TORONTO (Canada) - Un giorno
avrebbe potuto diventare il campione del mondo. Terminava così il ritornello di
una delle più celebri canzoni di Bob Dylan, Hurricane,
la ballata che il cantautore statunitense dedicò a metà degli anni settanta a
colui che era diventato un’icona della battaglia per i diritti civili delle
minoranze di colore in America, al pari di Mohamed Alì, Malcom X, Martin Luther
King.
Rubin Carter, soprannominato Hurricane all’epoca in cui i suoi pugni
devastanti ne avevano fatto uno dei principali pretendenti alla corona mondiale
dei pesi medi nella Boxe, è morto il giorno di Pasqua nella sua casa di Toronto
all’età di 76 anni, dopo aver combattuto l’ultima battaglia di una vita che di
battaglie è stata piena contro il cancro alla prostata.
All’epoca in cui Dylan gli dedicò
la sua chilometrica e suggestiva ballata, Carter era già in galera da quasi 10
anni, accusato ingiustamente dell’omicidio di tre persone e del ferimento di
una quarta nel Lafayette Bar and Grill
di Patterson , New Jersey. La storia è nota a chiunque abbia ascoltato la
canzone, o visto il film che Denzel Washington ricavò nel 1999 dalle memorie
del pugile scritte in carcere, The
Sixteenth Round - from Number 1 contender to number 45472, e dagli atti
della sua lunga lotta legale per ottenere il riconoscimento dell’innocenza
propria e del ragazzo che la notte della strage era con lui, John Artis, che l’aveva
avvicinato per avere un autografo o poco più e non poteva immaginare che ne
avrebbe avuta la vita segnata al pari del suo idolo.
Carter era un ragazzo cresciuto
nel ghetto di Patterson. Infanzia difficile come quella di tanti bambini neri,
anche negli Stati del Nord. Riformatorio, fuga, arruolamento nell’esercito,
congedo, di nuovo carcere, poi la scoperta della Boxe come mezzo di riscatto e
l’ascesa nel ranking mondiale di WBA e WBC. Nei primi anni sessanta Hurricane era ad un passo dal titolo,
che gli fu soffiato da un verdetto (contestatissimo da pubblico ed addetti ai
lavori) di sconfitta ai punti contro Joey Giardiello. Aveva strapazzato poi
quell’Emile Griffith che sarebbe poi stato il durissimo avversario contro cui
il nostro Nino Benvenuti avrebbe conquistato il titolo nel 1967, quando ormai
lui languiva in una cella da più di un anno.
Il 17 giugno 1966, circa un anno
e mezzo dopo che i neri d’America avevano perso il primo dei loro leader, Malcolm
X assassinato durante un discorso pubblico a Manhattan, non molto lontano da lì
nella natia Patterson fu la volta di Rubin Carter di andare incontro al proprio
destino. La sparatoria nel Lafayette
che alcuni testimoni indicarono opera di due neri subito dopo in fuga su una
macchina simile a quella su cui da un’altra parte della città stava tornando a
casa Carter, fu l’occasione che poliziotti corrotti e istigati dall’odio
razziale aspettavano da tempo, per trasformare il destino di gloria del
indomabile e indocile pretendente al titolo mondiale in un destino infame da
pluriomicida galeotto a vita.
Alfred Bello e Arthur Dexter
Bradley, due delinquenti incastrati e manovrati dalla polizia, diventarono i
testimoni chiave di un processo segnato fin dall’inizio, malgrado l’unico
superstite della strage, con l’unico occhio buono rimastogli, avesse indicato
chiaramente che Carter ed Artis non erano gli assassini. L’unica fortuna di Hurricane fu che nello stato di New York
non esistesse la pena di morte, così ricevette ben tre condanne a vita, tante
quante erano le vittime del Lafayette.
A nulla valse la mobilitazione
dell’opinione pubblica, istigata da star dello spettacolo e dello sport che
presero le parti di Carter, in un’epoca in cui le lotte per i diritti civili
stavano progressivamente travolgendo un paese in cui ci si cominciava a
chiedere se il vero nemico fosse il vietcong
che i ragazzi americani andavano a combattere al di là del Pacifico, o non
piuttosto qualcuno che stava lì a casa loro, ben protetto dalle istituzioni.
Nel 1976, all’epoca del successo mondiale di una canzone – quella di Dylan –
che diventò un cult per una
generazione, Martin Luther King era stato ucciso da otto anni, Angela Davis e
le Black Panthers avevano concluso la
loro epopea rivoluzionaria da almeno cinque, stroncati dall’F.B.I. e da
processi non sempre più equi di quello subito da Rubin Carter. E lo stesso
Rubin si era visto condannare una seconda volta nella ripetizione del processo
ottenuta invano dai suoi avvocati.
Perfino Mohamed Alì, che al pari
di lui non si era fatto mai scrupolo di sfidare autorità ed istituzioni
americane ad ogni livello, gli aveva dedicato pubblicamente una delle sue
ultime vittoriose difese del titolo dei massimi, quella contro Ron Lyle. Tutto
inutile, per l’ex ragazzo del ghetto di Patterson i giorni in cui doveva
lottare per non perdere la ragione e la propria libertà interiore chiuso in una
cella si susseguivano uno dopo l’altro, con l’unica prospettiva di durare
quanto la sua vita.
La polizia controllava chiunque
rimettesse mano agli atti del processo in cerca di nuove prove o per rivalutare
quelle disattese tra il 1966 ed il 1976. Testimoni furono intimidati e
costretti a ritrattare o a farsi da parte. Finché un altro ragazzino
proveniente da uno dei tanti ghetti neri d’America riuscì a stabilire prima un
rapporto epistolare e poi un’amicizia con lo sfortunato campione di cui aveva
letto le memorie. E grazie agli amici canadesi che stavano aiutando lui stesso a
studiare e ad uscire dal ghetto fornì a Carter quell’assistenza legale che
finora gli era mancata.
Nel 1985 finalmente il giudice Haddon
Lee Sarokin della Suprema Corte Federale dello stato di New York ebbe il
coraggio di dichiarare iniqui e annullati i processi subiti da Carter,
rimettendolo in libertà. John Artis era già stato scarcerato sulla parola nel
1981, in quanto imputato minore. Carter dovette attendere il 1988 finché la
Pubblica Accusa di New York non gettò definitivamente la spugna rinunciando ad
un terzo processo palesemente infondato, impopolare, e che sarebbe arrivato
perfino dopo un pronunciamento della Suprema Corte Federale degli Stati Uniti
favorevole sostanzialmente all’imputato.
Rubin Carter negli ultimi anni di vita |
Rubin Hurricane Carter si traferì allora a vivere in quel Canada da cui
gli era arrivato l’aiuto insperato quando sembrava ormai che la sua sorte fosse
segnata e la sua vita rovinata per sempre. A Toronto, si impiegò attivamente
nell’Associazione per la Difesa dei
Condannati per Errore. Non potendo riavere indietro i vent’anni di vita
trascorsi ingiustamente in carcere, trovò ragione di vita nell’evitare che
altri dopo di lui conoscessero lo stesso inferno.
Nel 1993 la World Boxing Council (WBC), fatto unico nella storia della Boxe,
gli conferì ad honorem la corona mondiale dei pesi medi, riconoscendo la
fondatezza delle sue pretese sportive che erano state spazzate via la notte del
Lafayette. Nino Benvenuti ha
raccontato come senza Carter da affrontare la sua e l’ascesa al titolo di altri
sia risultata oggettivamente molto più semplice. Hurricane ha avuto fama e successo coronando tuttavia nell’arco
della sua vita tribolata un’impresa molto più grande della conquista di un
titolo sportivo, per quanto prestigioso. La sua figura ricopre un posto nella
storia civile d’America praticamente pari a quello di Mohamed Alì, il più grande.
Ma per quelli che erano ragazzi
quando Bob Dylan compose la sua celebre canzone c’è un ritornello che ricorre
nella testa, e toglie in fondo significato a tutto il resto, anche adesso che
Carter ha finalmente trovato riposo. Un
giorno avrebbe potuto essere il campione del mondo.
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