Era un GiorgioAlbertazzi a rovescio, Dario Fo, figlio di un
capostazione della provincia di Varese con l’hobby del teatro popolare, così
come la madre. Scomparso stanotte a Milano, ultimo di una lunga lista che fa di
questo 2016 un annus horribilis per l’arte e la cultura italiana e
mondiale.
Dario Fo, come Albertazzi, dovevi amarlo
o detestarlo soltanto per le sue capacità artistiche, lasciando perdere le idee
e le posizioni politiche passate e presenti. Come Albertazzi, da ragazzo aveva
scelto di rispondere alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò.
Come Albertazzi, non l’aveva mai nascosto, senza vantarsene né pentirsene.
Diversamente da Albertazzi, era poi passato nel campo opposto dopo la Liberazione.
Dall’Esercito Nero al Soccorso Rosso, in cui aveva
militato fino agli Anni di Piombo.
Le passioni del ventesimo secolo stentano
a stemperarsi ancora agli inizi del ventunesimo. Così, nell’ora del cordoglio,
infuria ancora la polemica tra il Rosso e il Nero. Fu Oriana
Fallaci a riesumare i trascorsi repubblichini di Dario Fo nella Rabbia
e l’Orgoglio, nel contesto polemico della sua strenua opposizione alla
sinistra di regime che l’aveva messa al bando una volta scopertala non
malleabile da parte dell’antiamericanismo e antioccidentalismo imperante. Tra
l’altro, Oriana accusò Dario di aver portato nella militanza rossa la stessa
violenza (quantomeno verbale) che aveva sfoggiato in quella nera. Il fascista
rosso aveva rimpiazzato il fascista nero.
In realtà, Oriana rinverdiva polemiche
già scoppiate in modo assai virulento fin dagli anni Settanta, quando l’autore
ed attore varesino era stato costretto a ricorrere addirittura alle vie legali
per tutelare un nome che stava ritornando importante, dopo il suo rientro in
RAI ai tempi di Mistero Buffo intorno al 1975.
Dario Fo era un uomo di teatro. Un guitto,
come si definiva lui stesso. Come gli Albertazzi, i De Filippo,
i Lawrence Olivier, i Kenneth Branagh.
Nessuno ricorda più grazie a Dio come la pensava Shakespeare
sugli eventi del suo tempo, se non per quanto attiene alla poetica che emerge
dalle sue opere immortali. Un giorno, la quiete del giudizio artistico separato
da quello storico personale toccherà anche a Dario Fo.
Nei primi anni cinquanta il giovane Fo
incontrò il teatro popolare a cui lo destinava la tradizione di famiglia,
compiendo peraltro un rapido excursus dalle Case del Popolo alla RAI.
Che tollerò i suoi testi troppo impegnati a sinistra e la sua satira
antigovernativa fino a quella fatidica Canzonissima del 1962
che decretò la fine della sua carriera presso la TV pubblica. Nel frattempo,
Dario aveva incontrato anche la sua anima gemella, la collega Franca
Rame, dalla quale aveva avuto il figlio Jacopo, che
un giorno avrebbe incrementato la tradizione artistica familiare.
Franca Rame e Dario Fo ai tempi di canzonissima del 1962 |
In televisione sarebbe tornato nel 1975.
ma prima, avrebbe legato il suo nome a quel Morte Accidentale di un
Anarchico che indirizzò fortemente l’opinione pubblica, a proposito
della Strage di Piazza Fontana, in senso nettamente contrario
alla figura del commissario Luigi Calabresi, da quel momento
in poi ritenuto il principale responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe
Pinelli. Le conseguenze di quella pubblica condanna, purtroppo, sono
note a tutti.
Dal Soccorso Rosso,
l’organizzazione che forniva sostegno legale ed economico a quei compagni
extraparlamentari che militavano nella galassia borderline con il
terrorismo degli Anni di piombo, Fo tornò in RAI a furor di popolo con il suo Mistero
Buffo. Lo spettacolo che l’ha consacrato come una leggenda del teatro
mondiale, issandolo fino al Premio Nobel di vent’anni dopo.
La narrazione delle Cronache medioevali
in quel buffo misto di dialetti padani chiamati grammelot e
ispirati alla Commedia dell’Arte rinascimentale fu uno degli
eventi culturali che fanno epoca, come le commedie dei fratelli De Filippo o il
Vajont di Marco Paolini. Il teatro, dopo, non
è più lo stesso. Soprattutto il teatro di ispirazione civile.
Dall’Azzeccagarbugli dei
Promessi Sposi di Salvatore Nocita al Johan
Padan a la descoverta delle Americhe, da quel momento in poi Dario Fo
alternò la partecipazione alle grandi produzioni alla continuazione della
tradizione teatrale popolare.
La motivazione del Premio Nobel
per la Letteratura del 1997 fu: perché, seguendo la tradizione dei
giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi.
Quella volta, peraltro, Dario Fo fu più sobrio dei suoi augusti adulatori di
Stoccolma (superati soltanto in seguito dagli Accademici della Sorbona
di Parigi e dalla Sapienza di Roma), limitandosi ad un
lapidario: «Con me hanno voluto premiare la gente di teatro».
Un giorno il pubblico ricorderà la gente,
uomini e donne, di teatro per ciò che hanno rappresentato sul palcoscenico,
dimenticando le loro passioni mondane e le idee, condivise o meno. Così, delle
passioni fasciste, poi di quelle comuniste, poi alla fine –
negli ultimi tempi – grilline di Dario Fo, non resterà nulla, com’è
giusto che sia.
Fino a quel giorno, ti sia lieve la terra
Dario Fo, maestro di grammelot.
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