Gli inglesi sono
nel loro pieno diritto quando schedano gli studenti stranieri che
frequentano le loro strutture deputate alla pubblica istruzione. Soltanto un
popolo attento alla forma e mai alla sostanza come il nostro può risentirsi, e
mandare il proprio ambasciatore a fare le sue ridicole rimostranze.
La Regina Elisabetta e l'ambasciatore d'Italia Pasquale Terracciano |
Dovrebbe urtare molto di più la nostra
suscettibilità italiana (non meridionale, italiana) il fatto che sempre più
nostri ragazzi siano costretti a studiare nelle scuole straniere, se vogliono
coltivare le speranze di un barlume di futuro decente. La scuola italiana fa
schifo, anche se a parole accoglie tutti secondo i dettami del politically
correct e del solidarismo peloso, ma non soddisfa nessuno. Quella
inglese non sarà il massimo su questo pianeta, ma oltre a farci il favore di
investire su nostri ragazzi che non è detto che restituiscano i proventi di
quell’investimento sul suolo della nazione che lo eroga, si preoccupa di sapere
almeno chi si trova di fronte, ad usufruire delle proprie istituzioni. Quali
sono i bambini che a settembre ogni maestro/a, ogni professore si ritroverà in
classe. E con quale linguaggio e approccio culturale hanno bisogno che si parli
loro. Niente male per un paese che potrebbe limitarsi a crogiolarsi nella
superbia, per aver imposto la sua lingua a tutto il mondo.
Ci riempiamo la bocca di parole senza
senso, di slogan. Così, la pubblica istruzione degli anni Duemila non istruisce
più, ma fornisce una offerta formativa. Usiamo termini presi dal marketing,
che analogamente alla Sanità a giudizio di chi scrive è
qualcosa che non dovrebbe avere nemmeno a che fare con la Pubblica
Istruzione, al pari dell’aziendalismo. E poi ci
inalberiamo se qualcun altro almeno quel marketing lo applica
correttamente. Oppure se, più semplicemente, continua la tradizione del sistema
scolastico britannico, classista quanto si vuole ma da sempre preoccupato di
fornire istruzione reale a tutti, a ciascuno realisticamente secondo
le proprie possibilità ed estrazione sociale.
Dicono le autorità britanniche,
stigmatizzando la suscettibilità italiana (l’unico paese al mondo, a quanto
risulta, ad aver sollevato questa questione di lana caprina, gli altri badano
al sodo e ringraziano le scuole di Sua Maestà per l’offerta formativa che a
casa loro si sognerebbero): guardate che l’estrazione sociale, la
provenienza, contano; non è vero che siamo tutti uguali, non è così che
funziona.
Come in Sanità è importante sapere – come
dimostrano appositi studi – che la manifestazione del dolore è assolutamente
diversa da un italiano a, per esempio, un indiano, perché altrimenti si rischia
di far morire l’indiano abituato a lamentarsi molto meno di noi, così a scuola
è importante sapere da che parte di mondo viene un bambino, perché magari anche
in questo caso l’italiano manifesta bisogno formativo o anche semplicemente
disagio in modo differente dal pakistano o dall’urdu.
Il problema a ben vedere ce l’avremmo
anche noi in casa nostra, che dopo cinquant’anni non abbiamo ancora imparato a
parlare con il dovuto e differente linguaggio all’italiano (adulto o bambino)
del nord, del centro, del sud e delle isole. Figurarsi un paese che fronteggia
questo problema a livello planetario. Perché Londra, con buona pace di chi si
aspettava che dopo la Brexit scomparisse dalla carta
geografica, è la capitale di un impero politico, economico e sociale più adesso
che ai tempi della Regina Vittoria.
Nessuno metterà stelle gialle o rosa ai
cappotti dei bambini italiani o di altre etnie, nelle scuole di Sua Maestà
britannica. Più facile che il Provveditore locale si premunisca di offrire alla
domanda formativa dei bambini presenti nel Regno Unito insegnanti adeguati.
L’italiano all’italiano, il pakistano al pakistano, per esempio.
Non come qui, che ad insegnare ad una classe
a prevalenza Uruk-Hai ci mandano gli Elfi,
per di più appena usciti da Gran Burrone ed appena diplomati
in magia. Quelal che dovrebbe servire a tenere insieme classi che sembrano
Armate Brancaleone.
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