Conosco Domenico Garaffa da
trent’anni. L’avevo perso un po’ di vista negli ultimi ventinove, per la
verità. Ma a conti fatti, al netto del mancato godimento dell’amicizia profonda
che ci lega, devo dire che sotto un certo punto di vista è stato un bene. Quel
bene che qualunque lettore si ritrovi adesso con questo suo libro in mano può
commisurare di persona.
La letteratura scorre potente in quest’uomo, mi viene da dire
prendendo a prestito una delle citazioni più cult dei nostri tempi moderni.
L’avevo lasciato alle prese con una sensibilità e intelligenza non comuni, che
riuscivano ad affascinare invariabilmente chiunque avesse a che fare con lui
per questioni di lavoro o di vita, oppure per il semplice trascorrere del tempo
in amicizia e conversazione.
Lo ritrovo adesso a padroneggiare
l’arte di trasfondere quella sensibilità e quell’intelligenza, nel frattempo
sublimate da una vita pienamente vissuta, nella pagina scritta. Cominciammo
insieme, per hobby. Lui è arrivato a saper sciogliere in versi nientemeno che
la nostra esistenza.
Il volume a cui mi ha chiesto,
onorandomi, di premettere queste mie righe (non una prefazione, ma semmai una
decantazione delle sensazioni e dei sentimenti intensi e coinvolgenti suscitatimi
dalle sue parole in prosa e versi, ciò che auguro ed auspico a chiunque mi
seguirà nella lettura) è la sua seconda fatica. Senonché per lui comporlo non è
stato fatica, ma piuttosto estro che si libera semplicemente, naturalmente come
lo scorrere di un fiume, il galoppo di un cavallo selvaggio.
E’ una vicenda tra lui e la
matita, ciò che “accade quando entrambi
pensierosi duelliamo”, come racconta lui stesso, primo in assoluto a
dedicare un’ode alla sua migliore compagna dei momenti di ispirazione poetica.
E’ una vicenda tutta particolare,
quella raccontata nelle pagine che seguono, che lui stesso tratteggia a
perfezione quando fa dire al suo personaggio più centrale: “sei un selvaggio, ma con stile. Riesci a
mettere in pratica pensieri divergenti con piacevole semplicità ed estrema
raffinatezza”.
Domenico Garaffa è la natura
selvaggia, carica di profondità, gentilezza e riserbo che attendono di essere
sollecitati nel modo adeguato, tipica della sua terra d’origine e della gente
che la abita. Da lì parte, e lì ritorna sempre, avendo percorso le strade del
mondo in cerca di individui e popoli affini.
Nella sua prima raccolta di
poesie, Le lacrime di Apache, aveva
trovato il suo microcosmo congeniale nell’epopea dei Nativi Americani, cantata
con uno struggimento secondo soltanto alla tragicità del reale destino dei pellirosse che ben conosciamo.
Stavolta, poesia e prosa si
mescolano, a seconda dell’estro e della suggestione del momento. A seconda del
passo che richiede la narrazione, o il semplice affiorare di un sentimento, di
una suggestione. Domenico li padroneggia tutti, e come un funambolo del football sceglie d’istinto, leggendo la
partita che sta disputando, se il palleggio insistito o il gioco di prima.
Domenico è il catalizzatore di un
potente flusso letterario e poetico. Ma ciò che entra nel suo cuore e nella sua
mente, esce dalla sua matita uguale solo a se stesso. La sua personalissima
rivisitazione di Billy Wilder e Marylin Monroe in Un soffio di vento alla fermata dell’autobus, brano che dà il titolo
alla raccolta, è in realtà una delicatissima rappresentazione intimista. Pane e panelle ci avvince e ci strugge
come una novella di Camilleri, ma qui c’è di più, e di suo: la nostalgia
incanaglita della giovinezza dell’autore, che riesce a superare la barriera
dialettale e a trasformarsi in quella di ciascuno di noi. Gioiosi saluti di luglio è uno Stephen King in salsa nostrana, uno Stand by me ambientato in quel
Mediterraneo perduto che solo chi c’è nato in riva può rimpiangere appieno.
Gabbiani sembra scritto in un pub irlandese o triestino, gli stessi
dove Domenico avrebbe potuto tenere testa a James Joyce, nelle bevute e nelle
corse a perdifiato dentro l’anima e le visioni, senza il fastidio di convenzioni
letterarie o punteggiatura.
Poi Firenze. La città che tutti
idealizzano e che a tutti si offre sfrontata, a chi c’è nato o a chi si è fatto
adottare. Domenico ci ritorna spesso, e ogni volta è uguale e diverso. Gioie e
drammi prendono il via volentieri dalla città di Lorenzo il Magnifico, o ad
essa riportano. Come alla Sicilia, gioie e drammi sono connaturati a Firenze.
Tutto sta a saperli trasformare in poesia.
E infine la principessa, che apre e chiude la raccolta. Il ritorno all’essenza
più profonda della vita. Al suo principio. Alla sua ragione stessa. Sull’ultima
corsa, sull’ultima carezza della principessa
non può che stringersi il cuore di chiunque abbia mai dedicato versi a ciò che
ha di più caro. Di chiunque lo abbia vissuto veramente.
Buona lettura a tutti.
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