Se n’è andato all’età di
novantadue anni. Non possiamo dire “l’ultimo dei giganti del teatro fiorentino
ed italiano”, perché il maestro Franco Zeffirelli è ancora vivo e vegeto. Ma
Firenze e l’Italia piangono oggi una perdita che va ben oltre la vicenda umana
terrena di Giorgio Albertazzi.
Con l’estremo saluto a quest’uomo
che si è spento ieri a Roccastrada, nella Villa Tolomei di proprietà dell’ultima
compagna della sua vita, si chiudono varie epoche della nostra storia.
Albertazzi ha attraversato il ventesimo secolo con tutte le sue luci e le sue
ombre. Le stesse luci ed ombre che hanno dovuto attraversare tutti coloro che
hanno voluto seguirne ed apprezzarne l’opera.
Giorgio Albertazzi, in un paese
in cui l’egemonia della cultura è dal dopoguerra appannaggio di una certa
sinistra, non si era mai liberato dell’etichetta di “fascista” incollatagli
addosso in gioventù a causa delle sue scelte. Nel 1943, in piena guerra civile
successiva all’8 settembre, aveva scelto di aderire alla Repubblica Sociale
Italiana. Come molti giovani di allora, si era trovato a vivere in un’epoca che
non ammetteva di chiamarsi fuori da una scelta drammatica. Lui aveva scelto la
parte che la storia aveva dichiarato poi essere sbagliata.
I suoi motivi ideali – aveva poi
raccontato dopo essere stato amnistiato dal Ministro della Giustizia Togliatti
nel 1947 (era stato accusato di aver fatto fucilare dei partigiani, ma lui si
era sempre dichiarato innocente da quella accusa) – erano quelli di un fascismo
eroico, delle origini. Ettore Muti, Italo Balbo, la Folgore ad El Alamein. Fosse
nato vent’anni prima, sarebbe stato un giovane futurista. Una specie di
fascista di sinistra, come lo erano stati tanti altri, che non a caso dopo la
Liberazione erano confluiti nelle forze politiche che si richiamavano al
socialismo, all’anticlericalismo, al repubblicanesimo quando non addirittura
all’anarchismo.
Giorgio Albertazzi nella maturità
si era scoperto anarchico prima e radicale poi, tanto da avvicinarsi all’altro
grande scomparso di questi giorni, Marco Pannella, e da sposarne le più famose
ed importanti battaglie di civiltà. Ma per l’intellighenzia dominante, “fascista”
era stato e “fascista” rimaneva. E con lui chiunque avesse inteso poterne
ammirare l’arte di recitazione in santa pace, e invece si ritrovava magari a
dover affrontare durissime contestazioni di strada. Chi scrive, ricorda
perfettamente una sera in cui da ragazzo – si era nel pieno dei roventi anni
settanta – per entrare al teatro Niccolini a vederlo recitare per poco non
rischiò le botte.
Ma Giorgio Albertazzi valeva la
pena. Con le sue maschere variopinte che ne hanno fatto uno degli autori
shakespeariani per eccellenza. Era solito dire che Shakespeare, il suo autore
preferito, era il genio del teatro che sapeva saltare dalla commedia alla
tragedia alla farsa a qualsiasi altro genere con estrema facilità e versatilità.
In quel Globe ideale che contiene ed ospita tutti coloro che si sono cimentati
con le rappresentazioni sceniche dei capolavori del grande drammaturgo inglese,
Albertazzi occupava un posto d'onore.
Nel 1964, in occasione del
400º anniversario della nascita di Shakespeare, aveva debuttato al teatro Old Vic di
Londra con Amleto,
diretto da Franco Zeffirelli e con protagoniste
femminili la sua compagna Anna
Proclemer e Anna Maria Guarnieri. Lo spettacolo era
rimasto in cartellone per due mesi, e lo stesso attore era stato premiato con
una foto nella galleria dei grandi interpreti shakespeariani del Royal National Theatre, unico attore non
di lingua inglese. Mentre qui in Italia si discuteva se Albertazzi era stato un
feroce fascista o meno, all’estero già gli tributavano onori degni di un Lawrence
Olivier.
Dr, Jekyll e Mr. Hyde |
Albertazzi aveva tenuto a
battesimo anche la televisione, che nei suoi primi anni di vita dava grande
importanza nei palinsesti alle riduzioni ed alle sceneggiature di grandi opere
letterarie. Nel 1969 era stato un magistrale dottor Jekyll nella trasposizione
televisiva del celebre romanzo di Robert Louis Stevenson, lo strano caso del
dottor Jekyll e mr. Hyde. Chi meglio di lui, maschera teatrale per eccellenza,
poteva incarnare l’uomo bipolare che si sdoppia per effetto della droga
trasformandosi da perfetto gentiluomo ed intellettuale vittoriano in energumeno
bestiale criminale che sguazza nei sordidi bassifondi di Londra?
Perde molto Firenze, ora che si
mette in fila per tributare le onoranze funebri a quest’ultimo esponente di un
primato culturale che ormai non esiste più. La città in cui lui non viveva più
da tanto tempo non ha più nulla di quella che poteva vantarsi, dalle Giubbe
Rosse alla Pergola al Comunale a ogni circolo culturale anche di periferia, di
ospitare ed allevare quanto di meglio la razza italiana producesse in ambito
culturale. Ormai è una città che procede per stereotipi, secondo una moda
inaugurata proprio quarant’anni fa, quando per assistere alle rappresentazioni
del maestro Albertazzi si rischiava il linciaggio secondo le parole d’ordine di
una sinistra che allora come ora non era neanche capace di scriverle senza
errori ortografici.
Ciò che frana nel sottosuolo a
due passi dal Ponte Vecchio, frana anche nelle nostre coscienze non più nutrite
da quell’humus in cui una volta germogliava il Genio. Le sia lieve la terra,
maestro. Lei non era credente, ma qualunque cosa sia successa quando era
giovane, lassù l’aspettano per far pace. E godersi in tranquillità la sua
splendida, unica, irripetibile recitazione.
Ad aprirle i cancelli del cielo, troverà
nientemeno che William Shakespeare.
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