La bomba scoppiò
alle 16,37, nel bel mezzo dell’emiciclo della sede milanese della Banca
Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana. Quarantasette anni dopo, la giustizia italiana non è stata ancora
capace di stabilire chi ce la mise. Di tutti gli insuccessi collezionati
dall’apparato giudiziario della Repubblica, Prima e seguenti, Piazza
Fontana era e rimane quello più importante, più clamoroso. Il buco nero più
grosso.
Quarantasette anni. Dopo tre processi ed
una serie rocambolesca di condanne, assoluzioni, annullamenti e rifacimenti
altrettanto improduttivi, e per finire le sempre provvidenziali prescrizioni,
lo Stato Italiano ha mandato assolti tutti. Eppure, il giudice Guido
Salvini che riaprì le indagini alla fine degli anni Novanta sembrava
avere le idee assai chiare, e le prove per sostenerle: Strage di Stato,
responsabile come esecutore il gruppo neofascista Ordine Nuovo,
quanto ai mandanti, quelli individuati già a mezza voce fin dall’indomani
dell’attentato: i servizi deviati.
Fu un neologismo entrato nell’uso
corrente proprio dopo Piazza Fontana. La strage fu l’inizio ufficiale della
cosiddetta Strategia della Tensione. Coincidente con quel
lungo periodo pluridecennale che è andato sotto il nome di Anni di
Piombo, durante il quale i cosiddetti opposti estremismi si
contesero a suon di bombe e agguati terroristici la vita politica e civile del
nostro paese, orchestrati – sulla base di quanto è stato ricostruito da
processi che per quanto mai giunti a sentenze efficaci ed effettive hanno
chiarito molte cose a chi voleva leggere tra le righe di quelle sentenze -
addirittura da spezzoni dello Stato, delle sue istituzioni che avrebbero dovuto
garantirne invece la sicurezza e l’ordine pubblico.
Erano gli anni della recrudescenza della Guerra
Fredda tra Est e Ovest, dopo la breve stagione illusoria di Kennedy
e Kruscev. Alla fine degli anni Sessanta, il vento della
contestazione sessantottina aveva dato nuovo impulso a tutto ciò che di antisistema
si opponeva allo status quo uscito fuori dagli Accordi di Yalta,
alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Il Mediterraneo era
una zona di confine. Di un confine dove la guerra da fredda spesso e
volentieri si trasformava in calda, tra Blocco Sovietico
e N.A.T.O., tra Cristianità ed Islam,
tra Nord e Sud, Est ed Ovest.
Di quel confine, l’Italia era il punto
cruciale, l’anello forse in quel momento apparentemente più debole. Delle tre
penisole che si allungavano nel Mediterraneo, la Spagna era sotto il controllo
del dittatore Francisco Franco, la Grecia era sotto il regime
dei Colonnelli. Restava l’Italia, con la sua fragile
democrazia riconquistata faticosamente nel 1945 grazie alla V^ Armata
alleata ed ai Partigiani, con il suo Partito Comunista
che era il più grande ed il più forte dell’intero mondo occidentale, con la sua
conformazione fisica di portaerei e di punto di approdo naturale che non
facilitava le cose ad una classe politica che si barcamenava fra osservanza
atlantica, tentazioni filoarabe e vecchi balletti d’altri tempi tra
cancellerie europee.
Nel 1964 un tentativo di colpo di stato
militare - non si è mai saputo quanto serio, ma lo si è sospettato –, il Piano
Solo del generale comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni
De Lorenzo, aveva cercato di precorrere i tempi, tentando a Roma
quello che sarebbe riuscito ad Atene tre anni dopo. La storia, che in questo
caso ha confini tutt’ora incerti con la leggenda, riporta dell’intervento
deciso di Giuseppe Saragat e Aldo Moro, i due
leader più autorevoli del governo di allora, a stroncare non solo quelle trame
(il tintinnio di sciabole) ma anche e soprattutto la presidenza della
Repubblica di Antonio Segni, che era sembrata più che
simpatizzare per l’ipotetica svolta a destra del paese.
Cinque anni dopo, la bomba di Piazza
Fontana spazzò via l’illusione che la Penisola fosse in realtà un isola, e per
di più felice, in un mondo in cui si stava radicalizzando la lotta tra destre e
sinistre di ogni ordine, grado e genere. Ordine Nuovo era
giustappunto una delle tante sigle terroristiche rosse o nere che stavano
nascendo nell’Italia post-sessantottina. Tutte – per quanto schierate su fronti
opposti – con un minimo comune denominatore: l’essere infiltrate ed in qualche
modo controllate da quella parte delle istituzioni e degli apparati governativi
che vedevano di buon occhio il cosiddetto giro di vite. Alla greca, alla
spagnola, o come sarebbe successo più tardi, alla cilena.
Trait d’union, i Servizi. Ai
quali veniva aggiunto l’aggettivo deviati ogni volta che la loro azione si
spingeva in un territorio in cui i veri committenti di quelle azioni, in ambito
governativo o sottogovernativo, non erano in grado di seguirli più,
sconfessandoli.
La storia che cominciò a Piazza Fontana,
e che si concluse apparentemente alla fine degli anni Ottanta con gli ultimi
attentati ad personam delle sedicenti Brigate Rosse,
fu una storia di sangue e di lacerazioni interne come nessun altro paese ha
conosciuto, almeno tra quelli considerati nel cosiddetto novero delle nazioni
civili. A ripensarci oggi, pare un miracolo che l’Italia salvasse la forma ed
in parte anche la sostanza della democrazia a cui erano ispirate le sue
istituzioni politiche e civili in virtù della Costituzione del
1947, che non ha mai conosciuto sospensioni, de jure o de facto.
Sia stato da ascrivere alla saldezza di
nervi di coloro che ressero la cosa pubblica in quegli anni, degli
stessi cittadini che non arrivarono mai a chiedere – per quanto sconvolti e
feriti profondamente fossero da bombe e attentati – sospensioni di diritti e
misure normative draconiane, oppure come vorrebbe una certa vox populi
al sostanziale benessere raggiunto dalle nostre Forze Armate al pari del resto
della società italiana che tolse ad esse ogni velleità di partecipazione a
sostanziali disegni eversivi da dentro o fuori lo Stato facendole schierare
invece in sua difesa, qualunque cosa sia stata portò l’Italia fuori dagli Anni
di Piombo profondamente cambiata, ma in meglio e sostanzialmente illesa. Con
istituzioni repubblicane e civili rafforzate e leggi addirittura migliorate,
malgrado per le strade non si riparasse a lavare via il sangue copiosamente
versato.
Il Commissario Luigi Calabresi, additato dalle sinistre come "assassino" di Giuseppe Pinelli |
Resta, a distanza di quarantasette anni,
quella scia di sangue per la quale non è quasi mai stata fatta sufficiente
giustizia. Quella teoria di nomi che affollò i nostri giornali e
telegiornali per un lungo periodo, a cominciare da quello dell’anarchico Giuseppe
Pinelli che volò dalla finestra della Questura di Milano dove veniva
interrogato a due giorni soltanto di distanza dall’attentato, lasciandosi
dietro i veleni di mille supposizioni mai comprovate ed un altro nome da
additare a vendette pubbliche e private, quello del Commissario Luigi Calabresi,
vittima successiva anch’egli di quegli Anni di Piombo.
Quando le indagini sembrarono imboccare
la pista che a tutt’oggi sembra rimanere quella giusta, quella dei neofascisti ordinovisti
Franco Freda e Giovanni Ventura, molte cose
ormai erano deviate, non soltanto quei Servizi che ormai apparivano chiaramente
aver influenzato, se non addirittura orchestrato, tutto quanto. Quando i
processi arrivarono in fondo, era già tempo di Cassazione (ammazzasentenze), se
non di prescrizione.
Quel buco apertosi quarantasette anni fa
nelle nostre coscienze, oltre che nell’emiciclo della sede milanese della Banca
Nazionale dell’Agricoltura a Milano, aspetta ancora di essere chiuso. Assieme a
tutti gli altri che si è portato dietro.
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