dopo i primi 45 minuti. All’Olimpico di Roma non riuscì
a ribaltare il risultato, anzi si trovò sotto con Gusarov al 33’. In questa circostanza nacque
la più celebre “staffetta” della storia del calcio italiano. Sbagliò il
pareggio la giovane stella della Grande Inter di Herrera, Sandro Mazzola. Rimediò
a pochi secondi dalla fine il subentrato Gianni Rivera, altrettanto giovane
stella di un altrettanto Grande Milan. L’1-1
sancì l’eliminazione dell’Italia.
Ai quarti, si allinearono la
Spagna a scapito dell’Irlanda del Nord, la Svezia che eliminò la Jugoslavia
finalista di Parigi, la Danimarca che regolò l’Albania, il sorprendente
Lussemburgo che eliminò un’Olanda ancora neanche lontana parente di quella che
avremmo ammirato dieci anni dopo. L'Eire ebbe ragione dell’Austria, la Francia
della Bulgaria e l’Ungheria della Germania Est nell’unico derby del Patto di Varsavia.
I turni eliminatori si conclusero
con le sfide dei quarti. Il Lussemburgo si confermò quell’anno miracolato,
riuscendo a portare la Danimarca al terzo match in campo neutro (all’epoca non
valeva la regola dei gol segnati in trasferta). I danesi con gran fatica si
issarono alle semifinali, accompagnati dalla travolgente Spagna (7-1 all’Eire),
dall’implacabile Unione Sovietica (4-2 ad un’ottima Svezia) e dall’Ungheria
capace di sbancare il parco dei principi ed eliminare la Francia.
Era il momento di sorteggiare il
paese ospitante la fase finale. Si profilava un'altra possibile grana
diplomatica. Due delle quattro semifinaliste rappresentavano paesi che per
svariati motivi erano ritenuti non idonei ad ospitare grandi manifestazioni
sportive internazionali, URSS ed Ungheria. Una terza, la Danimarca, aveva poco
peso specifico, in tutti i sensi. Restava la Spagna.
La penisola iberica viveva a quel
tempo una condizione particolare. Il paese che a partire dal Rinascimento fino
al Secolo dei Lumi aveva praticamente dominato la storia europea, ne era
rimasto sostanzialmente fuori dopo le guerre napoleoniche e fino alla seconda
guerra mondiale. La Guerra Civile spagnola era stata una palestra per le
dittature fasciste in vista del conflitto che si sarebbe scatenato sul pianeta
di lì a poco. Tra l’altro, solo l’URSS di Stalin aveva provato a sostenere il
campo del Fronte Popolare. Troppo poco, aveva vinto Francisco Franco
instaurando a sua volta una dittatura destinata a durare 40 anni. Il
generalissimo non aveva bisogno della partecipazione sovietica alla difesa
della repubblica per coltivare il proprio anticomunismo viscerale e vedere
tutto ciò che era russo come fumo negli occhi per il resto della sua vita.
La Spagna si era inorgoglita dei
successi a ripetizione del suo Real Madrid nei trofei internazionali di club. Ma
non aveva ancora stretto nel pugno alcun alloro a livello di nazionale. La
miglior prestazione delle Furie Rosse risaliva ai mondiali italiani del 1934,
allorché Zamora & C. fecero vedere i sorci verdi ai ragazzi di Vittorio
Pozzo, che ebbero bisogno della ripetizione del match nei quarti e dell’assenza
del leggendario portiere iberico per passare il turno e volare verso il titolo.
Nel 1959, la Spagna franchista si
era rifiutata di andare a rendere visita alla Russia comunista, lasciandole via
libera verso la fase finale a Parigi. Stavolta, l’onore dell’Occidente riposava
tutto sulle spalle della Furia Roja. Il Blocco dell’Est stava diventando imbattibile,
ingombrante.
Accertato che la Spagna stavolta
avrebbe tenuto la posizione, come quei tercios che ne avevano fatto una volta
la fortuna militare, l’UEFA le assegnò l’organizzazione della fase finale. Le
semifinali si sarebbero disputate nei due stadi dove si scriveva già allora la
storia sportiva iberica, il Santiago Bernabeu di Madrid ed il Nou Camp di Barcellona.
Alla Castiglia, alla capitale, toccò ovviamente ospitare la squadra di casa
contro la temibile Ungheria. Segnò Pereda al 35’, pareggiò il magiaro Bene
quando già i madridisti pregustavano il triplice fischio che li spediva in
finale. Amancio mise fine all’agonia di un paese soltanto al 112’.
La Furia Roja attendeva la sua
antagonista che poche ore dopo doveva uscire dalla Catalogna, dove l’URSS
affrontava la sorpresa Danimarca. Fu un 3-0 senza storia, la conferma che l’URSS
di quegli anni era una realtà più che solida. E che se la Spagna voleva
arrivare finalmente alla gloria doveva risolversi ad affrontare quella che per
lei era la bestia più nera di tutte.
Il 21 giugno 1964 al Santiago
Bernabeu di Madrid presero posto sugli spalti oltre al generalissimo Franco
ben 125.000 spettatori. Il clima era torrido, sia dal punto meteorologico che da
quello delle aspettative sportive di un intero paese che premeva su quello
stadio. I granitici sovietici sembrarono accusare il colpo e vacillarono. Forse non
si aspettavano che il loro inno venisse applaudito lì, nella tana del lupo
falangista. Forse quel giorno gli “adelanteros” spagnoli erano troppo veloci
per la difesa russa che cominciava a mostrare i suoi anni. Quel giorno i miracoli
di Lev Yashin non bastarono. Segnò subito Pereda al 6’, rimediò una prima volta Khusainov
con il fulmineo pareggio all’8’. Pian
piano le folate iberiche e il caldo torrido lavorarono ai fianchi i sovietici,
che nel secondo tempo sembrarono pagare dazio. Quando all’85’ Marcelino mise
alle spalle di Yashin il gol decisivo, non c’era più tempo per i campioni in
carica per recuperare.
Lo scontro tra due paesi che
lottavano per ricostruire – al di là delle convenienze politiche – la propria
immagine internazionale, si concluse dunque a favore del paese più ad occidente
di un’Europa che in quel momento l’annoverava tra le proprie nazioni
malvolentieri. Mentre al Bernabeu risuonavano le note di Que Viva Espana, il
capitano Ferran Olivella ricevette dalle mani dei dignitari UEFA la Coppa Delaunay e dal Caudillo Franco un abbraccio che valeva in quel momento quello
di una intera nazione.
La Spagna succedeva all’Unione
Sovietica nell’Albo d’Oro della manifestazione continentale. Ma soprattutto, la
distensione tra i blocchi sembrava funzionare finalmente anche sui campi di
calcio. Si era giocato un match importantissimo tra due nazioni che si erano
combattute sanguinosamente trent’anni prima e che da allora si erano
decisamente odiate. Ed era stata tutto sommato una partita normale. Una
semplice per quanto importante partita di calcio.
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