Football comes home.
Nella primavera del 1996 Londra era completamente tappezzata di
manifestini che anticipavano l’imminente disputa della decima edizione
della Coppa Europa per Nazioni, e nello stesso tempo rivendicavano il
diritto di primogenitura britannico per quello che era stato definito il
gioco del secolo.
Trent’anni dopo il mondiale vinto da Hurst e compagni, l’Inghilterra
aveva ottenuto nuovamente l’organizzazione di una competizione
internazionale. Come trent’anni prima, all’appuntamento casalingo il
vecchio leone inglese (non a caso individuato come mascotte
della manifestazione) si presentava con il carico di speranze di
vittoria finale legittimato dal poter mettere in campo una squadra
nuovamente forte, e alimentato da una lunga attesa. La patria del calcio
aveva vinto una sola volta il mondiale, e mai l’europeo. Agli ordini
del capitano di lungo corso Terry Venables, si erano arruolati campioni come Gascoigne, Shearer, Platt, Ferdinand, Southgate, Pearce, Neville, il portiere Seaman e tanti altri protagonisti del calcio internazionale. La speranza di issare nuovamente la Union Jack sul pennone più alto del podio era più che giustificata.
In
realtà, il calcio com’è noto vantava origini ben più antiche. La prima
notizia storica di una partita di calcio disputata sul continente
europeo risale al 1530. Nella città di Firenze assediata dalle truppe
dell’imperatore Carlo V di Spagna, che intendeva reinsediare con le buone o con le cattive la dinastia Medici
in quello che ormai considerava come un suo ducato ribelle, i
fiorentini non trovarono di meglio che sbattergli in faccia
sprezzantemente una bella partita di calcio giocata con tutti i
sentimenti in Piazza Santa Croce. E’ lecito pensare che si trattasse di
un gioco diventato popolare da tempo, almeno dal secolo precedente. La
Repubblica alla fine cadde, i Medici tornarono come Granduchi imperiali,
ma il calcio rimase e circa tre secoli dopo nei colleges di Sua Maestà britannica fu codificato più o meno come lo conosciamo adesso.
Legittimo
quindi l’orgoglio inglese, anche se non supportato da adeguati
risultati, almeno nel ventesimo secolo. Questa sembrava la volta buona, e
Sua Maestà la regina Elisabetta si preparava
mentalmente a scendere di nuovo sul prato verde per premiare una nuova
generazione di eroi blasonati con lo stemma di Riccardo Cuor di Leone.
Anche
il resto del continente europeo, riassestatosi alla meglio dagli
sconvolgimenti occorsi a ridosso dell’edizione di quattro anni prima
conclusasi con la vittoria dei razziatori danesi, si preparava a dare battaglia agli uomini di Sua Maestà. E ne aveva altrettanto ben d’onde. La Germania riunificata aveva posto alle direttive di una vecchia gloria come Bertie Vogts
il meglio che il calcio dell’Est e dell’Ovest aveva prodotto, mixando
il tutto in un’amalgama che prometteva di mantenere il calcio tedesco
all’altezza delle sue tradizioni. I bianchi non deludevano mai, da
trent’anni a quella parte arrivavano sempre in fondo alle
manifestazioni internazionali.
Anche l’Italia di Arrigo Sacchi
non celava l’intenzione di confermare in sede continentale il brillante
– anche se soffertissimo – secondo posto ottenuto al mondiale
statunitense di due anni prima. Anche se a ben guardare il morale della
truppa italiana era potenzialmente minato dalla consapevolezza che il
condottiero non godeva più la fiducia della Federcalcio, dalle polemiche interne tra blocco Milan e resto del campionato, dalla querelle Baggio-SI, Baggio-NO. L’astro di Alessandro Del Piero, grazie anche alla potente sponsorizzazione di un interessato Avvocato Gianni Agnelli, stava offuscando quello del Codino, che alla fine non ricevette la convocazione a England 96. Si disse che Sacchi gli aveva presentato il conto della ruggine insorta tra loro ai tempi del mondiale americano, allorché Baggino sostituito dall’Arrigo lo aveva platealmente mandato a quel paese con appena un po’ più di garbo rispetto a quanto fatto da Chinaglia con Valcareggi 20 anni prima. Se così fosse andata, Arrigo Sacchi aveva presentato in realtà il conto a se stesso.
1996 l'ultima Italia di Arrigo Sacchi |
La Francia poteva mettere in campo la sua nouvelle vague, che annoverava campioni emergenti come Zinedine Zidane, Youri Djorkaeff, Didier Deschamps, Lilian Thuram. Anche la Spagna
non scherzava, avendo posto le basi per una nuova generazione che a
gioco lungo si sarebbe impossessata del calcio europeo e mondiale. Luis Enrique e compagni, essendo stati eliminati dall’Italia nel 1994 per merito di Roberto Baggio e anche di qualche maniera forte, cercavano non vendetta ma rivincita. Russia, Repubblica Ceca e Croazia oltre che soggetti politici del tutto nuovi erano altrettanti punti interrogativi quanto al proprio valore calcistico.
Quella
che si sarebbe disputata dall’8 al 30 giugno 1996 prometteva insomma di
essere una edizione di lusso. Per tener dietro ai tempi e consacrare lo
sport più popolare del mondo come show business puro, l’UEFA
aveva introdotto modifiche regolamentari importanti. Le partecipanti
alla fase finale diventavano sedici, organizzate in quattro gironi da
quattro. Alle vittorie si assegnavano non più due punti ma tre, come
avveniva ormai in tutte le competizioni nazionali ed internazionali. Le
qualificazioni avevano premiato le prime degli otto gironi, le sei
migliori seconde, la vincente dello spareggio fra le peggiori, cioè Olanda ed Eire (2-0 per gli orange), e l’Inghilterra come paese organizzatore. Introdotta per la prima volta la regola del golden gol, ma solo per la finale.
Le
innovazioni salvarono la pelle non solo all’Italia (che aveva trovato
subito nella Croazia un osso durissimo, perdendoci in casa per 2-1 e
pareggiando a Spalato per 1-1), ma anche la Francia (seconda dietro la Romania), la Danimarca campione in carica (superata dalla Spagna), l’Olanda (dietro la Rep. Ceca), l’Eire (dietro al Portogallo) e la Scozia (dietro la Russia), mentre Germania e Svizzera rispettavano il pronostico sopravanzando Bulgaria e Turchia.
Il rigore sbagliato da Zola contro la Germania |
L’Italia tornava dunque agli Europei dopo il flop
del 1992, senza tuttavia aver chiarito il suo reale valore. La
spedizione azzurra partì comunque tra mille polemiche, sembrava di
essere tornati indietro di trent’anni, ad un’altra spedizione inglese
naufragata in quel di Middlesborough sotto i colpi di un dentista
nordcoreano. Il girone che l’attendeva a Liverpool e Manchester non era
uno scherzo: Russia, Rep. Ceca e Germania. Gli azzurri cominciarono alla
grande contro gli eredi dell’Unione Sovietica, vincendo 2-1 con
doppietta del bomber juventino Casiraghi. Poi, mentre la Germania regolava per 2-0 i cechi e all’Italia si presentava quindi il match ball per chiudere subito il girone, Sacchi ne combinò una delle sue: squadra rivoluzionata dal turnover anticipato per evitare affaticamenti. Risultato, Rep. Ceca 2 – Italia 1, inutile il gol di Enrico Chiesa. La Germania ne dette tre alla Russia. Nell’ultima partita all’Old Trafford di Manchester l’Italia – tanto per cambiare – si giocava la sopravvivenza.
Fu
una partita a senso unico, come quella che ci era costata i mondiali di
Argentina nel 1978. Si giocò praticamente ad una porta sola, quella
tedesca. Gli azzurri erano largamente superiori, ma attanagliati da una
tensione che era la risultante di tutte le polemiche sofferte nel
periodo precedente il torneo. Gianfranco Zola, il terzo
a godere fino a quel momento tra i due litiganti Baggio e Del Piero,
sbagliò il rigore decisivo. L’Italia uscì di nuovo al primo turno in
terra inglese. Arrigo Sacchi seguì il destino del suo conterraneo Edmondo Fabbri.
Per come sarebbero andate a finire le cose, col senno di poi, si può
dire che gli azzurri erano probabilmente la squadra migliore e persero
un’occasione clamorosa.
Negli
altri gironi, Inghilterra e Olanda, Francia e Spagna, Portogallo e
Croazia andarono a disputare i quarti di finale. Dove la Francia eliminò
un’Olanda in evidente fase di stanca solo ai calci di rigore, la Rep.
Ceca superò di misura il Portogallo, la Germania fece altrettanto con la
Croazia e l’Inghilterra sempre ai rigori eliminò la Spagna.
Lionheart, la mascotte dell'europeo inglese |
In semifinale, da un lato alla Francia emergente fu dato il compito di testare la neonata Repubblica Ceca. Dall’altro la nemesi calcistica ripropose la storica finale del 1966 tra Inghilterra e Germania, quella decisa dal gol fantasma
di Hurst. E ancora una volta i calci di rigore la fecero da padrone, in
entrambe le partite. I cechi si dimostrarono all’altezza dei loro avi
vittoriosi nel 1976, costringendo i bleus di Francia all’errore
fatale. Nell’altra partita, l’Inghilterra aveva avuto una supremazia
territoriale costellata di diverse occasioni da gol, ma la Germania si
era dimostrata una formazione essenzialmente solida, e aveva resistito.
Ai rigori, tra le due c’era un altro precedente, che risaliva a Italia 90.
Allora avevano pianto i bianchi d’Inghilterra. Stavolta gli inglesi
avevano il conforto di essere già sopravvissuti alla lotteria nei quarti
con gli spagnoli. Andarono sul dischetto più self confident. Ma ci andarono anche i tedeschi. Dopo una prima serie di cinque, al primo rigore ad oltranza nel gelo dell’Imperial Stadium di Wembley toccò a Southgate sbagliare. Andy Moeller
invece trasformò, in un silenzio di tomba, e corse alla bandierina.
Germania in finale, Inghilterra che rincorreva a quel punto l’Italia
nella speciale classifica dei negati ai calci di rigore.
Jurgen Klinsmann alza la coppa sotto gli occhi della regina Elisabetta |
Ad
una compassata ma comprensibilmente delusa regina Elisabetta toccò
dunque scendere sul prato di Wembley il 30 giugno a salutare una squadra
in maglia bianca che non era la sua, con Jurgen Klinsmann che visibilmente emozionato le faceva da interprete. Per i cechi guidati dall’astro emergente Pavel Nedved, si trattava di un ritorno in finale, pur con ragione sociale diversa, dopo ben vent’anni.
Come vent’anni prima, i cechi sembrarono farcela, andando in vantaggio con un rigore di Berger al 58’. Ma gli dei stavolta banchettavano sulle rive del Reno. La Germania aveva un Oliver Bierhof in stato di grazia. Il bomber dell’Udinese pareggiò al ’73 ed al ‘5 supplementare inflisse agli avversari la morte improvvisa.
Di tutte le rivali, quella che alzò la Coppa Delaunay
festeggiando sul prato di Wembley era quella che meno di tutte gli
inglesi avrebbero voluto vedere. Il calcio era sì tornato a casa, ma se
ne era subito riandato, e verso una direzione decisamente sgradita.
Peggio dell’Inghilterra stava solo l’Italia. Quella Germania che adesso
vantava nel palmares ben tre titoli europei (uno finalmente senza la
specifica Ovest), gli azzurri l’avevano stradominata. E tuttavia, la casa del calcio si stava spostando altrove.
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