lunedì 12 dicembre 2016

Quel buco nella Repubblica



La bomba scoppiò alle 16,37, nel bel mezzo dell’emiciclo della sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana. Quarantasette anni dopo, la giustizia italiana non è stata ancora capace di stabilire chi ce la mise. Di tutti gli insuccessi collezionati dall’apparato giudiziario della Repubblica, Prima e seguenti, Piazza Fontana era e rimane quello più importante, più clamoroso. Il buco nero più grosso.
Quarantasette anni. Dopo tre processi ed una serie rocambolesca di condanne, assoluzioni, annullamenti e rifacimenti altrettanto improduttivi, e per finire le sempre provvidenziali prescrizioni, lo Stato Italiano ha mandato assolti tutti. Eppure, il giudice Guido Salvini che riaprì le indagini alla fine degli anni Novanta sembrava avere le idee assai chiare, e le prove per sostenerle: Strage di Stato, responsabile come esecutore il gruppo neofascista Ordine Nuovo, quanto ai mandanti, quelli individuati già a mezza voce fin dall’indomani dell’attentato: i servizi deviati.
Fu un neologismo entrato nell’uso corrente proprio dopo Piazza Fontana. La strage fu l’inizio ufficiale della cosiddetta Strategia della Tensione. Coincidente con quel lungo periodo pluridecennale che è andato sotto il nome di Anni di Piombo, durante il quale i cosiddetti opposti estremismi si contesero a suon di bombe e agguati terroristici la vita politica e civile del nostro paese, orchestrati – sulla base di quanto è stato ricostruito da processi che per quanto mai giunti a sentenze efficaci ed effettive hanno chiarito molte cose a chi voleva leggere tra le righe di quelle sentenze - addirittura da spezzoni dello Stato, delle sue istituzioni che avrebbero dovuto garantirne invece la sicurezza e l’ordine pubblico.
Erano gli anni della recrudescenza della Guerra Fredda tra Est e Ovest, dopo la breve stagione illusoria di Kennedy e Kruscev. Alla fine degli anni Sessanta, il vento della contestazione sessantottina aveva dato nuovo impulso a tutto ciò che di antisistema si opponeva allo status quo uscito fuori dagli Accordi di Yalta, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il Mediterraneo era una zona di confine. Di un confine dove la guerra da fredda spesso e volentieri si trasformava in calda, tra Blocco Sovietico e N.A.T.O., tra Cristianità ed Islam, tra Nord e Sud, Est ed Ovest.
Di quel confine, l’Italia era il punto cruciale, l’anello forse in quel momento apparentemente più debole. Delle tre penisole che si allungavano nel Mediterraneo, la Spagna era sotto il controllo del dittatore Francisco Franco, la Grecia era sotto il regime dei Colonnelli. Restava l’Italia, con la sua fragile democrazia riconquistata faticosamente nel 1945 grazie alla V^ Armata alleata ed ai Partigiani, con il suo Partito Comunista che era il più grande ed il più forte dell’intero mondo occidentale, con la sua conformazione fisica di portaerei e di punto di approdo naturale che non facilitava le cose ad una classe politica che si barcamenava fra osservanza atlantica, tentazioni filoarabe e vecchi balletti d’altri tempi tra cancellerie europee.
Nel 1964 un tentativo di colpo di stato militare - non si è mai saputo quanto serio, ma lo si è sospettato –, il Piano Solo del generale comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo, aveva cercato di precorrere i tempi, tentando a Roma quello che sarebbe riuscito ad Atene tre anni dopo. La storia, che in questo caso ha confini tutt’ora incerti con la leggenda, riporta dell’intervento deciso di Giuseppe Saragat e Aldo Moro, i due leader più autorevoli del governo di allora, a stroncare non solo quelle trame (il tintinnio di sciabole) ma anche e soprattutto la presidenza della Repubblica di Antonio Segni, che era sembrata più che simpatizzare per l’ipotetica svolta a destra del paese.
Cinque anni dopo, la bomba di Piazza Fontana spazzò via l’illusione che la Penisola fosse in realtà un isola, e per di più felice, in un mondo in cui si stava radicalizzando la lotta tra destre e sinistre di ogni ordine, grado e genere. Ordine Nuovo era giustappunto una delle tante sigle terroristiche rosse o nere che stavano nascendo nell’Italia post-sessantottina. Tutte – per quanto schierate su fronti opposti – con un minimo comune denominatore: l’essere infiltrate ed in qualche modo controllate da quella parte delle istituzioni e degli apparati governativi che vedevano di buon occhio il cosiddetto giro di vite. Alla greca, alla spagnola, o come sarebbe successo più tardi, alla cilena.
Trait d’union, i Servizi. Ai quali veniva aggiunto l’aggettivo deviati ogni volta che la loro azione si spingeva in un territorio in cui i veri committenti di quelle azioni, in ambito governativo o sottogovernativo, non erano in grado di seguirli più, sconfessandoli.
La storia che cominciò a Piazza Fontana, e che si concluse apparentemente alla fine degli anni Ottanta con gli ultimi attentati ad personam delle sedicenti Brigate Rosse, fu una storia di sangue e di lacerazioni interne come nessun altro paese ha conosciuto, almeno tra quelli considerati nel cosiddetto novero delle nazioni civili. A ripensarci oggi, pare un miracolo che l’Italia salvasse la forma ed in parte anche la sostanza della democrazia a cui erano ispirate le sue istituzioni politiche e civili in virtù della Costituzione del 1947, che non ha mai conosciuto sospensioni, de jure o de facto.
Sia stato da ascrivere alla saldezza di nervi di coloro che ressero la cosa pubblica in quegli anni, degli stessi cittadini che non arrivarono mai a chiedere – per quanto sconvolti e feriti profondamente fossero da bombe e attentati – sospensioni di diritti e misure normative draconiane, oppure come vorrebbe una certa vox populi al sostanziale benessere raggiunto dalle nostre Forze Armate al pari del resto della società italiana che tolse ad esse ogni velleità di partecipazione a sostanziali disegni eversivi da dentro o fuori lo Stato facendole schierare invece in sua difesa, qualunque cosa sia stata portò l’Italia fuori dagli Anni di Piombo profondamente cambiata, ma in meglio e sostanzialmente illesa. Con istituzioni repubblicane e civili rafforzate e leggi addirittura migliorate, malgrado per le strade non si riparasse a lavare via il sangue copiosamente versato.
Il Commissario Luigi Calabresi, additato dalle sinistre come "assassino" di Giuseppe Pinelli
Resta, a distanza di quarantasette anni, quella scia di sangue per la quale non è quasi mai stata fatta sufficiente giustizia. Quella teoria di nomi che affollò i nostri giornali e telegiornali per un lungo periodo, a cominciare da quello dell’anarchico Giuseppe Pinelli che volò dalla finestra della Questura di Milano dove veniva interrogato a due giorni soltanto di distanza dall’attentato, lasciandosi dietro i veleni di mille supposizioni mai comprovate ed un altro nome da additare a vendette pubbliche e private, quello del Commissario Luigi Calabresi, vittima successiva anch’egli di quegli Anni di Piombo.
Quando le indagini sembrarono imboccare la pista che a tutt’oggi sembra rimanere quella giusta, quella dei neofascisti ordinovisti Franco Freda e Giovanni Ventura, molte cose ormai erano deviate, non soltanto quei Servizi che ormai apparivano chiaramente aver influenzato, se non addirittura orchestrato, tutto quanto. Quando i processi arrivarono in fondo, era già tempo di Cassazione (ammazzasentenze), se non di prescrizione.
Quel buco apertosi quarantasette anni fa nelle nostre coscienze, oltre che nell’emiciclo della sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura a Milano, aspetta ancora di essere chiuso. Assieme a tutti gli altri che si è portato dietro.

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