Com’era successo per la prima
edizione del Campionato del Mondo di Calcio del 1930 (allora più
comprensibilmente, perché a quell’epoca un viaggio transoceanico per nave o
addirittura per aereo non era uno scherzo), anche la prima edizione
dell’Europeo fu penalizzata dall’assenza di alcune delle grandi potenze pallonare
del momento.
Il 1960 fu l’anno delle Olimpiadi
di Roma. Alcune federazioni importanti preferirono ancora optare per il torneo
olimpico, o forse semplicemente non credevano nella riuscita del torneo nuovo
di zecca che la neo costituita UEFA aveva organizzato per le rappresentative nazionali
continentali. All’avvio delle eliminatorie nell’aprile del 1959 mancavano
all’appello Inghilterra, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Svizzera.
Mancava anche l’Italia,
ufficialmente perché impegnata in altre competizioni. In realtà la nostra Federazione
aveva difficoltà a ricostituire una rappresentativa azzurra all’altezza delle
tradizioni del nostro calcio, dopo il disastro che aveva portato nel 1958 alla
eliminazione dal mondiale svedese da parte dell’Irlanda del Nord (a tutt’oggi
unico caso di mancata partecipazione dell’Italia ad una fase finale mondiale).
Il 1960 fu anche l’anno in cui
cominciavano a sentirsi i primi effetti della distensione tra i due Blocchi.
All’Est, Krushev aveva spazzato via lo stalinismo, a Roma Giovanni XXIII aveva
fatto lo stesso con l’eredità dell’ultimo Papa Re Pio XII, era l’anno
elettorale negli U.S.A. e tutti davano per favorito alla vittoria finale il
candidato democratico John Fitzgerald Kennedy, l’apostolo della Nuova
Frontiera, di una nuova generazione, di un mondo nuovo. Di quel mondo, il
calcio sembrava poter diventare il verbo, uno strumento di pace dopo tanti
decenni di guerra, calda o fredda.
Tra le 17 squadre che si iscrissero
alla prima edizione della Coppa Delaunay, le formazioni dell’Est europeo erano
ben otto. Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Germania Est, Romania,
Bulgaria, Polonia e Ungheria. Per parte occidentale, il campo delle
partecipanti era come detto fortemente menomato. A parte la Spagna, che viveva
una situazione ed una condizione internazionale particolari, era o sembrava
essere proprio il paese che governava l’UEFA da sempre – la Francia – il più
accreditato a cogliere la vittoria finale, la prima a livello internazionale.
Fino a quel momento, il calcio
del patto di Varsavia aveva raccolto pochi allori. Unica eccezione, la Grande
Ungheria che aveva mancato il titolo mondiale di un soffio in Svizzera nel
1954, per poi dissolversi due anni dopo all’epoca in cui a Budapest entrarono i
carri armati sovietici,e Puskas e compagni chiesero asilo politico alla Spagna,
in cui si trovavano per l’appunto in tournée. Il calcio danubiano ormai si
avviava a diventare un ricordo del passato, ingiallito e sbiadito. Nessuno si
aspettava quindi che i primi tre posti del podio potessero finire ad
altrettante squadre dell’Est.
Il regolamento prevedeva turni
eliminatori da giocare con andata e ritorno nei paesi partecipanti. Dopo uno
spareggio vinto dalla Cecoslovacchia sull’Eire, negli ottavi i cechi travolsero
i danesi per complessivi 7 gol a 3, i francesi fecero altrettanto per 8 a 2 con i greci, gli spagnoli
7 a 2 con
i polacchi, gli austriaci 6 a
2 con i norvegesi, i portoghesi 5
a 2 con i tedeschi dell’Est. L’URSS eliminò per 4 a 1 una nazionale ungherese
che non era più quella dei tempi d’oro, mentre la Jugoslavia (3-1) e la Romania
(3-2) vinsero con più fatica gli scontri rispettivamente con Bulgaria e
Turchia.
Da sinistra: Slava Metreveli, Lev Jascin, Igor Netto |
Nei quarti, la Coppa Delaunay
visse la sua prima grana internazionale. Il sorteggio mise di fronte due delle
squadre migliori, purtroppo rappresentative di due paesi che si ignoravano
diplomaticamente da più di 20 anni. La Spagna del Generalissimo Francisco
Franco non aveva e non voleva avere rapporti diplomatici con l’U.R.S.S., fin
dai tempi della Guerra Civile. Né voleva avere rapporti di altro tipo, compresi
quelli sportivi. Le Furie Rosse rifiutarono la trasferta a Mosca e presero uno
0-3 a
tavolino, doppiato dalla mancata partecipazione al match di ritorno a Madrid.
I russi furono raggiunti in
semifinale dai francesi, che nei due match tra Parigi e Vienna ne rifilarono 9
agli austriaci subendone 4. La Jugoslavia regolò 6-3 un Portogallo che non era
ancora quello di Eusebio, la Cecoslovacchia estromise la Romania per 5-0.
A termini di regolamento,
all’altezza delle semifinali l’UEFA designava tra le quattro superstiti il
paese organizzatore della fase finale. La scelta cadde sulla Francia,
ufficialmente in quanto nazione che dava le maggiori garanzie in termini di
organizzazione. In sostanza, i galletti speravano di cogliere il loro primo
alloro internazionale con la squadra che era stata semifinalista in Svezia due
anni prima. Le due partite vinte largamente in casa nel vecchio stadio di
Colombes con Grecia ed Austria alimentavano l’ottimismo francese, anche se le
pesanti assenze di Fontaine, Kopa ed altri titolari pesavano come macigni. Gli
Jugoslavi invece erano una squadra giovane, al completo e per di più in grande
forma (come avrebbero dimostrato vincendo nel settembre successivo il torneo
olimpico a Roma). Al Parco dei Principi, il nuovo stadio al Bois de Boulogne in
cui si giocò la semifinale, il sogno francese sembrò in un primo tempo
decollare, a metà ripresa i bleus conducevano per 4-2. Poi, complice una difesa
transalpina non impeccabile, toccò ai plavi scatenarsi. Finì 5-4 per la
nazionale balcanica.
Nello stesso momento, a
Marsiglia, l’URSS regolava 3-0 la pur forte nazionale cecoslovacca, che di lì a
due anni avrebbe fatto vedere i sorci verdi in finale mondiale a Santiago del
Cile al Brasile di Amarildo & C. A Parigi il 10 luglio scesero dunque in
campo per la finalissima Unione Sovietica e Jugoslavia, dopo che la sera prima
i cechi avevano tolto anche la medaglia di bronzo ai delusissimi padroni di
casa.
URSS - Jugoslavia era anch’esso
un match carico di significati extracalcistici. La prima volta dell’Est era
un’impresa a cui ambivano entrambe le squadre come gratificazione di un
orgoglio nazionale che dalla seconda Guerra Mondiale in poi era cresciuto a
dismisura. I due paesi, apparentemente accomunati dalla filosofia comunista a
cui le proprie istituzioni erano improntate, erano separati dagli interessi
nazionali. Dal 1948, il maresciallo Tito aveva rotto con il Patto di Varsavia e
la guida sovietica, ed era diventato il leader principale dei “non allineati”.
La finale fu la sublimazione di
un nuovo calcio, basato sulla prestanza fisica, la corsa, la tattica ed una
dose fino a quel momento insospettabile di talento. I giovani jugoslavi riuscirono
a passare in vantaggio alla fine del primo tempo con Galic, che riuscì a bucare
colui che stava diventando un mito del calcio mondiale, il portiere Lev Jascin,
il Ragno Nero, l’unico portiere della storia a vincere poi il Pallone d’Oro
(nel 1963, con la Dinamo Mosca).
Ma il calcio danubiano riveduto e
corretto degli jugoslavi lentamente fu eroso da quello meno brillante forse ma
altrettanto solido dei sovietici, che pareggiarono ad inizio ripresa con il
forte attaccante Metreveli e chiusero i conti ai supplementari con Ponedel’nik.
L’ultimo atto della presidenza UEFA di Pierre Delaunay, figlio di quell’Henri
che aveva inventato il trofeo, fu quindi quello di consegnarlo per la prima
volta non al proprio paese come aveva sognato, lì davanti alla platea del Parco
dei Principi, ma alla rappresentativa su cui non avrebbe scommesso
probabilmente nessuno. Gli uomini del mister Gavril Kachalin erano riusciti là
dove quelli di Stalin avevano fallito.
Anche nel calcio, come nella
politica internazionale, l’ostracismo verso l’Unione Sovietica seguito alla
Rivoluzione d’Ottobre e durato fino alla Guerra Fredda sembrava finito per
sempre, mentre Igor Netto, il capitano della squadra con la scritta CCCP sulla
maglia sollevava la coppa di Chobillon nella notte di Parigi.
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