Nel 2004 toccava
alla fiamma olimpica tornare a casa. Atene l’aveva spuntata per tornare a
organizzare i Giochi per la prima volta dopo l’edizione inaugurale del 1896.
Aveva perso l’occasione del centenario non potendo competere con i meno
suggestivi ma più influenti bigliettoni verdi della Coca Cola, che aveva
dirottato la fiamma verso Atlanta. Nel 2004 il board del C.I.O. non
era sottoposto a particolari pressioni da nessuna multinazionale, e fu libero
di riparare al torto subito dagli eredi di Olimpia e di De Coubertin.
Era un anno in
cui tutto era possibile, quel 2004. Anche che gli Europei di calcio
toccassero ad un paese ai margini dell’Europa, dalla grande storia ma del tutto
sconosciuta al resto del continente. Dalle grandi tradizioni calcistiche, che
però non erano mai culminate in una vittoria di prestigio, almeno a livello di
Nazionale.
L’antica
provincia romana della Lusitania aveva dovuto lottare
duramente per diventare l’odierno Portogallo, affrancandosi
prima dalla dominazione dei Mori e poi dall’influenza ingombrante
della vicina Hiberia, che nel frattempo stava diventando
l’odierna Spagna. Il piccolo Portogallo era diventata una
potenza coloniale di prim’ordine, al pari dell’altrettanto piccola Olanda.
Aveva scoperto la rotta per le Americhe prima di Colombo, fermandosi però al
Mar dei Sargassi. Aveva poi conteso alla Spagna ogni lembo di terra scoperto
dai rispettivi navigatori e conquistadores a giro per l’orbe
terracqueo.
Il Portogallo
aveva poi affrontato una decadenza parallela a quella spagnola che l’aveva
posto al di fuori della storia d’Europa allo stesso modo della Spagna e per un
tempo ancora più lungo. La dittatura di Salazar aveva
rivaleggiato con quella di Franco, superandola per durata (50
anni) ed eguagliandola per brutalità, soprattutto in fase di dismissione
coloniale.
In quel
difficile momento storico, terminato con la Rivoluzione dei Garofani
che il 25 aprile 1974 aveva restaurato nel paese la democrazia, il calcio era
stato un mezzo di riscatto e di recupero di prestigio internazionale, nonché
fonte di gioia per un popolo che altrimenti ne aveva ben poca. Il Benfica
aveva rivaleggiato con il Real Madrid e gli altri grandi club
europei per la conquista della Coppa dei Campioni.
La nazionale
lusitana aveva sfiorato l’impresa ai mondiali inglesi del 1966, arrendendosi
soltanto ai padroni di casa destinati alla vittoria finale. La stella di Eusebio
aveva oscurato quella di chiunque altro in quella circostanza. La pantera
nera, soprannome datogli come contraltare alla perla nera, quel Pelé
che era stato il grande assente al torneo del ‘66, aveva compiuto il percorso
dai sobborghi di Maputo, capitale della allora colonia portoghese del
Mozambico, alle giovanili del Benfica, il club principale di Lisbona. Aveva
vinto tutto, dal Pallone d’Oro alla Scarpa d’Oro,
contribuendo a rendere il palmares del suo club prestigioso più di chiunque
altro prima e dopo.
La carriera di
Eusebio si era chiusa senza l’acuto in Nazionale. Il testimone era stato
affidato a qualche generazione successiva. Per una di quelle combinazioni che
la storia – non solo del calcio – a volte si diverte ad offrire, quando per il
football europeo era venuta l’ora di giocare a ritmo di fado,
per il futebol portoghese era arrivata alla ribalta una nuova
generazione di fenomeni.
Estadio da Luz di Lisbona |
Nel 1991 il
Portogallo aveva organizzato e vinto il Mondiale Under 20. Nella formazione che
aveva alzato quella coppa, giocavano alcuni giovanotti di belle speranze dai
nomi seguenti: Luis Figo, Manuel Rui Costa, Nuno
Gomes, Fernando Couto, Helder Postiga,
Maniche. Gente che nel decennio successivo avrebbe fatto la
fortuna dei propri club e la gloria del proprio movimento calcistico. Più di
dieci anni dopo era con questo squadrone che il Portogallo si presentava al via
della manifestazione lungamente attesa e finalmente ottenuta da disputare in
casa propria. Ma non era tutto, in quella formazione ormai di veterani si era
accesa la stella destinata a brillare più di tutte, a dare ombra un giorno
addirittura al più grande, il mitico Eusebio. Un ragazzino con una strana
pettinatura e dal nome ancora più strano: Cristiano Ronaldo.
Insomma sembrava
la volta buona per fare di Lisbona la capitale europea del calcio. E anche per
riprendersi dalla pessima esperienza vissuta dal football a Corea-Giappone, il
mondiale esotico e cogestito che nel 2002 aveva laureato il Brasile
pentacampeon, Luis Nazario de Lima detto Ronaldo
il miglior giocatore del pianeta e la FIFA come il peggior
baraccone che mai avesse gestito manifestazioni sportive internazionali.
Testimonial principale
di questo pessimo spot per il calcio era stata proprio l’Italia. La nazionale
azzurra portata da Giovanni Trapattoni in oriente era sulla
carta una delle più forti di sempre, con Totti e Vieri
straripanti e un livello tecnico medio forse addirittura più alto di quella che
quattro anni dopo avrebbe vinto a Berlino. Ma come in Cile e in Inghilterra con
la Corea del Nord, aveva sbattuto contro ostacoli che le avevano reso
impossibile far valere la propria supremazia tecnica. Byron Moreno
aveva eclissato l’arbitro inglese Ken Aston e la Corea del Sud
quella del Nord nella galleria degli orrori della Federcalcio.
Dopo di noi, era stata la Spagna a spaccarsi la testa con i coreani, allo
stesso modo. Un mondiale complessivamente da dimenticare, prima possibile.
Le
qualificazioni a Euro2004 si erano svolte secondo un nuovo
sistema, resosi necessario per il proliferare di squadre iscritte grazie alla
metastasi sovietica ed jugoslavia: dieci gironi da cinque squadre, le prime
qualificate, le seconde a fare gli spareggi. L’Italia aveva prevalso facilmente
su Galles e Serbia. Negli altri gironi, Francia,
Danimarca, Rep. Ceca, Svezia,
Germania, Grecia, Inghilterra,
Bulgaria e Svizzera. Dagli spareggi si erano
salvate Olanda, Croazia, Russia,
Lettonia e Spagna. Lo spettacolo poteva
cominciare. Solita formula, quattro gironi da quattro, due qualificate ai
quarti.
I pronostici
saltarono subito. La gara inaugurale vedeva di fronte il Portogallo e la
matricola Grecia, alla sua seconda partecipazione dopo Italia 80.
Arrivata agli Europei in sordina, fece saltare subito il banco sconfiggendo i
padroni di casa per 2-1. I lusitani passarono lo stesso, battendo poi la Russia
e vincendo il derby peninsulare con la Spagna. I greci prevalsero
sugli spagnoli come secondi, per differenza reti.
Negli altri
gironi, tutto facile per Francia e Inghilterra e per la Rep. Ceca, mentre una
modesta Olanda sopravanzò un ancor più modesta Germania. Ma fu il girone
dell’Italia a riservare la sorpresa di uno psicodramma che nessuno poteva prevedere.
Nella prima giornata, quell’Italia doveva fare un sol boccone di quella
Danimarca. Ma il mister Morten Olsen, consapevole di doversi
inventare qualcosa, pensò bene di piazzare su Francesco Totti
il mastino Christian Poulsen. Che lo fece morbido, senza che
l’arbitro spagnolo Mejuto Gonzales battesse ciglio. Lo batté
poi quando il fuoriclasse romano reagì scompostamente all’ennesimo fallo,
sputando – a causa di una incontrollata esasperazione - su Poulsen. Rosso
diretto.
Inaridita prima
ed eliminata poi la fonte del gioco azzurro, la Danimarca portò in fondo uno
0-0 che complicava la vita agli azzurri, costretti a vincere la gara successiva
contro un’ostica Svezia che nel frattempo aveva travolto 5-0 la Bulgaria. In
vantaggio con Cassano, l’altro talento romanista che aveva
sostituito lo squalificato Totti, gli azzurri furono ripresi da una carambola
incredibile di Ibrahimovic. 1-1 e verdetto rimandato alla
terza partita.
Alle due
formazioni scandinave bastava il pareggio con due reti per parte per passare
insieme ed eliminare l’Italia. I giornali italiani si divisero in due correnti:
quelli che le squadre del nord queste cose non le fanno e quelli che vedrai
se non le fanno, eccome. Le fecero, addomesticando un 2-2 che per
l’alternanza di situazioni ebbe anche la pretesa di essere spettacolare. Nel
vocabolario del calcio trovò consacrazione un neologismo, la parola biscotto.
Italia fuori, tra i lazzi scandinavi e di mezzo mondo. Cassano, che si era
caricato la nazionale sulle spalle e aveva battuto la Bulgaria praticamente da
solo al ’90, in lacrime amare per aver visto tutto vanificato
dall’antisportività altrui, dalla sfortuna e dall’ingenuità dei suoi compagni.
Il torneo
proseguì ai quarti senza una delle favorite. Svezia e Danimarca mostrarono il
loro reale (scarso) valore cedendo rispettivamente a Olanda e Rep. Ceca. La
Francia campione in carica allungò l’elenco delle sorprese facendosi eliminare
da una Grecia che sorpresa a quel punto non lo era più. Il Portogallo vendicò
la semifinale del 1966 eliminando l’Inghilterra che proprio aveva i calci di
rigore sullo stomaco. In semifinale, ancora un’impresa della Grecia, 1-0 alla
Rep. Ceca e prima finale della sua storia. Facile vittoria portoghese
sull’Olanda, che non era più quella di quattro anni prima.
Il gol decisivo di Charisteas |
All’Estadio
da Luz di Lisbona, il 4 luglio 2004 scese in campo un
Portogallo che oltre ad essere il padrone di casa era anche strafavorito dal
proprio tasso tecnico e dal favore di ogni pronostico. Era il momento di
scrivere la storia per Figo, Ronaldo, Rui Costa. In tribuna Eusebio attendeva
il suo successore ed il primo trionfo del suo paese. Era destinato a chiudere
gli occhi, dieci anni dopo, senza aver avuto quella soddisfazione.
Dall’altra parte
era scesa in campo non una squadra ma una nazione intera. A cui nessuno aveva
dedicato uno straccio di pronostico favorevole. Che già si dibatteva nelle
prime avvisaglie di una recessione economica che un giorno sarebbe diventata
una crisi spaventosa. Come la Danimarca del 1992, la squadra che nessuno
avrebbe aspettato sul podio e nessuno tantomeno avrebbe voluto premiare. Ma la
squadra che a quel punto meno di chiunque altra avrebbe voluto mollare.
Quando al ’57 il
centravanti greco Charisteas la buttò alle spalle del portiere
lusitano Ricardo, a Lisbona dal fado si passò alle
streghe. Non era possibile, i greci avevano già vinto il match di apertura, che
era sembrato un evento irripetibile. Si stava ripetendo. Il coach tedesco Otto
Rehagel aveva trasformato un pugno di calciatori greci senza nome in
una squadra di Argonauti che aveva agguantato il Vello
d’Oro dell’UEFA e lo stava riportando a casa, con un nostos degno del
poema epico di Omero.
Era davvero un
anno in cui tutto era possibile, quel 2004.
La gioia degli Argonauti |
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