Coloro che non sanno ricordare
il passato sono destinati a ripeterlo. E’ la frase celebre di Jorge Agustin
Nicolàs Ruiz de Santayana y Borras (filosofo spagnolo considerato il padre
putativo di molti celebri pensatori moderni tra cui lo stesso Bertrand Russell)
che viene premessa spesso a quei documentari sulla Resistenza e la lotta
partigiana che tornano di attualità (o dovrebbero farlo) tutti gli anni alla
scadenza del 25 aprile.
In particolare, è molto bello e
significativo quello dell’incontro tra un vecchio partigiano e alcuni ragazzi
sui Lungarni a Firenze, durante il quale con poche semplici parole in “vernacolo”
fiorentino l’anziano ex-combattente riesce a dare ai suoi giovani ascoltatori
il senso di questa giornata, di quello che significò per chi aveva allora la
loro età, di quello che dovrebbe significare in eterno. «Se vincevano loro (i
nazifascisti, ndr), voi adesso non c‘eravate». E’ il succo e la sintesi di
tutto. Altro in fondo non ci sarebbe da dire.
E invece ogni anno bisogna ritornarci
sopra, con le stesse immagini e gli stessi discorsi, certi che l’anno prossimo
saremo comunque punto e a capo. Non c’è un giorno in cui la nostra difficoltà
intrinseca a diventare popolo si espliciti più del 25 aprile. Ogni paese
ha la sua giornata simbolo: il 14 luglio la Presa della Bastiglia per i
Francesi, il 4 luglio la Dichiarazione di Indipendenza per gli Americani, per
dirne soltanto due. Il nostro, almeno nelle intenzioni di chi ci credeva
consacrandolo di individuare il giorno in cui andammo più vicini a diventare
una nazione finalmente libera, indipendente ed unita, è appunto il 25 aprile.
Sandro Pertini in comizio a Milano il 25 aprile |
Nel ricordo di quella mattina del
1945 in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, nelle persone di
Luigi Longo, Sandro Pertini e Leo Valiani, dette l’ordine ai partigiani
dell’insurrezione finale a Milano, l’ultima città dove le SS tedesche ed i fascisti
repubblichini resistevano ancora. In quelle stesse ore il comandante nazista Wolff
trattava la resa con il Cardinale Schuster e gli angloamericani, e Mussolini cercava
di fuggire verso il ridotto della Valtellina, dove avrebbe voluto
organizzare l’ultima sua difesa, o trattare la sua fuga in Svizzera.
Ci vollero tre giorni, gli ultimi
sanguinosi tre giorni di una lunga serie durata quasi due anni, affinché la
situazione si risolvesse, la Germania di Hitler e la Repubblica di Salò di
Mussolini deponessero definitivamente le armi, e il dittatore italiano finisse
appeso al distributore di benzina di Piazzale Loreto assieme a Claretta Petacci
ed agli ultimi gerarchi fedelissimi. Ma la data convenzionale è quella
dell’insurrezione. Quindi sarà per sempre 25 aprile.
Ma come? La giornata che dovrebbe
unirci è da sempre quella che più ci divide. Anche non considerando i tentativi
di revisionismo storico operati dai nostalgici dei regimi totalitari che
vennero sconfitti in quella lontana primavera, quando viene il momento per
l’ANPI di rispolverare i gagliardetti delle Brigate Partigiane e portare di
nuovo i reduci a riempire piazze e strade a testimoniare il loro coraggio e la
loro vittoria ai più giovani, ecco che la classe politica e la società civile
si dividono più che mai, da sempre. Due schieramenti contrapposti, chi ritiene
di avere da sempre il monopolio della vittoria e quindi della sua celebrazione,
chi ritiene invece di non dover festeggiare perché quella vittoria fu una
questione esclusivamente comunista, e pertanto troppo politicizzata. Come se si
trattasse, da ambo le parti, di andare o non andare alla festa dell’Unità.
Se le cose stanno così per i più
vecchi, come si può spiegare ai giovani perché bisogna ogni anno tornare per
strada a sfilare dietro ai loro nonni, quelli che ancora sono vivi almeno?
Adesso che la maggior parte dei testimoni attori di quella lontana tragedia di Liberazione
se ne sono andati, e che dei pochi che restano solo alcuni, come il vecchio
partigiano dei Lungarni, sanno trovare le parole semplici per spiegare il senso
di qualcosa così lontano nel tempo eppure così presente ancora nel nostro
destino? Perché c’è poco da dire, «non eravamo tutti uguali, noi si combatteva
per la libertà che non avevamo mai avuto, gli altri stavano con Hitler, quello
se avesse vinto faceva pulito!». Come
si fa a spiegare ai ragazzi che oggi hanno l’età che il vecchio partigiano
aveva nel 1945 che di Hitler ce ne sono tanti in agguato, specialmente adesso
che la crisi economica sta preparando loro il terreno, come negli anni 30 del
secolo scorso?
E’ difficile trovare le parole
per far capire ai più giovani il senso della storia. I giovani parlano un
linguaggio più avanti anni luce del nostro. Chi scrive è nato 15 anni dopo la
Seconda Guerra Mondiale. Ma si ricorda bene i racconti di nonni e nonne, padri
e madri, zii e zie. Di come sapevano rendere in modo efficace l’immagine di
quei giorni difficili, perché era stampata a fuoco nella loro memoria. Mio
padre si arrabbiava molto quando vedeva noi ragazzi degli anni 70 che ci tiravamo
la farina fuori di scuola a Carnevale, e mi spiegava che lui aveva dovuto
attraversare le linee tedesche per andare a procurarsela insieme a mio nonno al
mercato nero nelle campagne. Perché in città non c’era più nulla e si faceva la
fame, e mia zia sua sorella aveva due anni e doveva mangiare.
Mio nonno mi raccontava dei mesi
passati sul tetto, d’inverno, perché i repubblichini passavano tutti i giorni a
rastrellare gli uomini adatti al lavoro per i Lager tedeschi oppure per
il ricostituito Esercito del Duce. Mia madre, le mie zie raccontavano l’orrore
(per chi era donna ancor più che per chi era uomo) dei giorni del passaggio del
Fronte, le violenze subite dalle truppe coloniali, le rappresaglie tedesche e
le distruzioni, il sollievo all’apparizione dei primi G.I. americani, che
insieme alle sigarette ed alla cioccolata portavano finalmente la certezza che
la vita non era solo arrivare alla mattina dopo, ma qualcosa che valeva la pena
di essere vissuta e sarebbe stata vissuta anche negli anni a venire.
Oggi leggere non è più di moda. E
allora è forse inutile consigliare ai ragazzi la letteratura sulla Resistenza,
dalla Guerra Partigiana di Giorgio Bocca all’Anno sull’altipiano di
Emilio Lussu, ai resoconti dal Braccio della Morte di Sandro Pertini da Regina
Coeli o di Indro Montanelli da San Vittore. O film come la Ciociara di
Sophia Loren o Tutti a Casa di Alberto Sordi, perché non è un cinema
fatto di effetti speciali. La scuola poi, oltre a essere vittima di programmi
sempre più distratti e inadeguati, non ha più soldi né per le gite né per le
semplici uscite di una mattina, e allora l’eventualità che i nostri ragazzi possano
essere portati in luoghi come Auschwitz, la Risiera di San Sabba o Sant’Anna di
Stazzema è ridotta al lumicino.
In un mondo in cui siamo sempre
più numerosi, e sempre più portati a percepire non solo l’altro ma anche
il vicino di casa come un fastidio, un ostacolo, un pericolo, mentre riprendono
piede e rialzano la testa ideologie e comportamenti ispirati a chi 70 anni fa
stava dall’altra parte, sono sempre meno quindi le risorse a
disposizione di chi vuole far sì che la Storia per una volta sia davvero
maestra di vita, e che non si ripetano errori ed orrori del passato.
La speranza è tenue. Ogni anno
per la Giornata della Memoria si deve constatare quanti e quali sono stati e
sono i popoli a cui è toccato e tocca in sorte l’Olocausto, dopo quello ebraico.
Ogni anno per il 25 aprile si deve registrare come la Giornata dell’Unità
Nazionale se ne scivola via tra l’indifferenza, l’ostilità perfino, non solo di
chi sta seduto in un comodo scranno parlamentare e parla perché tanto sa che
l’immunità gli permette di dire qualsiasi sciocchezza, ma anche di chi sta
attraversando un momento difficile, economicamente e moralmente, e non riesce a
capire in che modo eventi accaduti quasi 70 anni fa dovrebbero interessarlo più
della crisi spaventosa che stiamo attraversando. E il punto è proprio qui. Tout
se tient, tutto è legato. Ma pochi ormai hanno voglia e sono in grado di
spiegare perché. Meglio adagiarsi nell’ignoranza e cavalcare le tigri che stanno
affilando gli artigli.
Queste righe sono le stesse che
si potevano scrivere un anno fa, e, se la situazione non peggiora
ulteriormente, le stesse che si potranno scrivere tra un anno. Il rischio che
lascino il tempo che trovano del resto è insito nel mestiere di giornalista.
Tacere comunque sarebbe già una sconfitta. Tanto più che nuovi venti di censura
e nuove aspirazioni autoritarie ricominciano a soffiare.
E allora, si ritorna sempre a
Santayana. Si può ignorare o dimenticare il passato, ma allora è bene
prepararsi a riviverlo. La memoria storica è un esercizio difficile, ma
necessario. Non tutti quelli che ci spiegano perché le forze politiche e le
autorità istituzionali attuali hanno reso prive di significato le celebrazioni
del 25 aprile vogliono farci necessariamente del male. Come non tutti quelli
che saltano loro addosso indignati dicendo che la Festa della Liberazione non
si tocca ci vogliono bene, o ci dicono la verità.
All’anno prossimo.
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